Lettere al Lettore
Giungo ben ultimo in questa assise di scrittori, poeti e cantautori, perché, da buon montanelliano di ferro, e quindi Bastian contrario, non avevo voluto il sito, per cui ritenevo di non dovervi collaborare. Ma, essendo anche un fottuto maschilista che ama le donne, mi sono dovuto arrendere proprio a due donne: le “Supersenior” Giuliana, che mi ha lavorato ai fianchi, e Liliana, che ha sferrato l’uppercut finale.
E, allora, eccomi qui e scusate il ritardo. Vi darò, ovviamente, la farina del mio sacco, nella speranza che vi piaccia.
Il mio spazio sarà suddiviso, come gli altri, in sezioni. Cominciamo dalla prima, dedicata alle “Lettere al Lettore”: spunti e appunti di vita quotidiana.
Napoli, 11 gennaio 2008
Giuseppe
Colpi di sole
Caro Lettore,
agli inizi di agosto ho letto che Berlusconi era indeciso su dove trascorrere le vacanze: se in una delle sue tante ville sparse per il mondo, magari utilizzando un nuovissimo aereo che si aggiunge alla sua già consistente flotta, oppure su una barca. Qualche giornalista maliziosetto ha scritto che egli, quest’anno, intendeva sottrarsi alle numerose persone che gli si affollano intorno ma ci credo poco. Il Cavaliere senza pubblico plaudente alle sue battute ed alle sue barzellette, non me lo so proprio immaginare. Per quest’anno, forse sono in ritardo. Ma, per il prossimo, vorrei suggerire al Berlusca di non far ridere sempre i soliti suoi ricchi amici, ma di far sorridere anche i poveri, scegliendoli magari tra quel 51 per cento di italiani che quest’anno non sono stati in grado di concedersi ferie di nessun genere. Potrebbe invitarne un certo numero in una delle sue tante proprietà e trascorrere con loro il Ferragosto, raccontando barzellette e cantando con il fido Apicella. Se è vero che “anche i ricchi piangono”, egli accrediterebbe un altro detto: “anche i poveri ridono”.
L’antagonista del Berlusca, Prodi, archiviato il problema vacanze che, per un presidente del Consiglio in carica, è sempre relativo se l’è presa con i preti che non farebbero abbastanza per combattere l’evasione fiscale. Devo pacatamente constatare che Prodi non ha cercato di insegnare al Papa il suo mestiere, come molti pennivendoli cercano di fare in tante occasioni, ma si è contentato di salire in cattedra solo con i semplici preti. Non so se per consapevolezza dei suoi limiti o per cos’altro. In ogni modo, prosit (è ciò che si dice al prete dopo che ha celebrato Messa).
Per qualche tempo c’è stata l’affrancatura ordinaria delle lettere e quella “prioritaria”. Si spendeva qualcosa in più ma si aveva la speranza che la corrispondenza giungesse in tempi non biblici. Poi tutto è cambiato. Oggi i francobolli sono tutti per posta “prioritaria”, quella “normale” è scomparsa. Insomma, si paga di più per ottenere sempre lo stesso risultato.
Un deputato ha deciso di trascorrere una notte in albergo con “una di quelle”. Tutto sarebbe filato liscio se non fosse sopraggiunto un fatto di droga che ha richiamato la pubblica attenzione e commenti a non finire, come sempre più a sproposito che a proposito. Ma la palma della originalità spetta ad un politico, il quale ha proposto di corrispondere ai parlamentari i quali, come è noto, versano in precarie condizioni economiche una “indennità per ricongiungimento famiglia”. Insomma, sembra di capire, se quel deputato avesse avuto la moglie accanto, potendoselo economicamente permettere, non si sarebbe accompagnato ad una prostituta. Resta da capire come mai milioni di uomini in tutto il mondo pur avendo accanto mogli, fidanzate, amanti vadano alla ricerca di altre donne, anche di “quelle lì”. Suggeriamo al politico suindicato di proporre la corresponsione, a costoro, di una “indennità di fedeltà”.
Il ministro dell’università, Mussi, ha deciso di porre un freno alle lauree “honoris causa” che, a suo giudizio, sono elargite con troppa disinvoltura dagli atenei. Forse sarebbe il caso di cominciare a chiedersi se non siano state elargite con troppa disinvoltura le autorizzazioni all’apertura di nuovi atenei, la cui proliferazione, con il conseguente aumento esponenziale delle cattedre, ha generato uno spaventoso crollo della qualità dei docenti e dei discenti. Ai quali la pubblicità stradale offre lauree in poco tempo ed a prezzi stracciati. E, come è noto, quando si imbocca a tutta velocità una strada in discesa, è poi difficile azionare i freni.
Si continua a morire sulle strade. Ci sono fatalità (lo scoppio di una gomma, il tir che va nella corsia opposta) ma ci sono, soprattutto, responsabilità. Di guidatori che hanno bevuto alcolici o assonnati o rintronati da stereo mandati a tutto volume. E di governanti che, anziché gingillarsi con i limiti di velocità, dovrebbero 1° procedere ad una revisione generale delle patenti, 2° disciplinare in modo drastico il rilascio di nuove patenti.
Antonio Bassolino è ufficialmente indagato dalla magistratura per la faccenda della monnezza a Napoli. Bassolino è stato due volte sindaco e poi presidente della giunta regionale, anche se si fa chiamare (ma il “vizietto” è comune a tutti gli altri suoi colleghi) “governatore”, un titolo che semplicemente non esiste nel vocabolario giuridico. Lui, com’è suo diritto, si dichiara innocente, pur essendo stato “commissario straordinario” proprio per la monnezza ed afferma di non volersi dimettere. A scuola una volta si insegnava che la moglie di Cesare non solo deve essere casta e pura ma deve anche apparirlo. Ma la scuola cambia, così come cambiano i tempi.
Il 2 agosto ho ricevuto un “sollecito di pagamento” dall’agente della riscossione della provincia di Napoli, “Equitalia Polis spa”, che ha sostituito la “Gestline”. Nei confronti di quest’ultima società si erano avute proteste di organizzazioni politiche e di cittadini scesi addirittura in piazza per le sue procedure che “generano un preoccupante disagio sociale, in virtù delle centinaia di migliaia di avvisi di pagamento per cartelle esattoriali relative a tributi non più esigibili o prescritti, con effetti devastanti anche sulla proprietà privata, attraverso l’attivazione di procedure ipotecarie sulle abitazioni dei malcapitati contribuenti e la conseguente vendita all’asta sulla base del valore catastale degli immobili, piuttosto che sul reale valore di mercato”, come si legge nella denunzia di un membro della commissione attività produttive del consiglio comunale di Napoli. Il “sollecito di pagamento” da me ricevuto si riferiva ad una cartella notificatami il 24 marzo 2003, che, ritenuta appunto “pazza” (era relativa alla mia dichiarazione dei redditi del 1999, nella quale dimostravo addirittura un credito di imposta), mi era stata “sgravata” dall’Agenzia delle entrate, con suo provvedimento, sin dal 15 aprile 2003. Riepiloghiamo. “Cartella pazza” dopo 4 anni dalla dichiarazione, “sollecito di pagamento” dopo altri 4 anni dallo sgravio. Preciso che la somma richiestami era di circa 13.000 euro, dunque non una bazzecola. E tutto questo perché io sono noto, da sempre, al fisco. Domanda: ma non dormono sonni più tranquilli quelli che sono sconosciuti al fisco?
Nella diretta televisiva trasmessa sul sito della Camera dei deputati del dibattito sulla decadenza di Cesare Previti (31 luglio 2007), ho sentito il deputato Maurizio Turco (della “Rosa nel pugno”) affermare: “Ogni giorno in quest’aula si viola la legge”. Nella stessa diretta, ho visto alcuni deputati che conversavano a telefono, talvolta con aria divertita, mentre i loro colleghi parlavano all’aula e quindi anche a loro. Ne ho dedotto che in quell’aula si viola anche la buona creanza.
(Da Bollettino tributario d’informazioni, n. 15-16 del 2007)
Colpi di luna
Caro Lettore,
il giorno prima di andare in vacanza, il 3 agosto, il Consiglio dei ministri si è affrettato a varare una serie di provvedimenti tra i quali la riforma dei cosiddetti servizi segreti. “Cosiddetti”, perché credo che in nessun’altra parte del mondo i segreti dei servizi segreti vengano periodicamente spiattellati in pubblico come avviene in Italia. Apprendo così che il Dis prende il posto del Cesis, l’Aise del Sismi e l’Aisi del Sisde. Gli organismi appena sostituiti avevano a loro volta sostituito i preesistenti organismi allorquando era stata varata la precedente riforma dei cosiddetti servizi segreti. Secondo me, i servizi segreti sono il diavolo ma in Italia lo si vuole conciliare, periodicamente, con l’acqua santa. Ecco perché il meccanismo non funziona e periodicamente va in tilt.
Il Consiglio dei ministri ha anche varato un decreto-legge che inasprisce le sanzioni per la circolazione stradale, allo scopo di fronteggiare l’ecatombe che quotidianamente si verifica su strade ed autostrade. Il decreto-legge non sembra avere molte possibilità di essere convertito in legge nei termini prescritti, anche perché in parlamento è in corso di esame un provvedimento più organico sulla circolazione stradale. Il governo non ignora la situazione, tant’è che all’art. 6, comma 4, nel dare mandato al ministro della Salute di varare un provvedimento di attuazione, gli dà tre mesi di tempo, ossia uno in più del termine stabilito per la conversione del decreto. Come dire: non darti tanto da fare, perché non se ne farà nulla. Si può già immaginare il caos giuridico che conseguirà dall’applicazione temporanea del decreto-legge.
Sempre prima di chiudere per ferie, la Camera ha approvato una risoluzione con la quale, in buona sostanza, impegna il governo ad attivarsi per vedere se non sia il caso di utilizzare le riserve della Banca d’Italia per ridurre il debito pubblico. Mi è così tornato in mente ciò che mi raccontava Epicarmo Corbino, l’illustre economista che è stato ministro del Tesoro subito dopo la guerra. Mi raccontava che, per ricostituire le riserve della Banca d’Italia, egli mandava finanzieri in borghese ad acquistare dollari di contrabbando in piazza Colonna a Roma. Penso che si sia già rivoltato nella tomba nell’apprendere quale ingloriosa fine dovrebbero fare le riserve dell’Istituto di emissione.
“È una situazione di immoralità diffusa in cui il cinismo dilaga insieme alla sete insaziabile di denaro. Nella vecchia Democrazia cristiana, almeno, c’era chi aveva il senso dello Stato, che adesso è andato a farsi benedire”. Lo ha detto Alberto Crespi, noto penalista. “Il problema vero è che la corruzione è ripartita alla grande. Tanto che negli anni di Tangentopoli era forse meno diffusa di oggi”. Lo ha detto Giulio Sapelli, storico ed economista. Entrambi si riferiscono al numero impressionante di indagini giudiziarie che vedono coinvolti politici di ogni tendenza.
“Liberazione” è il quotidiano del partito della rifondazione comunista. Il partito della rifondazione comunista fa parte della coalizione che governa l’Italia. Il 5 agosto “Liberazione” ha scritto che “la politica del governo è antipopolare e comunque non funziona”. Dunque bisogna preparare un autunno non solo “caldo” ma addirittura “rovente”, fatto non di una ma di “cento e mille mobilitazioni della sinistra”. Forse ho capito che cosa sono i “partiti di lotta e di governo”: da un lato, detengono il potere incollandosi a poltrone del bosco e del sottobosco pubblico, dall’altro, scendono in piazza per manifestare contro se stessi. È un modo per avere sempre ragione.
Da molti anni, la scuola è diventata palestra per sperimentazioni di nuovi modi di insegnare, di imparare, di socializzare. Ministri di varia estrazione hanno fatto, disfatto, rifatto. Ce ne hanno fatto sentire di tutti i colori. Ma la novità più rilevante è che i genitori, che una volta solidarizzavano con gli insegnanti, ora solidarizzano con i figli e ricorrono ai giudici per le bocciature. Qualcuno si chiede perché. Ma è ovvio. I genitori di oggi sono figli di questa scuola, sono stati pessimi studenti ed ora sono anche pessimi genitori. Se, come professione, hanno scelto la cattedra, sono pessimi insegnanti. Se poi per caso diventano ministri della scuola, non possono certo cambiare dall’oggi al domani.
L’oncologo Umberto Veronesi ha preannunziato che, nel giro di due o tre generazioni, le differenze tra i sessi scompariranno e tutti saranno bisessuali. In tempi non sospetti (anno 2004, alle pagine 590 e 756 del nostro Bollettino) ho dato “La parola agli esperti”, documentando come gli esperti non ne hanno mai azzeccato una, che è una. Veronesi è certamente un esperto. In attesa che al celebre scienziato venga conferita la presidenza, se non altro onoraria, dell’Arcigay, i napoletani eterosessuali, allo scopo di tutelare figli, nipoti e pronipoti, si sono messi a fare gli scongiuri.
Selezione di domande che giornalisti radiotelevisivi o della carta stampata pongono agli intervistati. All’allenatore della nazionale di calcio che ha appena perso 3-1 con una squadra sottostimata: “Che cosa si prova a perdere in misura così netta?”. Al padre di una ragazza assassinata (forse) dal suo fidanzato: “Che cosa prova a perdere così una figlia?”. All’alluvionato che ha dovuto abbandonare la propria abitazione ed ha dormito sotto un ponte: “Che cosa si prova a trovarsi privati di tutto?”. Una domanda che nessuno pone ai suddetti giornalisti, e più ancora ai direttori delle testate che stampano o mettono in onda domande così intelligenti: “Che cosa provate quando vi guardate allo specchio la mattina?”.
Chi ha detto che i napoletani sono infingardi? Non solo lavorano, ma lavorano anche quando gli altri vanno in ferie. Come quell’assessore regionale che, in pieno mese di agosto, ha pubblicato un bando di concorso per consulenze esterne per un ammontare di oltre 17 milioni di euro. La Regione Campania, come penso sia noto, è governata dalla sinistra, per cui la destra è subito insorta. “È un esempio che il tutto è finalizzato a comprare consenso attraverso il collaudatissimo metodo delle consulenze esterne”, ha detto uno. “Con un’economia in affanno, è veramente scandaloso approfittare del periodo estivo per progettare nuove consulenze esterne”, ha detto un altro. “Ormai la giunta Bassolino non ha più pudore”, ha aggiunto un altro ancora. Ma, per la verità, nemmeno la sinistra è soddisfatta. “Sono perplesso e stupito per la scelta di pubblicare il bando in agosto. Discutibili anche i meccanismi di selezione”, ha detto un esponente di Rifondazione comunista. E lo stesso segretario dei Democratici di sinistra ha detto che l’assessore dovrà chiarire tutto. Come se non bastasse, arriva “L’espresso”, che non ha certo simpatie per la destra, a sparare ad alzo zero. Ha corredato un servizio intitolato: “Ragnatela Bassolino”, con due sommari. Il primo: “I pm lo incriminano per i rifiuti. Il turismo è in crisi. L’economia langue. Ma il presidente è sempre più forte. Ecco perché”. Il secondo: “Il partito del presidente ha un controllo capillare su nomine e fondi pubblici che gli garantiscono il consenso”.
