Già, Andrea...
(riflessioni di Giuliana)

Andrea non compare, appare. Non entra nella stanza, si materializza. All’improvviso, nell’angolo più recondito, appoggiato in terra come uno zainetto.
Tu lo vedi ma non lo guardi: si gioca da professionisti. Passano i minuti, forse li conti, poi, con un impercettibile battito di ciglia, butti lo sguardo incurante là, nell’angolo, ma lo zainetto è già scomparso.
Andrea è il regista. Affascinante,
casual, capelli bianchi sopra un volto cinquantenne raffinato, occhiali leggeri tondi, sorriso dolce, misterioso, schivo. La camicia azzurra di jeans, col collo slacciato. Già, Andrea...
È il
nostro regista. Andrea ogni settimana ci
intervista. In luoghi accuratamente preparati, luci di colori diversi. Ti fa sedere con i fari negli occhi. C’è l’operatore, il fonico. La telecamera cerca l’angolo che Andrea desidera, poi resta fissa. Lui è invisibile, inghiottito dal buio, oltre le luci. Sai dov’è, quando arriva la sua voce e individui la direzione. Andrea ti chiama per nome, con voce piana, rassicurante. Fa domande che nessuno ti rivolge da almeno vent’anni, a te, un
senior italiano invisibile per la maggior parte degli abitanti di questo curioso Paese. Già, Andrea ti chiede; chiede di te, di rapporti, d’amore, amicizia, sesso, tabù, musica. Ti chiede giudizi su cose, persone, politica; chiede di religione, Dio, morte, dolore,
chi siamo, da dove veniamo, dove andiamo.
Andrea cerca anche di farti dire cose cattive, pettegole, su qualcuno del gruppo, su situazioni o sofferenze appena vissute, si interessa del tuo stato d’animo (è il suo mestiere...), ma nessuno all’inizio dà peso a questi tentativi, che avranno poco successo. Solo qualcuno di noi si presterà subito al gioco e voglio sperare che
si vergognerà quando, finito tutto, si guarderà la registrazione a casa, da solo.
Comunque Andrea ti chiede, e la tua anima fragile non vede l’ora. Con lui, lì, in segreto, si fa bella e rivela i suoi angoli più segreti. Già, Andrea, quante storie in quella stanza magica con le luci colorate... lacrime...
Poi, improvvisamente, ti dice: “Grazie, Giuliana”. La
seduta, pardon, l’intervista della settimana è conclusa.
Te ne vai, leggero. Ti piaci. Ci pensi e ripensi. Quell’intimità appena vissuta è un segreto, una complicità; non lo racconti agli altri, ti appartiene, sei il solo ad avere questo rapporto privilegiato.
È scattato immediato, perfetto, il transfert dell’analisi. (Ma l’analisi, alla nostra età - ho letto da qualche parte -, può essere pericolosa... Figuriamoci... E poi le cose belle che ho detto verranno trasmesse da Rai Tre, chissà quante persone si riconosceranno...). L’
io invece di preoccuparsi non sta più nella pelle. Conta i giorni per arrivare al prossimo appuntamento.
Sono necessari più di due mesi prima che le
troppe contraddizioni e sofferenze ci spingano a confidarci che tutti,
donne e uomini, siamo
innamorati di Andrea.
Questo raccontarsi, darsi, è un rapporto
d’amore vero. Perché Andrea è anche un simbolo, la TELEVISIONE, quella che noi gente comune, telespettatori, ha imparato a vivere quasi sempre come
cattiva, mentre con Andrea,
adesso la televisione è buona.
Ma è il dubbio, il sospetto sul suo ruolo e sull’utilizzo che lui potrà fare delle nostre anime a spingerci a cercare conferme e conforto dentro il gruppo (già decisamente provato). Siamo guardinghi, sospettosi ormai, ma il meccanismo del transfert non si rompe, desidereremo sempre e ancora andare da lui; non sarà più magico, intuirai di poterne essere vittima, ma durerà fino alla fine, andremo tutti fino in fondo a questo gioco che, dopo, sarà vissuto per molto tempo come un tradimento.
Già, Andrea...