(Da Bollettino tributario d’informazioni n. 17 del 2007)
Colpi di testa
Caro Lettore,
Indro Montanelli, in vita sua, ha fondato due quotidiani: “Il Giornale” e “La Voce”. Entrambi avevano una caratteristica fermamente voluta dal loro fondatore e direttore: nessun articolo aveva un “riporto” in altra pagina. La lettura, quindi, avveniva in modo placido e rilassato. Chi era interessato ad un articolo, di qualsiasi pagina, poteva cominciare e finire la lettura in pochi minuti e senza fastidi. Ahimè, il suo esempio non è stato seguito da nessuno, nemmeno da coloro che da lui hanno ereditato “Il Giornale”, che si è dunque uniformato all’andazzo generale. Se i direttori, i redattori e comunque i responsabili delle varie testate si rendessero conto della pena che infliggono al lettore di andare avanti e indrè nelle pagine, che spesso si spiegazzano e si sfilacciano, a causa di un rinvio che non raramente risulta pure errato, forse ricorderebbero la lezione del Maestro. Chissà che la disaffezione per la lettura dei giornali non abbia una delle sue cause anche in questo modo dissennato di impaginarli.
Il TG5 delle 20 di mercoledì 29 agosto è stato condotto da una conduttrice, alla quale sono state fatte leggere le seguenti parole: “Le molestie sessuali non costituiscono reato da codice penale ma al massimo civile”. Il servizio giornalistico spiegava poi correttamente come, a parere del giudice, le molestie non sono previste come reato dal codice penale, per cui possono dar luogo soltanto ad un risarcimento in sede civile. Succede tutti i giorni che coloro che scrivono i titoli, anche della carta stampata, o non hanno letto l’articolo o non lo hanno capito. Nella famosa “Sala Albertini” del “Corriere della Sera”, intorno alle pareti esistevano numerosi scaffali per contenere dizionari, guide, atlanti e tutto quanto insomma potesse aiutare i redattori a non scrivere sciocchezze. Ma oggi, evidentemente, i giornalisti hanno un computer nel cervello e possono fare a meno di documentarsi.
A proposito di “Corriere della Sera”. È stato per oltre un secolo il quotidiano più autorevole, più diffuso, più curato. Sta facendo di tutto per perdere le sue caratteristiche. E non mi riferisco tanto al famoso editoriale con il quale il suo direttore, alla vigilia delle ultime elezioni politiche, lo schierò a sinistra, uccidendo la sua tradizione di assoluta indipendenza, ma alla stessa fattura quotidiana del giornale. Altro che “Sala Albertini”, chissà dove hanno la testa i redattori quando siedono dinanzi ai loro computer. Oggi, per esempio, 19 settembre, a pagina 13, nell’elencare gli “strappi” del deputato di Rifondazione comunista Francesco Caruso (assolto dal suo partito per gli insulti rivolti a Marco Biagi e Tiziano Treu), scrive con bella evidenza: “Nel novembre 2007 Caruso dichiara: «Ho seminato marijuana nelle fioriere della Camera, sono già spuntati i primi germogli»”. Peccato che il novembre 2007 sia ancora di là da venire.
Stamattina, nel consultare le “Pagine gialle”, mi è caduto l’occhio sulla seguente inserzione: “Dott. Cav: ... . Nobiluomo dell’occulto Conoscitore dell’ignoto Parapsicologo, sensitivo, astrocartomante, veggente, medium, detentore di fluidi magnetici Erborista, cristalloterapeuta. Ti aiuta a risolvere ogni problema (amore, lavoro, affari, salute ecc.) con potenti rituali di alta magia. Specializzato in problemi sentimentali, ritorni d’amore, crisi coniugali, infedeltà, allontanamento di amanti, ricerca del partner, solitudine, sterilità, impotenza ecc. Maestro di legamenti ed incantesimi indissolubili, risolve amori impossibili”. Che s’adda fà pé campà.
Anche l’estate 2007 come quella che l’ha preceduta e, presumibilmente, come quelle che la seguiranno è stata caratterizzata da incendi di verde. Domina il dubbio che la regìa sia affidata a speculatori che intendono “creare” aree fabbricabili. Anche in questo, occorre riconoscere ai napoletani un’inventiva fuor del comune ed una lungimiranza davvero notevole. Infatti, già all’indomani della guerra, alcuni di loro si preoccuparono si sottrarre aree verdi ai futuri incendiari, eliminando essi stessi il verde con sistemi meno pericolosi e cementificando il terreno risultato libero. È così che le colline di Posillipo, del Vomero, dei Camaldoli, sono state sottratte agli incendiari. A quegli “illuminati” palazzinari bisognerebbe conferire una qualche importante onorificenza.
Se avessi fatto il pilota di formula 1, così come mi sarebbe piaciuto, mi sarei dovuto rassegnare a vivere per un paio di ore in una scatola metallica e pazienza. Ma, al di fuori dei circuiti, avrei voluto comunque una macchina ampia, spaziosa, diciamo una specie di salotto su quattro ruote: una Maserati quattro porte, per esempio, oppure una Jaguar, con quei disegni classici che nulla hanno da spartire con le scatolette di acciughe o con le jeep che potevano andar bene in guerra. Ma i gusti sono gusti e non posso certo contestare chi si adatta ad entrare in un’auto facendo le contorsioni. Questo per dire che sono rimasto piuttosto perplesso nel leggere della nuova Lamborghini alla quale è stato imposto il nome di “Reventòn”, che è quello del toro che uccise nel 1943 il matador messicano Felix Guzman. Si tratta di un “bestione”, come afferma un esperto, di 6.500 di cilindrata, con una potenza di 650 cavalli ed una velocità di oltre 340 chilometri all’ora. Le cronache informano che ne verranno prodotti soltanto venti esemplari, che sono stati già venduti in quattro giorni. Meno male, così non avrò nemmeno la tentazione di acquistarla. Dimenticavo di dire che il novello toro meccanico costa un milione di euro, ossia due miliardi circa delle vecchie lire. Così si può sempre imitare quella volpe che, non riuscendo ad arrivare all’uva, diceva che era acerba.
Il comico Beppe Grillo sta creando uno sconquasso nel mondo politico. Parecchi anni fa, recitava in un teatro di Napoli e volli andarlo a sentire. Poiché ha una salivazione piuttosto abbondante, e mi trovavo in prima fila, ebbi addosso alcuni suoi “ricordini”. A parte ciò, non ho mai apprezzato il suo modo piuttosto veemente di attaccare tutto e tutti. Non so se abbia collezionato querele, e quante, ma certo è che ne ha dette di cotte e di crude a carico di persone ed enti. Ora è giunto il momento dei politici e poiché nessuno ne può più di questa classe politica, trova facile ascolto. Che cosa potrà succedere nelle prossime settimane, o nei prossimi mesi, davvero non lo so. Escluderei che il suo obiettivo sia quello di farsi eleggere deputato o senatore, ma, se anche fosse, non mi stupirei più di tanto. Mi stupisco, invece, di altro. I miei comici sono rimasti Aldo Fabrizi, Walter Chiari, Carlo Dapporto ma, soprattutto, è ovvio, Totò, il “principe della risata”. Il quale ha anche interpretato un film nel quale, al grido di “Vota Antonio! Vota Antonio”, incarnava il ruolo di un candidato alle elezioni politiche, che però fa poi scoprire le magagne di chi lo aveva candidato. Insomma, denunziò, appena una ventina di anni fa, la corruzione della classe politica. Ma non pensò mai di diventare un capo popolo. Conosceva bene i confini della sua azione.
(Da Bollettino tributario d’informazioni n. 18 del 2007)
Colpi di coda
Caro Lettore,
sicuramente l’ho detto già tante volte ma repetita iuvant. Io non sarei mai potuto diventare comunista per almeno tre motivi. Il comunismo è ateo e io credo in Dio. Il comunismo vuole la dittatura di una classe (il proletariato) su tutte le altre ed io voglio la democrazia. Il comunismo è statalista e io sono liberista. Per questi motivi, sin da quando avevo ancora i calzoni corti, ho parlato in pubblico e pubblicato scritti contro il comunismo e contro l’Unione Sovietica. Non ce l’ho mai avuta con le persone (due Signore bertinottiane frequentano regolarmente casa mia) ma con le ideologie, ancor prima che Papa Giovanni XXIII distinguesse tra “errore” ed “errante”. Eppure, tutto ciò considerato, comincio a non farcela più a leggere che tanti di quelli che una volta mi avrebbero preso volentieri a botte, o i loro discendenti, stanno rinnegando tutto. L’elenco è lunghissimo e non basterebbero tutte le pagine del Bollettino per contenerlo. Chi afferma di non essere mai stato comunista. Chi dice di essere liberaldemocratico. Chi dice di aver sempre lottato per la libertà e la democrazia. Ultimo in ordine di tempo, Pietro Fassino che è andato a San Pietroburgo (già Leningrado) dove ha abbracciato Luciana De Marchi, la figlia di un italiano fatto fucilare da Stalin su segnalazione dei “compagni” italiani. Scrive Gabriele Nissim autore del libro “Una bambina contro Stalin”, nel quale ha raccontato la tragedia di Luciana che Fassino ha riconosciuto “il silenzio colpevole del Partito comunista italiano guidato da Togliatti di fronte ai gulag sovietici e alle persecuzioni degli antifascisti italiani”. È già accaduto con il fascismo: non si trova più nessuno di quelli che erano in Piazza Venezia ad applaudire o di quelli che si assiepavano al passaggio del Duce. Ma se andrà avanti così anche con il comunismo, mi dovrò rassegnare a studiare meglio la vita di Stalin, per trovarvi qualcosa di buono e ricordarlo ai vecchi “compagni”. Del resto, si dice che anche Hitler fosse molto galante con le donne ed amante delle bestie. Qualche giorno fa, Tullio Kezich ha rivelato che tra i suoi film più amati c’era “Biancaneve e i sette nani”.
Il nuovo presidente francese, Nicolas Sarkozy, suscita la mia ammirazione e la mia invidia. Ammirazione per il modo semplice e diretto col quale ha condotto la campagna elettorale, vincendo le elezioni. Invidia, perché vorrei che spuntasse anche in Italia un Sarkozy. Quando Berlusconi “scese in campo”, io pensai che un grande imprenditore, che aveva creato un impero dal nulla, fosse in grado di chiamare a raccolta i migliori cervelli per mettere allo studio i tanti problemi che questo Paese si trascina dietro e, quanto meno, avviarli a soluzione. Ciò purtroppo non è avvenuto, ed ora non interessa stabilire il perché, ma è esattamente ciò che sta facendo il presidente francese, che ha chiamato a collaborare anche persone schierate nella parte a lui avversa, ed addirittura stranieri, come i nostri Mario Monti e Franco Bassanini. Sarà difficile che Sarkozy raggiunga la grandezza di De Gaulle, del quale è seguace ed erede, ma sicuramente appare già sulla buona strada.
In Italia, viceversa, si parla dei politici una volta per sapere che hanno affittato case eleganti a prezzi stracciati; un’altra volta per sapere che le case eleganti le hanno acquistate, sempre a prezzi stracciati. E chi si è fabbricato la villa con piscina, che ha residenze ai monti ed al mare. La politica come nuova strada per il successo, ma, soprattutto, per la ricchezza. Così il pensiero va a Benito Mussolini, il quale, padrone incontrastato d’Italia per oltre vent’anni, morì povero. O allo stesso Palmiro Togliatti, che si doveva accontentare di un appartamentino ricavato nella sede del Partito comunista in Via Botteghe Oscure. Per non dire di Alcide De Gasperi, alla cui morte le segreterie provinciali della Democrazia cristiana dovettero fare una colletta per poter offrire una casa alla famiglia.
Mastella che canta in tv con un’attrice. Di Pietro che va in una tv dove si tirano le torte in faccia e se la tira da solo. Fassino che va in tv per incontrare la vecchia Tata e piange. D’Alema che va in tv e fa vedere come sa cucinare il risotto. E via enumerando. Ora è intervenuto il Presidente della Repubblica, una delle poche figure serie ancora in circolazione. Ha detto Napolitano: “Le istituzioni non sono una passerella e i politici non devono avere la smania di apparire in televisione”. Ma lo staranno a sentire?
Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella due giornalisti autori del libro “La Casta”, fenomeno editoriale dell’anno, del quale si è tanto parlato su tutti i mezzi di informazione hanno ora scritto un articolo nel quale mostrano meraviglia perché, nonostante la larghissima eco nell’opinione pubblica riscossa dalla loro denunzia, non sta succedendo nulla. In verità, mi meraviglio della loro meraviglia. Avevo i calzoni corti quando Guglielmo Giannini fece, con il settimanale “L’Uomo qualunque”, le stesse denunzie che i due giornalisti hanno fatto ora, naturalmente nei confronti della classe politica di allora. Giannini si presentò anche alle elezioni politiche ed ebbe una valanga di voti. Ma poi i suoi parlamentari si fecero “assorbire” (preferisco usare questo eufemismo) dal “sistema”, e tutto finì lì. Insomma, niente di nuovo sotto il sole.
Un mio amico di gioventù era un brillante ufficiale pilota dell’Aeronautica militare. Negli Stati Uniti, si era specializzato nel pilotare i più veloci aerei del mondo. Pur essendo mio parigrado, guadagnava molto di più perché i piloti hanno indennità che altri non hanno. Un giorno ricevette una proposta di lavoro dall’Alitalia, alla quale non seppe resistere: lavoro infinitamente meno pericoloso, trattamento economico notevolmente più alto. Come lui, tanti altri colleghi, tant’è che si disse che la cosiddetta “compagnia di bandiera” fosse molto fortunata, in quanto poteva assumere personale già specializzato a spese dello Stato, ossia a spese dei cittadini. Nonostante ciò, l’Alitalia è andata sempre più degradando. Oggi perde un milione di euro al giorno ma la situazione peggiorerà perché nel 2008 le perdite saliranno a 400 milioni in un anno. Lo ha detto il presidente della compagnia, Maurizio Prato, nell’audizione svoltasi il 25 settembre dinanzi ad una commissione senatoriale. Se l’Alitalia fosse proprietà privata, i suoi libri sarebbero verosimilmente già in tribunale. Ma è dello Stato, quindi può continuare a perdere. Vorrei sommessamente chiedere perché continuiamo a ritenerci un paese liberale.
La madre degli imbecilli è sempre incinta, si dice, ed è purtroppo vero, come possiamo constatare ogni giorno. Ma ci dovrebbe essere un limite a tutto. Qualcuno si dovrebbe prendere la briga di stabilire un controllo delle nascite, perché, avanti di questo passo, stiamo riempiendo gli stadi, italiani ma anche stranieri. E così, quando si ritrovano insieme tanti figli di cotali madri, partono salve di fischi al suono degli inni nazionali.
(Da Bollettino tributario d’informazioni n. 19 del 2007)
Colpi di bastone
Caro Lettore,
ho letto che il calciatore David Beckham, quando giocava nel Real Madrid, possedeva tre Ferrari, una Lamborghini, sette Mercedes, quattro BMW, due Aston Martin, una Porsche Turbo, una Bentley Arnage. Ora ha anche un Hummer, “il mastodontico fuoristrada derivato dal veicolo bellico dell’esercito Usa”. Mi chiedo a quali angosce vada incontro David quando deve decidere con quale auto uscire. Non vorrei essere nei suoi panni.
Un assassino di sei persone, condannato a tre ergastoli, era semilibero dal 2004. Ha compiuto una rapina e voleva uccidere un poliziotto che lo aveva scoperto. Non c’è riuscito perché la pistola si è inceppata. Adesso è possibile che i politici stringano un po’ i freni che poi allargheranno per poi restringerli nuovamente e così via. Pensando sempre ai voti che potranno ricavare dalle loro decisioni ma mai alle vedove ed agli orfani. Fino a quando?
Ho visto su un settimanale la foto di Mister Gordon Brown mentre sta seduto nella metropolitana di Londra tra una donna di colore ed un giovanotto che ha tutta l’aria di essere un operaio. Sta esaminando un voluminoso pacco di carte e la didascalia dice che si sta recando in ufficio. Dimenticavo di dire che Brown è il primo ministro di Sua Maestà Britannica.
I nostri politici, invece, hanno bisogno dei voli di Stato anche se devono andare a premiare i vincitori di una gara automobilistica o se devono recarsi in vacanza. Un rappresentante del popolo ha detto che lui farebbe volentieri a meno di tutto ma che certi comportamenti gli vengono imposti dai servizi di sicurezza. Delle due, l’una: o i politici italiani corrono più rischi dei loro colleghi inglesi oppure la vita di questi ultimi vale meno di quella degli italiani. Tertium non datur, direbbero i dotti.
Si capisce poi che, volo per volo, anche chi politico non è, se ha un aereo a disposizione, lo adopera. Come l’oramai famoso generale Speciale che nel 2005 se n’è andato a Passo Rolle, dove si svolgevano le gare sciistiche della Guardia di finanza, con moglie e conoscenti al seguito, adoperando l’Atr 42 della Guardia di finanza. Ora la procura militare della Repubblica vuole saperne di più e chissà come andrà a finire.
Ma il problema, secondo me, è un altro. Che se ne fa la Guardia di finanza di un aereo per trasporto passeggeri qual è l’Atr 42? Il Corpo ha certamente bisogno della ricognizione aerea ma per tale compito esistono velivoli molto più indicati. Si capisce, poi, che anche l’Atr 42, volando, può pure fare osservazione, tanto più se dotato di meccanismi appositi. D’altra parte, trovare una giustificazione, anche a posteriori, a cose fatte, non è impresa difficile. È già accaduto con la proliferazione dei gradi. La Guardia di finanza ha una consistenza di forza che corrisponde più o meno ad un corpo d’armata ma è comandata da dieci generali di corpo d’armata (nove con le fiamme gialle ed uno dell’esercito). Ma l’idea di dotare il Corpo sia di tante stellette sia di una flotta aerea, avrà trovato, certamente, sostenitori convinti e giustificazioni plausibili. Occorre aggiungere, per dovere di obiettività, che il Corpo non è solo in tanto scialo di mezzi impropri e di polverizzazione di comandi. Il che, ovviamente, nulla toglie alla discutibilità delle soluzioni, che appaiono più suggerite da desideri individuali che da effettive esigenze di servizio.
Devo anche dire, però, che a me questa faccenda di Speciale continua a non piacere. Per anni, è stato ignorato da tutti, anche quando disponeva o avallava innovazioni a dir poco discutibili, come quelle dianzi citate. Poi, nel momento in cui è entrato in rotta di collisione con un membro del Governo, gli è successo di tutto. È stato rimosso dall’incarico, ha ricevuto un rimprovero solenne dinanzi al Parlamento, si è scoperto che usava l’Atr della Finanza per “gite in montagna” e per trasportare “pesce fresco”, è saltata fuori finanche una donna che afferma di volere in restituzione “orologi e argenteria” da lei regalati al generale (“La Repubblica” del 13 ottobre). Come non pensare al vigile Alberto Sordi che si ritrovò nei guai, lui e la sua famiglia, dopo aver fatto una contravvenzione stradale al Signor Sindaco? Pure coincidenze?
Ma torniamo nel Regno Unito, dove le poste hanno festeggiato con un francobollo i 60 anni di matrimonio tra Elisabetta e Filippo. Rispetto a quello coniato nel 1947, in occasione delle nozze, che effigia due giovani sorridenti, il nuovo francobollo ritrae gli anziani coniugi in un atteggiamento tenero. Anche se la Regina è stata sempre criticata per i suoi cappellini e Filippo per le sue innumerevoli gaffes, intorno alla coppia non sono stati mai imbastiti pettegolezzi, dicerie, maldicenze. Una coppia veramente regale, oltre che reale.
Però io devo confessare di avere un certo “debole” per tutto ciò che sa di britannico, probabilmente per perdonare a me stesso taluni eccessi fanciulleschi. Quando, nel 1940, Mussolini ebbe la bella idea di dichiarare guerra al mondo, io facevo parte del “Carro di Tespi”, una compagnia teatrale di ragazzi, sotto l’egida della G.I.L. (Gioventù Italiana del Littorio). La compagnia era totalmente affidata all’estro, all’inventiva, alla bravura di Ester Valdes, una argentina che cantava, suonava la chitarra, componeva le musiche , scriveva i testi, faceva la regia. Ogni anno, con l’inizio delle scuole, andava in scena, in uno dei più prestigiosi teatri napoletani, una nuova Rivista musicale in due tempi, tutta farina del sacco di Ester. Io, tra l’altro, cantavo una canzoncina che ad un certo punto diceva: “Malvagia Inghilterra, tu perdi la guerra, la nostra vittoria sul tuo campo fiera sta, fiera sta”. Poi vennero il 25 luglio 1943 (caduta del fascismo), l’8 settembre dello stesso anno (armistizio) e cominciai ad aprire gli occhi. Ma la svolta ci fu quando dovetti studiare, per il concorso di ammissione alla Scuola di Guerra, “La seconda guerra mondiale”, monumentale opera dovuta alla penna di Sir Winston Leonard Spencer Churchill, che valse al suo autore il premio Nobel per la letteratura nel 1953. Con uno statista così, l’Inghilterra non avrebbe mai potuto perdere la guerra, neppure se Hitler avesse invaso l’isola. La sua determinazione, la sua visione veramente globale dei problemi, la sua intuizione erano tali da non ammettere la sconfitta. Di questo grande statista ho già parlato a pagina 442 del 1996 del nostro Bollettino ma ora il discorso è nuovamente caduto su lui perché è appena uscito in Inghilterra un libro che raccoglie i suoi aforismi e battute. Eccone un solo esempio. La prima donna deputato in Gran Bretagna, conoscendo il suo antifemminismo, gli disse: “Sir Winston, se fossi sua moglie, le metterei il veleno nel caffè”. Lui le rispose: “Se fossi suo marito, lo berrei”.
(Da Bollettino tributario d’informazioni n. 20 del 2007)
Colpi di ariete
Caro Lettore,
il giorno in cui è morto Enzo Biagi, la mia mente è andata ad altri due grandi della penna che, in vario modo, hanno contribuito alla mia formazione: Giovannino Guareschi ed Indro Montanelli. Entrambi mi sono venuti incontro, per così dire, quand’ero ancora adolescente ma curiosissimo di sapere cosa accadeva intorno. Tanto per dirne una, io ignoravo cosa fossero le elezioni e ricordo che fu un parroco a darmene una prima spiegazione. Era anche il tempo in cui la scena politica era dilaniata dai comunisti da una parte e dai “nostalgici” fascisti dall’altra. Una contrapposizione frontale che, per un motivo o per l’altro, rischiava di coinvolgere la mente di un fanciullo, abituato, sin dalle elementari, ad una situazione di tutta tranquillità, nella quale il Duce aveva sempre ragione e quel che occorreva era credere, obbedire, combattere. D’altra parte, a 13-14 anni, un ragazzo non ha ancora potuto acquisire gli strumenti culturali che poi gli consentiranno di operare scelte altrimenti meditate. Fu così che Giovannino, con i suoi splendidi disegni che dal “Candido” si trasferivano sui muri di tutt’Italia, mi fece capire che non era il caso di porsi dalla parte dei “rossi”, nonostante le loro promesse di pane, lavoro e felicità. Nello stesso tempo, con i suoi altrettanto splendidi racconti su Peppone e Don Camillo mi fece capire che anche un “rosso” è un uomo e non un criminale. Indro, da parte sua, con il suo modo di scrivere, con le sue osservazioni che arricchivano tutti i suoi scritti, si trattasse anche delle piccole biografie racchiuse negli “Incontri” (due colonnine a stampa), inoculava nel mio cervello i germi del liberalismo, che poi gli studi avrebbero sviluppato e consolidato. Enzo Biagi è giunto nella mia vita molto dopo ma non v’è dubbio che anche lui mi mancherà, proprio come gli altri due.
Il presidente della Repubblica italiana è, secondo la Costituzione, la più alta espressione istituzionale. Non è una figura sacra com’era quella del Re, ma è pur sempre il massimo che si possa pensare. Per fortuna, le persone fisiche che hanno rivestito la carica dalla proclamazione della Repubblica ad oggi sono state tutte all’altezza dei loro compiti. Al termine del mandato, i presidenti diventano senatori a vita. La Costituzione prevede poi la nomina, da parte del presidente, di altri cinque senatori a vita scelti tra i cittadini “che hanno illustrato la Patria per altissimi meriti nel campo sociale, scientifico, artistico e letterario” (art. 59). Mi piacerebbe che queste semplici nozioni venissero tenute presenti da quei politici i quali esprimono valutazioni indegne nei confronti di tali senatori, sol perché non hanno condiviso il loro modo di votare. Esiste, dovrebbe esistere, almeno una forma di rispetto, di educazione, da parte di chi certo non può vantare lo stesso “curriculum” di un senatore a vita.
Nelle scuole civili da me frequentate, Università compresa, ci si alzava in piedi quando entrava l’insegnante. Nelle scuole militari veniva ordinato l’attenti. Poi, nelle scuole civili, le cose sono andate per un altro verso, secondo me peggiore. Leggo dunque con piacere che il nuovo presidente francese, Sarkozy, si accinge a ripristinare l’obbligo di alzarsi in piedi. Non solo. Vorrebbe anche che i rapporti tra insegnante ed allievi venissero regolati dal “voi” e non dal “tu”. E questo è per me un altro nervo scoperto. So che in alcuni impianti sportivi si danno tutti del “tu”, i frequentatori tra di loro ma anche con gli istruttori, i quali sono molto spesso giovanissimi. E io non capisco come un giovanissimo possa rivolgersi in prima persona, per esempio ad un anziano, oppure ad una signora. Quando l’anno scorso subii una rapina a mano armata, in pieno giorno e nel centro di Napoli, la cosa che più mi dette fastidio fu che i due rapinatori si erano rivolti a me dandomi del “tu”. Ho sempre apprezzato Gianni Agnelli e Cesare Romiti, i quali hanno lavorato porta a porta alla Fiat, per venticinque anni, in posizioni di vertice, sempre dandosi del “lei”. Per non dire di un mio mito, il generale Charles De Gaulle, il quale, forse un po’ esagerando, dava del “voi” anche a sua moglie Ivonne. Ma del resto una volta, almeno al Sud, nessuno si sarebbe sognato di dare del “tu” al padre o alla madre. Sullo stesso piano è François Mitterand, il quale pretendeva il “voi” dai compagni di partito. Quando uno gli chiese se poteva dargli del “tu”, lui rispose: “se voi volete”.
Correva l’anno 2002 quando, a pagina 1310 del nostro Bollettino, descrissi “Il diritto di vaffa”, riportando un’opinione del prof. Antonio Guarino, giurista di fama. La cosa ha preso piede, sia nel diritto, sia nella pratica. Sotto il primo profilo, la Corte di cassazione ha stabilito che non costituisce reato l’esercizio del diritto di vaffa, sia pure tra pari nella posizione gerarchica. Quindi, il diritto non può essere riconosciuto all’allievo nei confronti del maestro, al cittadino nei confronti del vigile eccetera. Ma in tutti gli altri casi, il fatto non è perseguibile perché l’espressione è diventata di uso comune, perdendo così il carattere offensivo. Che si tratti davvero di una parola liberatoria, come sostiene il cantante Marco Masini? Avrebbe allora ragione Beppe Grillo, il quale ha organizzato addirittura un “Vaffa day”, con grande partecipazione di folla. Sarà tutto vero. Però, a mio sommesso avviso, quando si scherza, come nel caso del prof. Guarino, si scherza. Ma se si comincia a fare sul serio, come con la sentenza, non va affatto bene.
Il giorno 6 novembre, il Corriere della Sera ha dedicato ben sette pagine, intere ed a colori, a fare pubblicità a se stesso. Ma il fine della pubblicità non è quello di allargare il mercato, di trovare nuovi clienti? E se così è, il messaggio pubblicitario dovrebbe essere rivolto all’esterno, ai non-lettori per indurli a diventare lettori. O no? Non mi ci raccapezzo.
Così come non mi raccapezzo con la lettera che il direttore generale delle edizioni Mondadori, Massimo Turchetta, ha scritto ad un quotidiano. “Credo sia prerogativa della proprietà di una casa editrice di non fare uscire un libro”. Nulla da eccepire. Non si contano i manoscritti che riempiono i cassetti di migliaia e migliaia di autori che non riescono a trovare un editore, proprio perché nessuno può essere costretto a rivestire tale qualifica. Ma è la frase successiva del Turchetta che mi turba: “È altresì vero che tale prerogativa (quella di non fare uscire un libro nda) non è mai stata esercitata dalla proprietà della Mondadori nei confronti dei libri pubblicati”. Monsieur de la Palisse può essere soddisfatto.