* * *
Da mesi vivo in bilico. Lasciar scorrere via pian piano l’esperienza fatta dentro una televisione nazionale per 100 giorni insieme ad altri 13 compagni, pensando, come in realtà potrebbe essere, che è stato un bel gioco affascinante e crudele, oppure trattenere tutte le emozioni vissute, cercare di elencarle una per una, analizzarle, mettere i puntini sulle i?
La prima ipotesi,
mettiamocela via, è quella che in genere nella mia vita ho preferito. Girare la pagina. Ho ancora molta voglia di guardare avanti, mille curiosità da soddisfare e poco tempo da dedicare a cose e persone. Mi piace vivere col fiatone, ho un lavoro che mi interessa, la velocità e la ferocia dei fatti del mondo mi coinvolgono e, ancora una volta, potrei pensare:
preferisco vivere.
La seconda strada è più difficile perché contorta, sicuramente più liberatoria, ma con tempi più lunghi e impegnativi, che in realtà si traducono in pensieri da fermare, tempo da dedicare, analisi da approfondire, rapporti umani da rimettere in gioco, giudizi da dare, domande da ripormi, figure che sembrano già uscite di scena, che invece sono ancora lì, a un passo da me, alcune ficcate dentro di me. Insomma,
preferisco soffrire e capire?
Ma cos’è che voglio capire, quello che ho già capito per raccontarlo ad altri, oppure srotolando il tutto, compresa l’amarezza, ci sarà qualcosa di nuovo anche per me?
In realtà qualcosa di totalmente
nuovo è già accaduto. Il fatto che una persona come me, persona comune ma
non comune nei percorsi della vita, formata, impedita e soffocata dalla torinesità, formata da pensieri
forti, presenza costante e affidabile, occhi bene aperti sulle svariate realtà, accetti alla fine di una lunga indecisione di partecipare ad una
effimera (e fino ad allora snobbatissima) trasmissione televisiva, e si giochi 100 giorni di vita (ma saranno tanti, tanti di più) dentro un reality show solo per avere letto sul giornale il nome di Angelo Guglielmi fra gli ideatori.
Già, è andata proprio così. Io, innamorata dei versi di Bertold Brecht
“Che tempi sono questi, quando parlare d’alberi sembra un delitto...”, io me ne parto all’alba del 1° settembre con l’angoscia di lasciare i
miei doveri sulle spalle di altri, salgo su un aereo che mi intimoriva fino a poco prima, e dopo pochissimo mi trasformo ed entro nel meccanismo televisivo, ci entro
totalmente tanto da interessarmi e nutrirmi solo di quello fino alla fine. Il
pensiero debole è entrato nella mia mente oppure le mille facce del meccanismo televisivo possiedono una forza tale da farmi prigioniera?
* * *
Prigioniera? No, è molto più complicato. Ed io nei panni della vittima non riesco proprio a riconoscermi. È più complicato. Da quanti anni, da buona telespettatrice che sa usare il telecomando, riesco a ritagliarmi comunque tutti i possibili spazi decenti o anche belli e bellissimi che la televisione sa offrire? Un’utente
d’essai.
Così, con questa consapevolezza, entro
dentro la TV. Lei riprende, incessante. Io la osservo instancabile. Macina e macina, immagini e parole, atteggiamenti, espressioni, stati d’animo, vanità, esibizionismi, ma anche timidezze, ritrosie, curiosità voraci, diffidenze tossiche. Anche un’utente
d’essai non riesce a sottrarsi alla mole di immondizia mediatica quotidiana e matura nel tempo un sano e profondissimo odio-anticorpo. In quale di queste differenti televisioni sarò capitata? Ma diamine, questa è Rai Tre! Eppure la paura di invisibili intellettuali con occhi cattivi, mi resta dentro.
Quasi tutti, nel gruppo, come me, guardano la televisione che ci guarda. Ognuno reagirà in modo differente, ciascuno giocherà e,
alla fine, soffrirà in modo differente. Ognuno,
alla fine, scoprirà la propria, inimmaginabile, umana, ingenuità.
Perché,
alla fine, soffrirà?
Negli ultimi giorni ci dicono che è stato battuto un record: sono state fatte 1040 ore di riprese. 1040 cassette. Sono andate in onda 25 ore. Il resto (1015 ore) dov’è? Quali sono le 1015 ore scartate? Che cosa, non ci sarà? Chi? Saremo ancora noi? Cominciamo a discutere seriamente su come fare per portarci a casa le nostre mille ore. Non ci rassegniamo a lasciare nei magazzini tutta quella parte scartata della nostra vita. Decidiamo di chiedere di poter acquistare le cassette, ma siamo sui 10.000 euro... Non è possibile. La sensazione di disperdere momenti per noi determinanti, sarà, dopo, un’amara certezza.
C’è una regola assoluta per noi protagonisti: poter vedere il trasmesso soltanto alla fine, al ritorno a casa. SOLI.
I fortunati, non avranno trovato parenti disponibili a registrare il tutto.
I saggi, non avranno predisposto volutamente i mezzi per registrare.
I rimanenti (della serie,
continuiamo a farci del male), guarderanno quasi tutto (mancano parecchie
strisce quotidiane, ma la curiosità non si spingerà oltre).
Dettaglio importante:
nessuno guarderà subito le registrazioni.
Passeranno giorni (per alcuni, settimane) prima di vincere l’avvertimento di paura che il cosiddetto sesto senso seguita a pulsare.
I coraggiosi che guarderanno, lo faranno comunque,
tutti, per scelta, in solitudine. Aspetteranno che non ci sia in giro anima viva.
Alcuni, pur avendo le registrazioni, decideranno, almeno fino ad ora, metà aprile 2004, di
non guardarle.
Siamo
senior, siamo fragili. Già, Andrea... Lo so, quando l’ultimo giorno mi hai chiesto un giudizio su questa esperienza ti ho risposto: “Splendida”. Ed è sicuramente splendida un’esperienza che ti lascia un segno di profonda emozione come quella che mi spinge a tentare di scriverla per riviverla e capire il perché di questo magone-sensazione di una splendida, ultima occasione
perduta.
Eppure, critici e telespettatori (il nostro 4%), premiano il tuo lavoro fino in fondo. La gente che continua a fermarci per strada si congratula e ringrazia per la bella trasmissione; a Rai Tre arrivano valanghe di e-mail a dir poco entusiaste. Quando torniamo a casa, moltissimi ci raggiungono con lettere e telefonate da ogni parte d’Italia.
Ma allora io, noi, cosa andiamo cercando? Cos’è il malessere che ci fa stare in pena?
Già, Andrea... È proprio questo che voglio cercare di capire e di spiegare.
* * *
Appena varcata la soglia della casa a Castel S. Pietro, lascio fuori una parte della mia personalità cui tengo tantissimo: la dignità di poter godere del mio status di persona comune, invisibile e anonima,
integra. Appena accetto, appena firmo, appena
entro divento, diventiamo,
fenomeni da circo (mediatico). Chi sta dall’altra parte acquisisce automaticamente il diritto ad analizzarmi come tale. Già... Una lievissima, quasi impalpabile, ma strisciante disistima emerge di tanto in tanto, mescolata a legittime curiosità professionali. Sei comunque
una che ha accettato di venire per farsi riprendere e intervistare. È la prima sofferenza. Non potrà esserci
parità, e questo, per le mie abitudini, non è affatto secondario. Potevo metterlo in conto
prima, ma chissà quale ingenuità mi ha fatta partecipare, con l’illusione di poter dire a tante persone le mie riflessioni sulla vita passata e anche presente. Ma, penso, avrò cento giorni per trovare le parole e dimostrare che
il fenomeno non sono io, bensì l’Occhio che mi guarda. Alcuni di noi sono venuti proprio con questo proposito (un bell’esempio di delirio d’onnipotenza).
La prima etichetta di
fenomeno che mi viene appiccicata è il fatto di essermi sposata tre volte.