Romano Prodi, presidente del Consiglio dei ministri in carica, ha invece raccontato ad un altro quotidiano la sua esperienza per il rinnovo della carta di identità. Esperienza felice, perché non ha trovato “code”, ha incontrato impiegati solerti e premurosi ed ha aggiunto di aver “pagato 5,32 euro (5,18 di diritti fissi e 0,26 di diritti di segreteria)”. Il ritrattino di un’Italia che funziona sarebbe stato perfetto se quel rompiscatole di Filippo Facci non avesse notato che 5,18 più 0,26 non fa 5,32 ma 5,44. Può un uomo che manovra miliardi sbagliarsi sugli spiccioli?
(Da Bollettino tributario d’informazioni n. 21 del 2007)
Colpi di maglio
Caro Lettore,
il mondo politico è in ebollizione perché il Berlusca ha nuovamente spiazzato tutti, annunziando la fondazione di un nuovo partito. Il giorno in cui non è caduto Prodi, come il medesimo Berlusca si era maldestramente affrettato a pronosticare, gli alleati gli si sono rivoltati contro. Ha primeggiato Fini con il suo partito, Alleanza nazionale. Qualcuno pensa che Fini, soddisfatto dell’esperienza di vice presidente del Consiglio, miri a diventare presidente. È un disegno di lungo periodo che ha visto la “democratizzazione” del partito, attraverso la “svolta di Fiuggi”, la definizione del fascismo come “male assoluto” eccetera eccetera. Tanto che, ad un certo punto, Francesco Storace si è scocciato, ha sbattuto la porta e ha fondato un nuovo partito. In tanto frastuono, mi fa tenerezza donna Assunta Almirante, la vedova del capo carismatico dell’ormai archiviato “Movimento sociale italiano”, quello che prendeva le botte e le dava, che li ha visti tutti crescere e che deve trovare il modo di non dispiacere a nessuno. Non per un calcolo politico, perché la Signora di certo non ne ha, ma perché, anche per questioni di età, si sente un po’ la mamma di tutti E una mamma come fa a dare ragione o torto ai suoi figli quando ciascuno di loro ha un po’ ragione e un po’ torto? Se poi si pensa a quella discola di Alessandra Mussolini, che con il peso della sua loquela, ma soprattutto del suo cognome, fa accendere spesso i riflettori, si comprende come il compito di donna Assunta non sia affatto facile.
Si capisce poi come in politica contino i numeri, per cui uno può avere tutte le ragioni di questo mondo ma se non ha i numeri dalla sua parte è bello che spacciato. Il Berlusca, per esempio, ha potuto esibire otto milioni, che sono o-t-t-o milioni, di firme che la gente ha apposto, nei gazebo di tutta Italia, per chiedere la fine del governo Prodi. Ma si tratta di otto milioni di voti virtuali. Quelli reali sono costituiti dalla realtà esistente, per cui il povero Prodi è costretto a tenere il fiato sospeso ad ogni votazione che si tiene al Senato. Dicono che abbia un filo diretto con le stazioni meteorologiche e con l’Osservatorio della salute, per capire se le condizioni atmosferiche o eventuali epidemie influenzali potrebbero costringere alcuni senatori a starsene a casa, facendo così mancare la maggioranza nella Camera alta.
Ma i conti se li è messi a fare anche il (solito) “Corriere della sera”. E li ha fatti in tasca ad Alleanza nazionale, dopo che il Berlusca ha annunziato la fondazione del nuovo partito. Il 19 novembre ha messo in bella evidenza, a pagina 5, che An “pesa” il 12,3% ed ha precisato: “Eletti 73 deputati, ora sono in 68 perché quattro sono passati alla Destra di Storace”. Poiché la calcolatrice, sottraendo 4 da 73 dà 69, il dubbio è se sono passati con Storace 5 deputati o se la consistenza di An è di 69 deputati.
Domenica scorsa sono stato invitato a pranzo da familiari e sono stato seduto accanto ad un giovanissimo magistrato in gonnella che sta facendo la sua prima esperienza professionale in una procura della Sicilia. Malauguratamente, il discorso è caduto ad un certo punto sulle lettere anonime, perché il novello pm sosteneva che era il mezzo anche se non, ovviamente l’unico per scoprire certi altarini, soprattutto in un ambiente dominato dalla paura. Ora, sulle lettere anonime io ho sempre avuto il nervo scoperto. Il problema mi si è presentato per la prima volta studiando il “Trattato di diritto penale” di Vincenzo Manzini. Questo sommo autore ricorda che i barbari usavano incidere il loro nome sulle frecce affinché il nemico sapesse per mano di chi erano stati procurati i morti o i feriti. Stigmatizza le “bocche della verità” che si usavano in alcuni Stati antichi e definisce “lordura” gli scritti anonimi. In tantissime occasioni, ho sparato a zero, sulla carta stampata o in pubbliche occasioni, su tali scritti ed ho anche raccontato che, durante la mia vita professionale, mi munivo di un tritacarte, gongolando di gioia quando vedevo decomporsi in mille striscette gli anonimi che ricevevo. Ma Vincenzo Manzini deve aver avuto ben pochi seguaci, se è vero, come ho già riferito qui in altra occasione, che anche il Consiglio superiore della magistratura si era fatto bloccare nella nomina, direi doverosa, di Vincenzo Carbone a primo presidente della Corte di cassazione proprio da uno scritto anonimo. La speranza era che almeno i giovani avessero una mentalità diversa. Domenica questa speranza è stata uccisa.
Nondimeno, la farò risorgere dentro di me, perché la ritengo una scelta culturale e quindi di civiltà. Anche la presunzione di innocenza lo è e proprio per questo certi regimi non la fanno propria, preferendo comportarsi secondo la massima: “ti schiaffo dentro e poi vediamo”. E non è detto che questo sistema non dia risultati, né più né meno di come avviene per le lettere anonime. Ma, se è per questo, anche la tortura dava risultati: che facciamo, la ripristiniamo? Una società civile si distingue da una società tribale per le scelte culturali che sa fare. E ben si comprende come anche le scelte culturali abbiano un loro prezzo, che si dovrebbe essere rassegnati a pagare in vista di risultati superiori.
Ancora qualche parola sui magistrati, giovani e non. A Torino, il gip ha negato il carcere nei confronti di trafficanti di droga con la motivazione che tanto “con queste leggi uscirebbero subito”. A Milano, invece, un pm di udienza ha usato un’edizione non aggiornata del codice, per cui ha chiesto la scarcerazione di ultras che avevano provocato violenze nello stadio. Evidentemente, anche il giudice che doveva decidere non aveva un codice aggiornato, per cui gli arrestati sono stati messi in libertà. Per la verità, nessuno ha chiesto le dimissioni del ministro della giustizia, Mastella, al quale dovrebbe farsi risalire la responsabilità della legge sull’indulto e la responsabilità obiettiva del mancato aggiornamento professionale dei giudici.
Sennonché Mastella, al contrario, è un fautore della preparazione professionale dei magistrati, tanto che un decreto, modificativo di un precedente decreto del ministro Castelli, ha stabilito che una delle sedi della “scuola delle toghe” sia Benevento, in modo da poterne meglio garantire il funzionamento. Non ho ben capito, dalla lettura dei giornali, se c’è una sede distaccata anche a Ceppaloni, che, come credo tutti sappiano, è il paese natale del ministro.
Ma cerchiamo di non immalinconirci. Noi vecchi parrucconi pensavamo che la verginità fosse un fatto oramai superato. Un po’ per celia e un po’ per non morire, io dicevo: “Meno male che c’è rimasto vergine l’olio di oliva”. Ma si trattava di mera ignoranza. Leggo, infatti, che le fanciulle nostrane sono disposte a pagare anche 5.000 euro per farsi ricostruire chirurgicamente l’imene. Sembra che in Inghilterra l’operazione sia addirittura pagata dalla mutua. Forse mi sbaglio ma a me sembra la fine del femminismo che urlava: “l’utero è mio e me lo gestisco io”.
(Da Bollettino tributario d’informazioni n. 22 del 2007)
Colpi di frusta
Caro Lettore,
pur non essendo un teledipendente, negli ultimi giorni non ho potuto perdere due appuntamenti importanti: il primo, con Adriano Celentano; il secondo, con Roberto Benigni. Nel tempo, ho apprezzato Celentano attore e, in parte, cantante. Ci sono film come “Il bisbetico domato” che sono capolavori di ironia e di simpatia. Ci sono canzoni come “Azzurro” che vanno dritto al cuore. Non vedo in Celentano il predicatore che tutti sembrano apprezzare. Forse per la prima volta da quando in televisione gli danno carta bianca, il Molleggiato non ha sfondato con l’audience. Può darsi che anche la gente cominci a capire. Ha sfondato invece Benigni, il quale, secondo me, è un genio. Va preso anche lui, ma questo è ovvio, per il suo pelo, ma ha un modo travolgente di incuriosire e, poi, perbacco, giovedì 29 novembre ha parlato per quasi tre ore di fila, senza interruzioni pubblicitarie e senza bere un solo sorso d’acqua. Vittorio Sermonti, che è un dantista raffinato e convincente, e che a Milano ed in altre città riesce a raccogliere migliaia di persone per le sue letture della “Divina commedia”, ha detto che Benigni farebbe bene ad occuparsi di comicità e non del poema dantesco. Mi permetto di dissentire nettamente. Già una volta dovetti contestarlo piuttosto aspramente. Voleva convincere dodici persone di età superiore ai sessant’anni, che partecipavano ad una trasmissione televisiva di Rai tre, “I Supersenior”, a portare in scena “I promessi sposi”, canovaccio sfruttato in lungo ed in largo in chiave drammatica ed in chiave satirica, comunque da persone che “avevano l’età”. Ora devo contestarlo nuovamente, e mi dispiace perché di lui ho grande stima. Lui porta Dante ad un pubblico certamente vasto, ma Benigni lo porta ad un pubblico certamente vastissimo. E quando si tratta di diffondere la cultura non bisogna guardare ai mezzi ma ai fini. Tanto più che Benigni accompagna la sua divulgazione con notazioni morali che non sono mai saccenti, che vanno anch’esse dritto al cuore. Bravo Roberto. E bravo anche perché non gli capiterà mai di chiamare “guerra di successione” la guerra di secessione americana, come è invece capitato ad un comico oggi di moda.
Io sono nato monarchico. Sotto il profilo razionale, ritengo equivalenti monarchia e repubblica, purché assicurino in ogni caso la democrazia. Ho una tendenza particolare per la monarchia italiana, perché Casa Savoia ha contribuito in modo determinante all’unità dell’Italia. L’ultimo Re d’Italia, Umberto II, lo sbeffeggiato “re di maggio”, viene oggi universalmente riconosciuto come il “re galantuomo”, che seppe fare una scelta coraggiosa, evitando all’Italia altri lutti. La debole democrazia del dopoguerra impedì agli eredi maschi Savoia di rientrare in Italia. La democrazia odierna, pur non essendo forte ma certo al riparo da suggestioni monarchiche, ha consentito agli eredi di tornare in Italia. E che ti fanno gli eredi? Chiedono 260 miliardi di danni. Non entro ovviamente nel merito tecnico-giuridico della richiesta, mi limito a sottolineare la sua assoluta inopportunità, in un Paese che è allo stremo e che ha ben altri problemi da risolvere. E così temo che sia rinviata sine die la tumulazione nel Pantheon delle salme dei Sovrani che ancora riposano in terra straniera.
Avevo 19 anni quando giurai fedeltà alla Repubblica, in forma collettiva, ossia con la formula “Lo giuro” gridata a squarciagola con tutti i miei compagni del 49° corso dell’Accademia della Guardia di finanza, levando in alto il vecchio, glorioso fucile mod. 91, quello della Prima Grande Guerra. Ne avevo 21 quando, da sottotenente in servizio permanente effettivo della Guardia di finanza, rinnovai il giuramento, questa volta in forma individuale, ossia leggendo la formula e firmando il modulo, dopo aver deposto su un tavolo la pistola d’ordinanza, la vecchia, cara Beretta cal. 9. Oggi il telegiornale ha mostrato le immagini del giuramento dei cadetti dell’Accademia navale di Livorno. Lo scenario è cambiato, se non altro perché tra i cadetti ci sono anche le ragazze e perché il fucile mod. 91 non c’è più, ma la suggestione è sempre la stessa. Giovani vite che hanno il privilegio di avere sul bavero della giubba la stelletta a cinque punte, un personaggio che rappresenta le Istituzioni, l’inno nazionale in sottofondo, genitori e parenti con i lucciconi agli occhi. Continuo a sentire nelle mie orecchie un nome che non si pronunzia più: Patria.
Non so se i dipendenti del Berlusca abbiano mai fatto qualcosa di simile ma ora ce lo potremmo pure aspettare. I dipendenti di un gruppo di consulenti di direzione hanno acquistato una intera pagina del “Corriere” per fare gli auguri di compleanno ad Alberto. Ecco alcune delle espressioni usate nei confronti del festeggiato: “visionario dall’intuito geniale”, “intraprendente e curioso”, “precursore e caposcuola”, “imprenditore saggio, di grande umanità”, “uomo di azione in continuo movimento dentro e fuori te stesso”, “stratega nelle tue decisioni importanti”, “scrittore impegnato, orientato ed orientante”, “uomo straordinario forte e sensibile”. Comincio a pensare che dovremo prepararci ad una nuova “discesa in campo”. Dopo Silvio, Alberto.
Vorrei dare un modesto contributo alle celebrazioni pucciniane in corso che si concluderanno nel 2008. Il 1° febbraio 1896 Arturo Toscanini, allora ventiseienne, diresse al Teatro Regio di Torino la prima de “La bohème”. Carlo Bersezio, critico musicale del quotidiano “La Stampa” così recensì l’opera: “La Bohème come non lascia grande impressione sull’animo degli uditori, non lascerà grande traccia nella storia del nostro teatro lirico, e sarà bene se l’autore, considerandola come l’errore di un momento, proseguirà la strada buona e si persuaderà che questo è stato un breve traviamento del cammino dell’arte”.
Gli agenti di polizia hanno manifestato a Roma contro la Finanziaria che ha loro riservato scarsa o nulla attenzione. Leggo su “L’Espresso” che Prodi Romano, presidente del Consiglio dei ministri, guadagna, al lordo, 26.847,43 euro al mese; Letta Enrico, sottosegretario, 24.744,86; Damiano Cesare, ministro, 25.146,62; Visco Vincenzo, viceministro, 15.554,71 e così via. Leggo altrove che un agente di polizia guadagna, sempre al lordo, 1.200,00 euro al mese. Benvero che non sono comparabili le funzioni degli uni e degli altri ma mi piacerebbe sapere se i figli degli altri hanno, oppure no, gli stessi diritti all’istruzione, all’alimentazione, allo svago dei figli degli uni. E se la Costituzione garantisce il diritto a farsi una famiglia agli uni ed agli altri o solo agli uni.