Ma che cosa, invisibilmente, si vuole rappresentare del mio percorso inconsueto? Una vita irregolare, alternativa,
contro (come l’ha definita lo psicologo alle selezioni), o, più subdolamente, tre matrimoni sono comunque una situazione intrigante, pruriginosa... televisivamente parlando (la Liz Taylor dei poveri); oppure ancora, nel mio specifico caso, una contraddizione
piccolo borghese? Ecco! Potrebbe essere tutto questo. Anche Liliana, una sera, improvvisamente me lo rinfaccia sprezzante, come un fatto quasi disdicevole. Sorrido fra me e me. Però è giusto che tenti di spiegare la mia vita difficile, complicata e, per me, bellissima. Sono venuta per questo. Sottrarsi ora, non avrebbe senso. Il gioco comincia ed io mi metto in gioco. La mia vita è stata vissuta severamente. Prima regola: la coerenza. Ci tengo da morire a spiegare la moralità della coerenza; una scelta, per me, indispensabile, difficile, rigida da vivere, molto, molto
torinese. Ci provo, spiego. O mi sto già difendendo?
Per la cronaca: mi sposo ragazza nel 1961 e per totale inesperienza ci separiamo nel 1964. Ottengo il divorzio nel ‘74, insieme a milioni di italiani. Ho un nuovo compagno, Enrico, ma non conviviamo. Io ho la mia piccola casa, lui sta ancora in famiglia in procinto di laurearsi. In quegli anni non esiste il
servizio sanitario gratuito per tutti i cittadini, ma soltanto per coloro che hanno un lavoro regolare. Bene, Enrico ha già un lavoro regolare; io no. Faccio attività politica e vivo del mio lavoro di fotografa. Devo affrontare un intervento superiore alle mie finanze. Enrico produce un’idea brillantemente
politica: sposarci, poiché diventando sua moglie avrei avuto diritto al tutto gratuitamente. Per noi non

cambia niente, e ci diverte
fregare il sistema. Ci sposiamo, in municipio, in mezz’ora, come nei film francesi, senza l’ombra di una cerimonia, col cappotto di tutti i giorni, una rosa rossa alla sposa, un brindisi al bar di fronte al Comune. Il viaggio di nozze lo faccio in ospedale. Due fenomeni? Forse. Di piccolo borghese neanche l’ombra...
Anche questo amore col tempo si esaurisce, finisce per tutti e due,
anche se non contemporaneamente. Siamo amici, fratelli per sempre.
Dopo anni di vita, scelta, DA SOLA, conosco Riccardo. Viviamo in una comune, dove si dividono rigorosamente affitto, costi e turni della spesa, pulizie, stanze. Siamo in sei, ben amalgamati. Dividere le spese ci permette il lusso di abitare in un bel palazzo del centro, un alloggio spazioso, con un grande terrazzo. Si sta bene, un bel periodo di consapevolezza e maturità. Poi, dopo anni, mio padre si ammala gravemente e trova il coraggio di chiederci di sposarci per interrompere una vita, lui ritiene, da zingari. Gli restano sei mesi.
Ci guardiamo, e ci sposiamo con le medesime modalità (papà non s’è accorto che la sua ragazza ribelle è ormai una donna matura). Dopo il sì, invece del brindisi in piedi, pranziamo in dodici fra parenti e amici, e quella volta invece del cappotto indosso il tailleur e Riccardo un abito blu. La rosa rossa è diventata un bouquet per la sposa. Il viaggio di nozze, però, ce lo neghiamo con determinazione. Ora stiamo insieme da quasi vent’anni. Mio padre se n’è andato da troppo tempo.
NIENTE DI NIENTE.
Niente di niente. Tutto questo l’Occhio lo scarterà. Sceglierà che io resti
quella dei tre mariti... E...
basta. E anche questa, lo riconosco, è la verità. Spogliata di tutta la vita che c’è stata dentro, ma è la verità.
Già, Andrea...
P.S.: Ah! Volevo rivelarvi che l’istituzione del matrimonio civile, se liberato dalla galera delle parole
“per sempre”, laicizzato dalla possibilità di divorziare, possibilmente basato su reciproche autonomie economiche, è semplicemente un servizio che può essere utilizzato (o non utilizzato) da chiunque, senza assumere alcun connotato ideologico o morale. Chi, scegliendo di
non sposarsi, lo faccia pensando di essere
alternativo o
trasgressivo, se ha più di trent’anni mi fa tenerezza.