(Da Bollettino tributario d’informazioni n. 23 del 2007)
2008, odissea nella munnezza
Caro Lettore,
devo confessarLe che ho “riciclato” una cravatta di Marinella che mi è stata regalata in occasione delle recenti festività. Me ne sono disfatto un po’ perché ne ho pieno il guardaroba ma, soprattutto, perché sono stufo di queste “mode” che a parte la qualità dei prodotti, non contestabile non hanno né capo né coda. Mia moglie ha conosciuto Vincenzo Marinella, padre di Maurizio, attuale proprietario, e figlio di Eugenio, il fondatore della casa. Vincenzo Marinella, vedendo la folla che si formava nel suo piccolo negozio della Riviera di Chiaia a Napoli, ripeteva: “Nun me piace”. La testimonianza che ho di questa affermazione è diretta e dunque non dubbia. Essa, in parte, spiega anche il mio atteggiamento. Vincenzo Marinella era abituato a ricevere regnanti, principi di sangue reale, presidenti di repubbliche, uomini politici importanti. La sua produzione era, in un certo senso, anche un segnale inconfondibile, come i “fornitori della Real Casa”, oggi del tutto scomparsi in Italia, dopo l’avvento della Repubblica. Constatando che la sua produzione incontrava sempre di più il favore delle masse, il comm. Vincenzo esprimeva il suo disappunto: “Nun me piace”.
Ma se la “coda” di Marinella, fino a qualche tempo fa, era un fenomeno isolato, oggi “code” simili si formano dinanzi ad altri negozi monomarca. Ora è questa manìa del nome del produttore messo bene in evidenza sui prodotti che a me dà un fastidio immenso. Quando ho dovuto sostituire il mio anonimo costume da bagno, non sono riuscito a trovarne un altro senza nome. Così, non potendo fare a meno del costume, mi sono dovuto accontentare di un esemplare che ha scritto il nome con caratteri molto piccoli, che si confonde anche con il disegno della stoffa e quindi quasi non si vede. Perché mai dovrei esibire un costume o un maglione o una borsa od altro “griffato”? E perché mai, esibendolo, dovrei fare pubblicità perché, alla fine, anche di questo si tratta, per di più pubblicità gratuita al nome medesimo?
Certo, le cravatte hanno il nome del produttore all’interno ma io l’ho rifiutata per essere in pace con me stesso, per non piegarmi a queste mode che non condivido. Lei potrebbe obiettarmi che, riciclando la cravatta, ho compiuto anch’io un gesto che non condivido, ossia quello di mettere in circolazione prodotti di grande nome. E la Sua obiezione sarebbe certamente valida se io la cravatta l’avessi a mia volta regalata. Ma io ho fatto di peggio (anzi, di meglio) perché la cravatta l’ho venduta. Un amico residente a Roma mi aveva chiesto di acquistare una cravatta di Marinella poiché intendeva fare un regalo. Non potevo mettermi a fare il predicozzo all’amico, anche perché sarei apparso scortese: uno ti chiede un favore e tu gli fai la morale. Non sta bene. Così ho fatto contento l’amico e me stesso, inviandogli la cravatta, ovviamente dietro pagamento del prezzo corrente. E così tutti vissero felici e contenti.
Ma ora devo farLe anche un’altra confessione. RendendoLa partecipe di tutte queste divagazioni sui prodotti “di marca”, sulla manìa della gente di munirsene, eccetera eccetera, io sto menando il can per l’aia, perché provo un intuibile imbarazzo a parlarLe del vero motivo per il quale questo Capodanno è stato assai diverso dagli altri. Certo, non avevo mai “riciclato” un regalo, e questa volta l’ho fatto. Ma poiché c’è sempre una prima volta per tutto, non mi sembra che ci sia poi nulla di così strano.
A me la cosa che ha creato angoscia è la munnezza, della quale oramai tutto il mondo sa. Forse non tutti sanno, o non ricordano, che, al tempo che fu, a mezzanotte del nuovo anno c’era non so se solo a Napoli od anche altrove l’usanza di buttare qualcosa di vecchio dalla finestra. Era una forma di augurio: con l’anno vecchio buttiamo le cose vecchie, così facciamo spazio alle nuove che speriamo il nuovo anno ci porterà. Le strade venivano così invase da piccoli oggetti, da abiti usati, tanto che non era prudente circolare proprio a mezzanotte. Subito dopo, però, comparivano gli spazzini, e le strade tornavano pulitissime. Già, perché anche a Napoli c’è stato un tempo in cui le strade erano pulitissime, financo innaffiate.
Vedendo tanta munnezza per strada, mi è tornata in mente la vecchia usanza, per la quale non ho alcuna nostalgia, sia ben chiaro. Allora è sopraggiunta un’altra ansia nascosta. Questo è un anno che termina con 8, ossia con un numero che è, a dir poco, problematico. Quando si dice: “qui succede il quarantotto”, si fa riferimento all’anno 1848, quando l’Europa intera, ma l’Italia in particolare, fu scossa da moti insurrezionali. Ma poi abbiamo avuto il 1948, con lo storico steccato tra Occidente ed Oriente, tra la libertà e l’oppressione, tra la democrazia e la dittatura. E ancora il 1968, i cui effetti ancora stiamo pagando con i cosiddetti “Sessantottini” i quali, riciclatisi in varie maniere e raggiunte leve di comando, hanno comunque dentro un’acidità malsana. Per non parlare del 1978, l’anno del sequestro e dell’uccisione di Aldo Moro e di quei poveracci della sua scorta, colpevoli solo di aver bisogno di uno stipendio per mantenere una famiglia. Segue il 1988, con l’inizio del disfacimento dell’Unione Sovietica, allorquando Gorbaciov, alla Conferenza pansovietica del Partito comunista, che non veniva convocata da 47 anni, annunziò le sue grandi riforme. A chiudere, il 1998, trattato di Schengen, con l’abolizione delle frontiere e, quindi, dei controlli.
In un modo o nell’altro, insomma, molti anni che terminano con 8 hanno segnato la nostra vita, nel bene e nel male. Naturalmente, ci si può, ci si deve, augurare che il 2008 la segni nel bene. Ma non mi sembra un buon indizio cominciare con la munnezza, e, soprattutto, con la fuga da responsabilità di un’intera classe politica incapace, impotente, a volte collusa, comunque e sempre attaccata alla poltrona, priva della dignità di togliersi di mezzo con quell’istituto oramai arcaico denominato “dimissioni”. Ed è forse così che si spiega il riflesso freudiano che ho provato e che mi ha fatto tornare in mente una notizia del “Corriere della Sera” del 4 gennaio: nella Corea del Nord, è stato fucilato un parlamentare già dichiarato “eroe del lavoro”. Hanno scoperto che, in qualità di capo di una comune agricola, aveva smerciato per il proprio guadagno il raccolto di un’ottantina di ettari di terreno, per cui lo hanno tolto di mezzo. Il danno procurato alla sua comunità era incalcolabile, soprattutto sotto il profilo morale, ma comunque ben inferiore a quello procurato ai cittadini napoletani e campani dalla storia indecente della munnezza.
(Da Bollettino tributario d’informazioni n. 1 del 2008)
Tanti auguri
Caro Lettore,
tenuto conto dei risultati delle elezioni politiche del 13-14 aprile, vorrei inviare tanti auguri a:
* Silvio Berlusconi. È la terza volta che vince. Ho la sensazione che le prime due volte abbia vinto senza convincere, questa volta ha anche convinto. Di Silvio e su Silvio si è scritto, in quattordici anni, dal tempo della sua “discesa in campo”, di tutto e di più. Ma due recenti ritratti hanno in particolare attirato la mia attenzione. Il primo è contenuto nella “omelia” che Eugenio Scalfari ogni domenica propina ai lettori de “la Repubblica”. Il 13 aprile, dunque il giorno stesso delle elezioni, Scalfari così scrive: “Berlusconi è un pubblicitario. Un venditore. Venderebbe qualunque cosa. (...) Quando vende patacche (e gli accade spesso) si convince rapidamente che la sua patacca vale oro zecchino. Perciò è bugiardo con la ferma convinzione di dire sempre la verità. Come tutti i venditori bugiardi è un imbonitore. Come tutti gli imbonitori è un demagogo”.
L’altro ritratto reca la firma di Filippo Facci ed è stato pubblicato su “il Giornale” del 15 marzo. Vi si legge: “Silvio Berlusconi fa le corna, alza il medio, si mette la bandana, fa il ganassa con la premier finlandese, dice che votare Prodi è da coglioni, racconta barzellette sugli ebrei (agli ebrei) e via Berlusconi: ma la sinistra italiana continua ad additarlo come se questi comportamenti non fossero tipicamente suoi ma occasionalmente di un altro, come se Berlusconi non fosse l’outsider che innegabilmente è, come se l’antropologia dell’uomo di Arcore fosse il suo punto debole e non una parte inscindibile del personaggio irripetibile che conosciamo: personaggio che, dopo una vita di attacchi, non solo è ancora qui, ma ancora una volta si avvia a governare questo Paese con il consenso della maggioranza”. E più oltre: “Negli ultimi 15 anni è stato spacciato di tutto: piani massonici, plagiature mediatiche, ipnosi televisive, corruzione delle coscienze, insomma tutto fuorché la semplice ipotesi che Silvio Berlusconi possa piacere agli italiani per quello che è, per quello che fa, per le cacchiate che ogni tanto spara: tutto compreso”.
Vale la pena, prima di andare oltre, riprodurre la barzelletta che il Berlusca ha raccontato nell’incontro con l’associazione “Amici ebrei di Libia” a Palazzo Grazioli a Roma. Un ebreo si rivolge al suo rabbino. «Durante la guerra ho nascosto un uomo però gli ho chiesto mille dollari al giorno». «È parecchio. Comunque ti assolvo». «Il problema è un altro: secondo te devo dirgli che la guerra è finita?».
Ma torniamo ai due autori citati. Eugenio Scalfari non ha bisogno di presentazioni. C’è una piccola civetteria che lo riguarda, anche se non saprei dire se suggerita da lui. La testata dell’“Unità” reca l’indicazione del suo fondatore, Antonio Gramsci, ed io ho sempre pensato che in tal modo si intendesse rendere omaggio ad uno scrittore e ad un politico che ha segnato davvero un’epoca. Allorquando Scalfari ha lasciato la direzione di “Repubblica”, anche la testata di questo quotidiano si è arricchita del nome del suo fondatore. Evidentemente, c’è chi pensa che i due nomi, quello di Gramsci e quello di Scalfari, meritino uguale rilievo. Altri quotidiani, pur avendo illustri fondatori, recano in testata solo la data della loro prima uscita. Così è per il “Corriere della sera”, “La stampa”, “Il mattino” eccetera. Emerge dalla memoria un altro fondatore, si chiamava Benito Mussolini ed aveva fondato l’impero, oltre che il quotidiano: “Il popolo d’Italia”. Quando partecipava alle adunate, qualcuno invitava: “Salutate nel Duce il fondatore dell’impero”. E tutti rispondevano: “A noi!”. Non è dato sapere se una prassi del genere fosse stata instaurata nelle redazioni dei due quotidiani citati più sopra allorquando entravano i rispettivi fondatori.
Ma torniamo ai due ritratti. Non so quale dei due sia più vicino al vero, però pongo una domanda. Da giovane, Berlusconi cantava e suonava la chitarra sulle navi da crociera, accompagnato al pianoforte da Fedele Confalonieri. Oggi è uno degli uomini più ricchi del mondo e forse il più potente in Italia. Ha raggiunto questi risultati imbonendo milioni di persone? E milioni di persone si sono fatte imbonire? Se esistesse il reato di vilipendio agli elettori, qualcuno dovrebbe andare in galera.
Ad ogni modo, ora è presidente del Consiglio dei ministri e ciascun italiano (a meno di non voler fare come quel tal marito che si evirò per far dispetto alla moglie) dovrebbe augurargli il massimo del successo. Il nostro futuro prossimo e meno prossimo è così denso di nubi e di incertezze, per noi e soprattutto per i giovani, che solo un governo forte, autorevole, sorretto, può darci speranze di salvezza;
* Walter Veltroni. In campagna elettorale, si era forse lasciato un po’ andare, promettendo soldi a destra ed a manca, finanche l’assicurazione gratuita alle casalinghe. Poi ha perso. Ma ha perso con dignità, senza pietismi e blaterazioni. Ha subito riconosciuto la sconfitta ed ha annunziato una opposizione dura ma costruttiva, anche attraverso un “governo ombra”, come accade in Gran Bretagna. Ha determinato una svolta nel quadro politico italiano, avendo avuto l’idea ed il coraggio di “correre da solo”, spingendo Silvio a fare altrettanto. In tal modo ha cominciato a realizzarsi quel bipolarismo certo ancora imperfetto che caratterizza i Paesi di democrazia avanzata (Stati Uniti e Regno Unito in testa), che da noi sembrava una meta irraggiungibile. Insomma, in poche ore è successo l’imprevedibile, avendo finanche funzionato il “porcellum”, che aveva causato la ingovernabilità del Paese da parte del governo Prodi. Proprio nel mentre si paventava un pareggio al Senato o la maggioranza con un solo voto in più, sono giunte sorprese a raffica, tutte nel senso della stabilità e della chiarezza. Se Walter, come capo dell’opposizione, saprà fronteggiare Silvio con lealtà e determinazione, il Paese, ora in ginocchio, non potrà che trarne giovamento;
* Romano Prodi. Gli va reso l’onore delle armi. Ha fatto quel che poteva ma, con quell’accozzaglia di idee, di propositi, di programmi che gli ronzava intorno, quotidianamente, non poteva fare molto. Non si può volere e non volere, fare e disfare, tirare la coperta da tutte le parti, avere gente accanto in Consiglio dei ministri e poi ritrovarsela in piazza a dimostrare contro il governo. Forse il suo torto è iniziale. Lui, che comunque è uomo di cultura e di dottrina, non poteva non sapere che il diavolo e l’acqua santa non vanno proprio d’accordo. Vero è che faceva parte della sinistra democristiana, che si è sempre illusa di poter costruire un dialogo con la sinistra marxista ma non ha tenuto conto che di sinistre non ce n’era più una sola, ce n’erano tante, come dimostrano i tre o quattro partiti che, anche nel nome, si dicevano comunisti. Quindi, una sinistra non una, ma plurima, che sarebbe dovuta andare d’accordo con Savino Pezzotta e con Clemente Mastella. Neanche Mandrake ci sarebbe riuscito.
(1. continua)
(Da Bollettino tributario d’informazioni n. 8 del 2008)
Ancora tanti auguri
Caro Lettore,
è doveroso, da parte mia, inviare tanti auguri anche a:
* Fausto Bertinotti. Aldo Cazzullo è andato a scovare un’intervista al “Corriere della Sera”, del 2004, nella quale Fausto diceva: “L’idea di federare l’esistente, Rifondazione comunista più Comunisti italiani più Verdi eccetera è ridicola. Mi fa venire l’orticaria. Non avremmo alcuna capacità di attrazione”. Quattro anni dopo, dimentico di quelle dichiarazioni, ha propugnato “la Sinistra l’Arcobaleno” che era esattamente quel più, più, più. È possibile che l’orticaria gli sia venuta non per la strana unione ma perché la strana unione non è nemmeno entrata in Parlamento. Sempre Cazzullo dice che Fausto “è stato tra i protagonisti del passaggio dalla politica della rappresentanza a quella della rappresentazione”. Ahi, ahi. Quei cachemire esibiti a “Porta a porta”, trasmissione nella quale ha registrato forse il massimo di presenze, quanto gli hanno nuociuto! Il quotidiano del suo partito, “Liberazione”, è andato a sentire gli operai di Mirafiori. “Bertinotti ha detto uno di loro veste il cachemire, io guadagno mille euro al mese”. E Marco Rizzo, che è un comunista che sta ancora più a sinistra di Fausto, ha rivelato testualmente: “Bertinotti, come una mannequin, si cambiava due volte al giorno, per variare colori a ogni comizio”.
Ma il problema, si capisce, non è stato solo degli abiti. Un altro operaio di Mirafiori, pur non riferendosi direttamente a Fausto, ha affermato: “Quando parlano alla televisione quelli di sinistra io non capisco un cazzo. Usano paroloni... la globalizzazione... il movimento. Tutte menate, a noi interessa lo stipendio e vivere un po’ meglio, avere due soldi in tasca. Rifondazione dice che è stata una vittoria aver ritirato le truppe dall’Irak e io rispondo: e a me cosa ne viene in tasca?”.
Ma Fausto bisognava vederlo la sera del 14 aprile, ossia il giorno della scomparsa politica, a “Porta a porta”. Masticava amaro, e questo è comprensibile, ma indossava un vestito quasi sdrucito, un colletto di camicia sbattuto, una cravatta rossa annodata male, niente occhiali appesi al collo. Addio cachemire, almeno sul piccolo schermo. Ma addio anche a tanti privilegi che un operaio non ha e che un ex rappresentante degli operai (non dimentichiamo che Bertinotti proviene dal sindacato) avrebbe dovuto quanto meno limitare. Naturalmente Fausto non avrà problemi di sopravvivenza, con la ricca pensione che gli assicura lo Stato italiano ma non potersi più fregiare neppure del titolo di deputato o senatore gli costerà certamente caro;
* Franco Giordano. Nella lunga relazione svolta al comitato politico nazionale del Partito della rifondazione comunista, che si è tenuto a Roma all’indomani delle elezioni, il 19 aprile, ha parlato di “catastrofe”, di “impressionante svolta a destra, una sterzata inaudita, di dimensioni e portata mai viste dal dopoguerra a oggi”, di “risultati profondamente deludenti dell’azione di governo”. Ma poi ha elogiato il “lavoro positivo svolto dai nostri compagni nella delegazione di governo”, andando così completamente fuori binario, perché è proprio la inesistente azione di governo che i suoi elettori hanno punito. Giordano ha anche pianto, ha versato lacrime sincere. Forse pensava alla inutilità dei temi trattati in campagna elettorale e nei numerosi interventi televisivi di durata uguale a quella di tutti gli altri politici, per effetto di quella dissennata regola detta della “par condicio”. Sta di fatto che un altro operaio di Mirafiori, nella citata inchiesta di “Liberazione”, ha così stigmatizzato: “Un partito che pensa solo agli omosessuali e agli zingari, mentre dei lavoratori se ne è sbattuto fino all’altro giorno”. Si dà il caso che di quel partito fosse segretario, ossia responsabile, Franco Giordano;
* Alfonso Pecoraro Scanio. Potrebbe essere soprannominato “il signor NO”, come quello che compariva nelle trasmissioni di Mike Bongiorno: no agli inceneritori, no all’alta velocità, no al ponte sullo Stretto, no, no, no a tutto. Qualcuno ha detto che, benché in Europa i Verdi abbiano circa il 10 per cento dei consensi, lui è riuscito a distruggerli in Italia. Nessun deputato, nessun senatore nel nuovo Parlamento. Eppure, per la risibile regola della “par condicio”, ha imperversato in tutte le televisioni pubbliche e private, lanciando i suoi messaggi decisi, sicuri, inappellabili. I suoi stessi elettori non hanno gradito. Ma il benservito più graffiante glielo ha dato proprio la pagina satirica di “Liberazione” del 20 aprile con una vignetta in cui si legge: “Pecoràaaroo!! Sarà più facile riciclare tutta la monnezza della Campania che riciclare la tua penosa figura politica!!!”. Comunque, anche lui la pensione ce l’ha assicurata: 8.836 euro lordi al mese;
* Francesco Rutelli. Ha condotto una campagna elettorale per l’elezione a sindaco di Roma come se i suoi predecessori fossero stati dell’altra parte politica. Bisogna cambiare questo, bisogna cambiare quello: ma non era stato Walter Veltroni il sindaco della città fino alle dimissioni per candidarsi a presidente del Consiglio? In televisione, Rutelli usava il linguaggio saccente del vittorioso ma senza avere la vittoria in tasca. Ha finito con l’irritare gli stessi elettori della sua parte politica, sessantamila dei quali hanno votato per il candidato alla provincia di Roma del Partito democratico e per Alemanno alla carica di sindaco;
* Vincenzo Visco. Ha chiuso con un gran botto finale, quando era già dimissionario. Lui dice che l’iniziativa della pubblicazione su Internet delle dichiarazioni 2005 dei contribuenti è dovuta all’Agenzia delle entrate. Ma, a parte la considerazione non irrilevante che la citata Agenzia non è certo sottratta alla supremazia del ministro, sta di fatto che lo stesso Visco aveva disposto che i dati venissero pubblicati dopo le elezioni e non prima. Dunque, quanto meno, sapeva. Di questa questione si discuterà ancora a lungo, a parte i risvolti giudiziari destinati verosimilmente a finire nel nulla. Mi limito, per ora, con riserva di riprendere l’argomento al momento opportuno, a registrare una dichiarazione di Massimo D’Alema. Dopo aver raffrontato i redditi dei giornalisti con quelli dei politici, ha dichiarato: “Sapevo già che alcuni di questi moralisti che scrivono sui giornali guadagnano dieci volte noi politici, malgrado che questo non corrisponda minimamente a un valore di mercato, visto che i giornali in Italia non vendono. È una casta anche quella, ma molto meglio protetta della nostra”. Bene, bene. Giornalisti strapagati che fanno giornali che non vendono, politici strapagati che fanno politica che non quaglia. E il cittadino Giacomino, sbattuto tra una casta e l’altra, sta a guardare. Poi qualcuno si lamenta se lui si vendica nel segreto dell’urna.
(2. continua)
(Da Bollettino tributario d’informazioni n. 9 del 2008)
Infine tanti auguri
Caro Lettore,
sarebbe ancora assai lungo l’elenco dei destinatari di questi auguri post-elettorali ma, poiché ogni bel gioco dura poco, dovrò contenermi. Del resto, non mancherà occasione, occorrendo, di far pervenire “messaggini” (di questo tipo cartaceo, beninteso, e non certo sul telefono cellulare, perché poco me ne intendo) a chi di dovere. Dunque, concludo inviando tanti auguri a:
* Tonino da Bisaccia detto Di Pietro. Quando ha preso la parola a Montecitorio per la discussione sulla fiducia al Governo, ha attaccato frontalmente il presidente del Consiglio dei ministri, in tal modo evocando quell’ultimo giapponese della storia, quel militar soldato del Sol Levante, che, dimenticato da tutti su un’isoletta deserta del Pacifico, continuava la sua guerra personale, perché nessuno gli aveva comunicato la fine di quella tra le Potenze. Tonino ha fatto anche di più. Non potendo non sapere (ed ecco rivoltarglisi contro un suo antico teorema, che tanta gente, magari poi risultata innocente, ha portato in carcere) che i due schieramenti maggiori avevano optato per la distensione, ha ugualmente deciso di andare all’attacco da solo. Ha dunque interpretato la fine almeno dichiarata ma si spera anche vissuta della contrapposizione frontale come un tranello teso dal Berlusca, affermando che lui non ci sarebbe cascato, con ciò lasciando intendere che nel tranello siano invece cascati Veltroni ed i suoi. Non so quale effetto abbia fatto su Walter sentirsi dare dello sciocco, ossia di colui che cade nel tranello. A loro volta, gli spettatori che non si sono ancora ripresi dallo choc di vedere, nel precedente Governo di centrosinistra, tutti che litigavano con tutti devono aver temuto un pauroso salto all’indietro, ossia che il bon ton adoperato dai due maggiori protagonisti potesse durare lo spazio d’un mattino. Per fortuna di tutti, la presa di posizione di Tonino non ha avuto concrete conseguenze nel Parlamento né fuori. Anzi, va registrata una responsabile e condivisibile dichiarazione della regista Liliana Cavani, la quale, pur non avendo mai votato a destra, afferma che è l’ora di credere in Berlusconi perché “è l’unico tentativo che ci rimane”;
* gli uccelli del malaugurio. Chi sta seguendo i commenti del dopo-elezioni ha notato che si sono profilati due schieramenti. Il primo è di coloro i quali, pur meravigliati dell’aria di civiltà che dopo tante risse, improperi, rumori e striscioni insultanti si è respirata nei due rami del Parlamento, e quindi tendenzialmente scettico sulla sua durata, tuttavia spera in un radicale cambiamento del clima politico. Il Paese è in ginocchio, ed è inutile perdere tempo sulle colpe e sulle responsabilità. Ora bisogna agire, ed agire in fretta e dunque l’augurio è che il Berlusca, mandatario di un potere senza precedenti, superi la prova. Poi c’è l’altro schieramento, ed è quello di coloro che già vivono l’insuccesso. Un rappresentante autorevole di questo schieramento ha ricordato che potrebbe capitare al Berlusca ciò che è capitato a Sarkozy, il quale, proiettato all’Eliseo sull’onda di un travolgente successo, ha visto il consenso declinare paurosamente in tempi brevi. Bene, che una cosa del genere possa capitare anche a Silvio è da mettere nel novero naturale delle cose ma quasi augurarselo, no, no e poi no. Perché ed è questo che certa gente non riesce a capire, non per mancanza di intelligenza ma per faziosità politica qui non sono in gioco le sorti di un uomo, di un partito o di uno schieramento. Qui sono in gioco le sorti del Paese, dei suoi cittadini, soprattutto dei più poveri e dei più indifesi. Liliana Cavani ha evocato l’esempio dell’alluvione di Firenze, allorquando accorsero da tutto il mondo per salvare quella città ed il suo incommensurabile patrimonio. Bene, ora l’alluvione della criminalità micro e macro, dell’insicurezza, dell’indigenza, della paura del futuro, per non dire della munnezza vera e propria ha sommerso tutto il Paese. Fosse andata al governo la sinistra, avremmo avuto il dovere di tifare per essa. È andata al governo la destra, il nostro dovere (morale, si capisce, perché alla stupidità non c’è limite) è di tifare per essa;
* tutti i trombati, coloro il cui volto dimenticheremo perché sommersi dalle schede elettorali. Fanno tenerezza (si fa per dire) solo quei parlamentari i quali, non avendo raggiunto i due anni, sei mesi e un giorno di mandato, hanno dovuto sgomberare la scena senza pensione. Ma si tratta di una minoranza. Tutti gli altri, la pensione ce l’hanno e si tratta di una pensione che difficilmente un impiegato privato o pubblico potrà mai raggiungere. Si pensi a Ciriaco De Mita, per un certo tempo uomo più potente d’Italia, “un intellettuale della Magna Grecia”, come lo aveva definito Gianni Agnelli, che ora non si sa chi potrà intrattenere coi suoi ragionamenti forse impeccabili dal punto di vista della filologia romanza ma piuttosto inaccessibili ai più. Si pensi a Clemente Mastella, sostanzialmente rifiutato da tutti, dopo aver acquisito l’innegabile merito di aver staccato la spina ad un Governo in stato comatoso. Si pensi ad Enrico Boselli, leader di quello che fu il Partito socialista di Bettino Craxi, divenuto una presenza patetica sulla scena politica italiana. Boselli intendendo forse imitare Berlusconi quando piantò in asso Lucia Annunziata durante un’intervista televisiva si alzò ad un “Porta a porta” e raggiunse in strada un gruppo di giornalisti previamente convocati per assistere all’evento già pianificato. Che, viceversa, gli fece perdere quel po’ di consensi che forse ancora poteva avere;
* giornalisti e commentatori radiotelevisivi e della carta stampata che hanno già cominciato a cambiare casacca. È vero che il “tengo famiglia” è una caratteristica italiana imprescindibile, ma il troppo è sempre troppo;
* popolo italiano. È andato al voto con la mente apparentemente frastornata dagli stessi politologi, il più celebrato dei quali, Giovanni Sartori, aveva invitato a votare per la sinistra alla Camera e per la destra al Senato, o viceversa, in modo da bilanciare la forza dei due schieramenti. Una scelta suicida, che gli italiani non hanno seguito, dando ad una parte la vittoria non per 24.000 voti, com’era accaduto nel 2006, ma di proporzioni paragonabili solo a quelle che la Democrazia cristiana conseguì sul Fronte popolare (comunisti più socialisti) il 18 aprile 1948. Esattamente, sessant’anni fa, nella medesima stagione, la primavera. Quella primavera astronomica anticipò una straordinaria stagione politica che porterà al “boom” degli anni sessanta. Occorre sperare che anche questa primavera sia l’anticipazione di una fase completamente nuova per questo Paese che, avendo toccato il fondo, non dovrebbe che poter risalire.
(3. fine)
(Da Bollettino tributario d’informazioni n. 10 del 2008)
Voglia di Stato
Caro Lettore,
Enzo Biagi scrisse da qualche parte che, da quand’era ragazzo, la sola vista dei Carabinieri gli incuteva un certo timore, inducendolo a chiedersi se avesse fatto qualcosa di male che i tutori dell’ordine per antonomasia, i Carabinieri appunto, avrebbero potuto rimproverargli. Era, questo, il senso dello Stato, della sua autorità, che induceva al rispetto ed all’autocontrollo. Biagi apparteneva a quella categoria di persone che hanno vissuto giovinezza e almeno parte della maturità sotto il fascismo, che si era immedesimato nello Stato, dandogli però un volto autoritario.
Gli appartenenti alla generazione successiva a quella di Biagi la mia generazione, per esempio hanno vissuto sotto il fascismo la fanciullezza e parte dell’adolescenza, facendo comunque in tempo a vivere tempi in cui lo Stato affermava ad ogni piè sospinto la sua esistenza, benché talvolta in modo fastidioso, come quando obbligava alle adunate del sabato. In realtà era il regime che imponeva le adunate, il cui intento però era quello dichiarato di preparare i soldati di domani e quei soldati avrebbero servito la Patria, non il regime. Anche se poi, come la guerra si preoccuperà di dimostrare, non esisteva più confine tra i due concetti, stante la immedesimazione di cui è detto sopra.
Ma uno Stato, per farsi rispettare, non deve essere necessariamente retto da un regime totalitario, o identificarsi con esso, è sufficiente che dia prova della sua esistenza, come dimostrano anche le grandi democrazie occidentali.
Le generazioni successive alla mia credo non abbiano mai capito che cosa sia veramente lo Stato. Hanno cominciato ad abitare la terra italiana quando questa era già caduta nelle mani delle fazioni. Hanno cercato di districarsi tra una miriade di partiti politici, che si contrapponevano frontalmente l’uno all’altro, predicando le più diverse teorie di governo ma evitando accuratamente di pronunziare la parola Stato, così come, del resto, la parola Patria. Quest’ultima parola veniva ritenuta troppo “compromessa” dal fascismo, che in realtà ne aveva fatto uso ed abuso, e Stato richiamava troppo alla mente qualcosa di serio, di ottocentesco (il sogno dello Stato italiano unitario, lo Stato liberale eccetera).
È poi venuta la rivoluzione del Sessantotto e se non fosse stato per Pier Paolo Pasolini uno scrittore, si noti, di sinistra che disse che i veri proletari erano i poliziotti che venivano presi a sprangate dai figli di papà improvvisatisi rivoluzionari, forse staremmo ancora in una fase adolescenziale della nostra esperienza politica.
Nei successivi quarant’anni è accaduto anche di peggio. Il terrorismo, per esempio, che, lungi dal considerare lo Stato ente sovrano, intendeva “trattare” con esso, anzi sottometterlo. Tangentopoli, altro esempio, che ha costituito la svendita dello Stato o di suoi pezzi ad opera di cricche di potere, che hanno rischiato di trasformare anche partiti politici di nobili ed antiche tradizioni in fortini del malaffare. La criminalità organizzata che, occupando spazi dello Stato si è autoinvestita di funzioni pubbliche ma per finalità private. La gente assisteva sbigottita, perdendo sempre di più la cognizione di autorità, di potere, come categorie sovrane e scevre da compromessi di qualsiasi tipo. E così, pian piano, allo stesso modo in cui era scomparsa la parola Patria, è scomparsa anche la parola Stato.
Tuttavia, in base ad una vecchia legge di esperienza, quando si tocca il fondo non si può che risalire. E così, ha cominciato a riemergere la parola Patria, ad opera di Carlo Azeglio Ciampi, quand’era presidente della Repubblica. Ma, ed ecco la sorpresa, è riemersa anche la parola Stato.
È un vero peccato che solo pochi italiani quanti sono coloro che seguono “La 7”, la televisione a mio avviso più intelligente che oggi abbiamo abbiano potuto seguire in diretta la conferenza stampa che il presidente del Consiglio in carica ha tenuto nel Palazzo reale di Napoli, subito dopo il primo consiglio dei ministri riunito, appunto, come da promessa, nella città partenopea.
E qui mi si permetta una precisazione. In tempi di campagna elettorale come Lei, mio caro Lettore, ben sa io, da buon liberale, non ho mai espresso giudizi favorevoli o contrari nei confronti di chicchessia, limitandomi a fare il mio modesto dovere di cronista. Ma se parla il presidente del consiglio dei ministri, condotto alla carica non da una camerilla di palazzo, ma da un plebiscito elettorale, io, come italiano, come cittadino e come elettore, ho il dovere di aprire bene entrambe le orecchie. E anche se la persona fisica che incarna la carica non è, obiettivamente, il massimo che si possa desiderare, bisogna avere rispetto ed attenzione per la sua figura istituzionale.
Bene, ciò precisato per gli animi semplici, devo dire che quella sera, dinanzi al televisore, non credevo alle mie orecchie. Il presidente del consiglio italiano, dunque il mio presidente, rimetteva in circolazione la parola Stato. Prendeva lo spunto dallo schifo che è successo a Napoli. I cittadini scendono in piazza perché le strade sono piene di monnezza. Chi di competenza indica il sito A. Gli abitanti del comune dove c’è il sito A scendono in piazza perché non vogliono il sito e il sito A viene abbandonato. Viene allora indicato il sito B ma i cittadini del comune scendono in piazza perché non vogliono il sito e il sito B viene abbandonato. E così via, scendono tutti in piazza e tutti hanno ragione, nel mentre la munnezza, che nessuno vuole, da nessuna parte, aumenta. Allora il consiglio dei ministri vara un piano triennale, che comprende siti, inceneritori e quant’altro, ed afferma che lo farà rispettare. Anche Prodi affermò che “il governo” aveva trovato la soluzione, quella di De Gennaro, che non ha avuto seguito nonostante la capacità della persona. Berlusconi ha detto che il consiglio dei ministri aveva studiato una soluzione e che “lo Stato” l’avrebbe fatta rispettare. Non è più dunque il governo, presieduto da questo o da quello, che fa da prim’attore. È lo Stato, risuscitato a nuova vita, che ha rimosso anche un blocco ferroviario a Battipaglia perché nessun dimostrante, per nessun motivo, fosse anche il più valido, può farsi ragione commettendo un reato.
Naturalmente, dalle parole e dai primi vagiti bisognerà passare ai fatti ed alla continuità dell’impegno. Ma gli italiani, se vogliono, sanno essere vigili.
(Da Bollettino tributario d’informazioni n. 11 del 2008)
Voglia di sognare
Caro Lettore,
la sera di martedì 17 giugno mezza Italia, e forse più, è stata dinanzi ad un televisore. Io non sono tifoso del calcio, se si eccettua il periodo in cui un certo Diego Armando Maradona è stato ospite della mia città. Ma allora non si andava allo stadio San Paolo per assistere ad una partita di calcio. Si andava per restare stupiti dinanzi alle esibizioni di un artista circense il quale, coadiuvato da dieci compagni, si divertiva ad infrangere le regole della geometria, dell’aerodinamica, della gravità e di non so cos’altro ancora. Per esempio, un pallone apparentemente destinato ad uscire dal campo passando sopra la traversa, improvvisamente tornava indietro, si abbassava giusto il necessario per entrare in rete, dinanzi agli occhi dell’allibito ed impotente portiere avversario. Uno così, è difficile che possa ancora nascere.
Dunque, non mi considero un tifoso, però quando è in ballo il tricolore, avverto un certo senso di appartenenza, o non saprei come altro chiamarlo, per cui, superate le riluttanze, mi accingo a vedere e, purtroppo, come capita spesso, anche a soffrire. Ma quel che mi tiene su è la condivisione della voglia di sognare che hanno tutti gli altri spettatori. Naturalmente, non è detto che poi le cose vadano nel senso desiderato, come martedì 17, ma non ci si può certo far condizionare la vita dai risultati di una partita o di un campionato. Non dimentichiamo che sempre di gioco si tratta.
Ben diverso è il caso di altri sogni. Nello stesso giorno in cui si è disputata la partita di calcio tra la nostra nazionale e quella francese, si sono consolidati i risultati delle elezioni amministrative in Sicilia. Una nuova “valanga azzurra”, che ha dato al centrodestra anche tre province tradizionalmente “rosse”. Poiché ritengo che gli elettori italiani non votino a casaccio, o per partito preso come purtroppo accadeva un tempo, interpreto questa rinnovata fiducia al centrodestra, a circa due mesi dalle elezioni politiche, come una conferma della voglia di sognare che hanno gli italiani. Un aspetto di questo sogno è dato da uno Stato forte, autorevole (non autoritario), efficiente, come ho scritto nell’ultima lettera. Un altro aspetto, una sorta di corollario, se si vuole, è costituito dalla coerenza di un tale Stato, che fa seguire la punizione alla minaccia se questa è stata formulata. In caso diverso, meglio non minacciare neppure. Ciò significa avere un sistema giudiziario efficiente e leggi rigorose, che non debbano essere svuotate di contenuto ad ogni stormir di fronda, come è troppo spesso capitato con le varie amnistie, condoni, per non dire di quell’autentica porcheria che è stato l’indulto del governo Prodi. Ho sentito Di Pietro affermare che lui l’indulto non l’ha votato, ed è vero, ma gli è stato esattamente obiettato che, se avesse davvero voluto evitare il provvedimento, avrebbe dovuto minacciare di togliere l’appoggio al governo del quale faceva parte. Forse anche gli altri componenti dell’eterogenea coalizione, se non altro per timore di perdere la poltrona, si sarebbero associati e noi non avremmo imbrogliato le carte più di quanto non fossero già imbrogliate. D’altra parte, il medesimo governo è caduto, per molto meno, ad opera di Mastella.
Ma di questo sogno, diciamo così, giudiziario, fa parte dell’altro. Scrive Mario Cervi: “È una convinzione che viene da lontano quella dei magistrati alcuni magistrati d’essere non servitori dello Stato cui spetta d’applicare le leggi, ma detentori di supreme verità sociali e morali. In questa versione sublimata i giudici e i pm debbono tutelare, più di quanto faccia il Quirinale, più di quanto faccia il Parlamento, più di quanto faccia la Corte costituzionale, i supremi valori della Repubblica. Oppongono i loro dinieghi nel nome d’una sacralità del diritto e dei diritti sulla quale ritengono d’essere gli unici a potersi pronunziare”.
Come dargli torto? Credo di aver già raccontato, in altra occasione, che nel bellissimo palazzo di Castelcapuano, a Napoli, già sede del Tribunale, dove risuonano ancora le voci di vecchi penalisti che hanno fatto la storia giudiziaria, c’erano quadri e fotografie dei magistrati di grado elevato d’un tempo. Si intuisce dallo sguardo, dall’abbigliamento, dall’insieme, che si trattava di persone use a muoversi in una dimensione alta, lontana dalle contaminazione della vita, veramente al di sopra di tutto. Di quei magistrati ci si poteva fidare del tutto, sotto ogni aspetto ma soprattutto per quanto attiene all’indipendenza del giudizio. Perché, a mio avviso, la vera indipendenza del giudice è questa, cioè potersi esprimere sui casi sottoposti al suo esame senza condizionamenti esterni, facendo appello solo ed esclusivamente alla propria coscienza. Ma tutto questo nell’ovvio ambito della legge che, in un sistema democratico, è compito affidato ad appositi organi costituzionali. Dura lex sed lex, si diceva una volta, dura è la legge ma è la legge, e così dovrebbe essere per tutti, magistrati compresi. Una volta s’insegnava altresì che il potere legislativo fa le leggi, il potere esecutivo le fa eseguire, il potere giudiziario ne controlla l’applicazione. Anche se le leggi sono “dure”. A ciascuno il suo compito, insomma.
È ancora così? Non sembra proprio, visto che i magistrati o, meglio, alcuni magistrati, come giustamente scrive Mario Cervi, perché la loro maggioranza pensa solo a fare il proprio dovere non vogliono perdere l’abitudine di interferire nel processo di formazione delle leggi. Intendiamoci. Nessuno vuol loro negare il diritto di esprimere le proprie opinioni ma negli stessi limiti e con gli stessi vincoli assicurati ad ogni cittadino. Nei giorni scorsi è stata rievocata la vicenda di un gruppo di magistrati milanesi che si presentò in televisione ed annunciò le proprie dimissioni se fosse stato emanato un certo decreto-legge che il governo, non presieduto da Berlusconi, aveva annunziato. Il capo dello Stato del tempo si rifiutò di apporre la propria firma ed il decreto non venne mai emanato.
Ecco, questi sono gli straripamenti, gli eccessi, i “deliri di onnipotenza”, come li definisce l’ex presidente della Repubblica Francesco Cossiga, che il pubblico non tollera e non perdona, come dimostrano i risultati delle varie elezioni. Possibile che a non capirlo siano proprio gli interessati? E possibile che non si rendano conto che contrastare la voglia di sognare degli italiani un parlamento che faccia buone leggi, un’amministrazione che sappia amministrare, una magistratura che lavori presto e bene è controproducente per tutti? Anche perché questo tipo di sogni non ha nulla in comune con quello di vincere una partita o un campionato ed infrangerli potrebbe costare caro addirittura alla democrazia.
(Da Bollettino tributario d’informazioni n. 12 del 2008)
Proprietà di linguaggio
Caro Lettore,
Tonino da Montenero di Bisaccia, in arte Di Pietro, ha detto che il presidente del Consiglio dei ministri, più che uno statista, gli appare come un magnaccia. Ciò a cagione delle intercettazioni pubblicate da alcuni giornali, nelle quali il Berlusca “segnala” alcune persone all’attenzione di chi poteva in Rai. A parte il fatto che, se ho ben letto, queste “segnalazioni” avevano l’unico intento di “far sapere” alla persona “raccomandata” che, appunto, c’era stata raccomandazione, indipendentemente dall’esito, mi pare che il termine “magnaccia” sia errato. Secondo il mio amico Zingarelli (ma sulla stessa linea sono schierati i sette od otto vocabolari che affollano i miei scaffali), magnaccia è il “protettore di prostitute” e, estensivamente, “l’uomo che si fa mantenere da una donna”. Ora a me sembra, non avendo l’apertura mentale di Tonino, che ci sia una differenza tra il proteggere una prostituta e il raccomandare una persona che ha aspirazioni “artistiche”. D’altra parte, questa storia delle raccomandazioni è veramente scema, per non dire peggio. La raccomandazione è sempre esistita e sempre esisterà, con buona pace delle vestali del nulla. Anche se la conoscenza della storia non è assistita dalla presunzione che accompagna la legge (ignorantia legis non excusat, l’ignoranza della legge non scusa), Tonino non può non sapere, per usare un paradigma a lui caro, che, proprio nella storia degli uomini illustri, spesse volte la “raccomandazione” o, come si dice con pudicizia, la “segnalazione” ha avuto, eccome, il suo valore. Scandalizzarsi di queste cose è come scandalizzarsi perché il vigile urbano fa finta di non vedere la violazione commessa da una bella ragazza, nel mentre diviene inflessibile di fronte alla stessa violazione commessa da un uomo.
Quanto poi al significato estensivo di “magnaccia”, uomo che si fa mantenere da una donna, a me sembra che siamo proprio al di fuori di ogni logica. Uno degli uomini più ricchi non d’Italia, ma del mondo, che si lamenta, o fa finta di lamentarsi, perché potrebbe godersi le sue ricchezze se si decidesse ad abbandonare la politica, immaginare che si faccia “mantenere” da una o più donne, è idea che solo il geniale Tonino poteva avere.
Dunque, siamo di fronte ad una evidente improprietà di linguaggio, anche perché, nel caso che ne occupa, non v’è traccia di prostitute, del tipo, per intenderci, di quella che si accompagnò ad un deputato in un albergo romano, restando poi coinvolta in un problema di droga. Qui v’è traccia solo di cosiddette “veline”, o aspiranti tali, che appartengono ad un mondo ben diverso da quello della prostituzione.
Si dà il caso, però, che alla improprietà di linguaggio si accompagni anche un contenuto fortemente offensivo della parola ed è questo che suscita allarme. Finora, di maleparole se n’era sentite parecchie, ma nei talk-show, ossia in quei luoghi nei quali il diverbio viene spesso provocato, e dunque inventato, perché sembra che faccia salire l’ascolto. I politici, invero, si erano sempre tenuti ben lontani da un linguaggio da trivio e da marciapiede. Anche questa novità è un segno dei tempi?
Ma Tonino ne ha combinato un’altra. Si è fatto fotografare nel mentre nel suo podere, ovviamente in Montenero di Bisaccia, guida un trattore. E qui sono affiorati alla mia mente due ricordi. Il primo è quello di Totò, che guida un trattore acquistato da suo fratello Peppino combinando una serie di guai. Il secondo è quello di un certo Benito Mussolini che, a torso nudo, partecipava alla trebbiatura. Però quelli erano i tempi in cui il Duce aveva scatenato la “battaglia del grano” (e magari si fosse limitato a quella), allo scopo di fare in modo che gli italiani potessero avere il “loro” pane e non dovessero importare la materia prima.
Il Duce, infatti, pensava, certamente non a torto, che il pane fosse il principale alimento, ovviamente in tempi in cui la “linea” non era un rompicapo. Infatti aveva scritto: “Amate il pane / cuore della casa / profumo della mensa / gioia dei focolari. / Rispettate il pane / sudore della fronte / orgoglio del lavoro / poema del sacrificio”.
Non ho poi ben capito se Tonino, anche se pudicamente coperto da una maglietta, e dunque non a torso nudo, abbia voluto anticipare agli italiani la sua voglia di cambiare nuovamente mestiere oppure abbia voluto incitare gli italiani a farlo. Una volta si diceva: “Ma datti all’ippica”, quando ci si voleva togliere di torno qualche persona molesta. Ora si potrebbe aggiornare il detto con: “Ma datti all’agricoltura”.
Nella certezza che Tonino non ascolterà il consiglio, segnaliamo un’altra notevole improprietà di linguaggio nell’uso del vocabolo “casino”, giusto per non allontanare il discorso dal solco tracciato da Tonino medesimo. Oggi anche le signore sci sci non hanno alcuna remora nel pronunziare tale parola, convinte che essa sia sinonimo di disordine, di confusione, di baccano. Nulla di più errato. In quelle famose “case”, che oramai soltanto i non più giovani d’età hanno almeno una volta visitato, se non altro per curiosità, regnava l’ordine più assoluto, tutto era programmato e stabilito secondo un orario delle operazioni che tutti dovevano rispettare. Ma, di improprietà di linguaggio l’argomento è zeppo. Infatti, quelle case venivano definite “chiuse”, nel mentre non c’erano luoghi più aperti ed ospitali di quelli e quando la senatrice Merlin riuscì a perorare una famosa legge abrogatrice, si disse che le case erano state “chiuse” ma come si sarebbe potuto fare a chiudere una casa già chiusa per definizione? Furono invece aperte, come si premurò di raccontare Totò in un esilarante film nel quale aveva come spalla Peppino De Filippo.
Ma forse sarà meglio mettersi l’animo in pace. Di vocaboli usati a vanvera sono piene le cronache, soprattutto politiche. Di sicuro Tonino, pur avendo un linguaggio del tutto personale, non avrebbe mai detto, quand’era pubblico ministero, “reato penale” come si sente e si legge con preoccupante frequenza. Ma, avendo mutuato i vizietti dei politici, categoria alla quale ha ritenuto di ascriversi, può tranquillamente fare un uso disinvolto dei vocaboli.
(Da Bollettino tributario d’informazioni n. 13 del 2008)
Silvio
Caro Lettore,
i miei ricordi di Giovannino Guareschi di cui ricorre quest’anno il centenario della nascita ed il quarantennale della morte mi inducono ad esporre come segue alcuni argomenti di attualità.
VISTO DA SINISTRA
Nella eterna lotta tra il Bene ed il Male, in Italia ha ancora prevalso il Male. Il Male Assoluto. Che ha un nome ed un cognome: Silvio Berlusconi. Inviato sulla terra direttamente da Lucifero per indurre alla dannazione tutti gli italiani, il sub-diavolo Berlusca ha subito sferrato una campagna denigratoria contro i comunisti, paladini della libertà e della pace, diffondendo falsità a piene mani. A nulla sono servite le difese subitamente approntate dagli ultimi eredi della gloriosa tradizione sovietica, che hanno fatto ricorso anche all’abiura e al mendacio. “Non sono mai stato comunista”, ha detto il più importante di loro, che così sperava di mimetizzarsi per poter continuare la lotta alle forze oscure della reazione in agguato. Anche gli altri, per la verità, si sono mimetizzati, cambiando etichetta tre o quattro volte, ma il furbo sub-diavolo non l’ha bevuta. Ed infine ha dimostrato la sua smisurata potenza facendo convergere i suoi strali sul sub-comandante Fausto, il quale, rifiutando ogni mimetizzazione, continuava orgogliosamente a proclamarsi comunista. Ebbene, il poverino non è riuscito nemmeno a farsi eleggere al Parlamento.
Ben si comprende come questo autentico Pericolo Pubblico, questo Nemico della Normalità, questo subdolo Eversore, debba essere combattuto su tutti i fronti e con tutti i mezzi. Per questo, è stata mobilitata la Piazza, che ha prontamente risposto alle Forze Sane del Paese che la chiamavano a raccolta, soprattutto ad opera di Mano Pulita. La grandiosa manifestazione svoltasi a Piazza Navona a Roma l’8 luglio, alla quale ha partecipato più di un milione di persone, si pone come il punto di svolta nella condotta della Sinistra, finora succuba dello strapotere del sub-diavolo. Il quale è riuscito, grazie ai poteri occulti di cui dispone, ad infiltrare tra gli oratori alcuni suoi adepti che, insultando il Papa ed il presidente della Repubblica, che non c’entravano assolutamente nulla con la manifestazione, hanno suscitato la sdegnata reazione degli italiani brava gente.
Ma la Sinistra dura e pura saprà reagire anche a questa ennesima mistificazione del sub-diavolo, mobilitando i girotondini che, dopo aver ripassato coi loro figli la filastrocca, canteranno: “Giro giro tondo / come è bello il mondo / cavalier d’argento / che vale cinquecento / centocinquanta / cavaliere canta / lascialo cantare / lui vuole comandare / cavaliere bianco e nero / ti dò la buonasera / buonasera e buonanotte / Veltroni è fuori la porta / ma la porta casca giù / e Veltroni non c’è più”.
E, infatti, anche su questo Walter occorrerà fare una riflessione, acuta ed approfondita com’è nel costume della Sinistra, perché il suo rifiuto di partecipare al Grande Evento di Piazza Navona ha alimentato l’idea che contro il sub-diavolo ci possa essere una lotta parlamentare, nel mentre è a tutti chiaro che occorrono mezzi ben diversi.
Ora lui sì è fatto approvare l’ennesima legge “ad personam” che sospende la responsabilità penale delle quattro massime cariche dello Stato per la durata del loro incarico. Si tratta di un’altra indecenza votata dai parlamentari della maggioranza (i “servi” del sub-diavolo, come li ha elegantemente definiti Mano Pulita) che forse fermerà la mano vindice di alcuni sostituti procuratori ma che non fermerà certo l’ondata popolare di sdegno nei confronti del sub-diavolo. E poco importa che la maggioranza degli italiani, ipnotizzata dalle sue arti diaboliche, gli abbia dato per tre volte negli anni fiducia. Il vero popolo sta a Sinistra ed a questo popolo noi diciamo: Avanti, popolo, alla riscossa!
VISTO DA DESTRA
Nella eterna lotta tra il Bene ed il Male, in Italia, una volta tanto, ha prevalso il Bene. Esattamente da quando Silvio Berlusconi, con la sua storica “discesa in campo”, ha esorcizzato le forze del Male, che si erano tutte annidate in quel che restava della sinistra, ossia degli eredi dei comunisti asserviti a Mosca. Questa rozza genìa, sfumato il sogno di far abbeverare i cavalli dei cosacchi nelle fontane di Piazza San Pietro, aveva sperato di impossessarsi ugualmente del potere. Ma il Divino ha affrontato impavido la pugna ed il cimento, costringendo gli avversari a mimetizzarsi sotto mentite spoglie, ossia sotto nomi agresti e variopinti, tipo querce, cespugli, garofani, arcobaleni e via fantasticando.
Non potendolo combattere nelle urne, dove il Divino mieteva voti a piene mani, i post-comunisti decisero allora di combatterlo nelle aule giudiziarie, mobilitando in 14 anni 90 processi, 2500 udienze, 500 magistrati e 470 perquisizioni, come ha ben ricordato alla Camera l’on. Cicchitto. Decisero anche di fargli fare una figuraccia internazionale, allorquando gli inviarono a Napoli un avviso di garanzia nel mentre il buon Silvio presiedeva il G8 del 1994, quasi a far intendere che vi fossero pressanti esigenze di giustizia. Esigenze che sono poi evaporate nel corso degli anni successivi. Tornato ora al potere sull’onda di un successo popolare senza precedenti, il Divino è stato subito oggetto di nuovi attacchi eversivi, sicché è stato costretto, per legittima difesa, ed anche per poter onorare la fiducia popolare, a far approvare in fretta e furia una legge che lo porrà al riparo da brutte sorprese. Non si tratta, quindi, come bolscevicamente insinua la Sinistra, di “leggi ad personam” ma di tutela della morale pubblica. D’altra parte, i bolscevichi non avevano alcuna necessità di farsi fare leggi apposite per coprire le loro magagne, perché bastava la tessera del partito.
Nonostante i miracoli quotidiani praticati dal Divino, la Sinistra continua a negare le sue qualità, rilevando che nessuno lo ha mai visto camminare sulle acque. Il che, apparentemente, è vero. Ma solo apparentemente. Perché quando Egli cammina sulle acque, o spicca il volo, chiama intorno a sé, per la modestia che lo distingue, soltanto una ristretta cerchia di fedelissimi.
(Da Bollettino tributario d’informazioni n. 14 del 2008)
Punti di domanda
Caro Lettore,
come Lei già sa, io non mi sono munito di questo coso, ossia del pc, per amore ma per forza, essendo stato sempre estimatore ma che dico estimatore, amatore delle macchine per scrivere, a cominciare dalla famosa Olivetti Lettera 22, che fa ancora bella mostra di sé nel mio studio. Ricordo con nostalgia e trasporto la prima macchina elettrica, con testina rotante, poi con margherita, e ancora le macchine elettroniche, silenziose, a getto d’inchiostro. Tutto finito perché le varie case costruttrici non fabbricano più né le macchine né i nastri. Ora, dopo tre anni di apprendistato, comincio un po’ a familiarizzare con il coso, che mi ha consentito, per esempio, di scannerizzare tutte le foto di famiglia e, con l’ausilio di un aggeggio regalatomi da mio figlio, di trasferire su pc buona parte dei miei amati dischi di vinile. Il vantaggio di avere i brani su pc consiste nella loro facilissima accessibilità perché basta un clic, senza l’armeggìo richiesto dal vinile. Non vorrei, andando avanti di questo passo, innamorarmi del coso. Mi sentirei un traditore delle mie radici, che restano nelle macchine per scrivere. Qualcuno, subdolamente, facendo leva sulle debolezze umane, insinua nella mia mente il dubbio che se l’innamoramento davvero sorgesse potrebbe essere un sintomo di mente giovane, il che, alla mia età, sarebbe una bella cosa. Chissà qual è la verità: e questo è un bel punto di domanda, anche se del tutto personale.
Usando il coso, ho imparato a collegarmi con siti istituzionali, in particolare con Camera e Senato, che consentono di assistere alle sedute nello stesso momento in cui si svolgono. Seguendo i dibattiti, si imparano molte cose. Per esempio, ci si accorge che i resoconti che di tali sedute danno i giornalisti sono in genere del tutto fuorvianti, nel senso che ognuno capisce ciò che vuole e lo trasmette ai lettori o agli ascoltatori. Inoltre, nessuno riesce a dare un resoconto fedele di quel che di buono o di cattivo c’è in ciascun intervento. Devo dire che ci sono parlamentari, deputati o senatori, che espongono i loro concetti con chiarezza, coerenza e compostezza, nel mentre ce ne sono altri che alla confusione di idee aggiungono anche un modo di parlare da mercato del pesce, con tutto il rispetto per gli operatori di tale mercato. Inoltre, ci sono parlamentari poco noti che però dimostrano di avere un cervello coi fiocchi e dunque costituiscono una piacevole sorpresa, anche se poi il voto finale è influenzato dall’appartenenza al loro colore politico. C’è da ritenere che se il servizio pubblico televisivo dedicasse un canale al Parlamento, per trasmettere in diretta tutte le sedute, e non solo alcune, gli italiani imparerebbero a conoscere meglio la politica e chi la esercita, con grande vantaggio per la maturità democratica. Dubitando che ciò accada, pongo qui un altro punto di domanda.
Sempre assistendo alle sedute in diretta (pardon, on line), si fanno anche altre scoperte. Si scopre, per esempio, che ci sono parlamentari che hanno urgenza di parlare al telefono cellulare, anche se sono seduti accanto al collega che in quel momento sta svolgendo un intervento ufficiale. Qualcuno, nella vana speranza di non disturbare il collega che sta parlando, mette la mano davanti alla bocca, proprio come fanno quegli screanzati che usano il medesimo gesto quando parlano mentre masticano o, peggio, mentre fanno una coscienziosa pulizia delle cavità dentali. C’è, poi, la questione della cravatta. Io sapevo che non si poteva entrare nelle aule parlamentari senza cravatta ma o ero male informato oppure le usanze sono cambiate. Infatti, alcuni parlamentari anche se, per la verità, costituiscono una minoranza non indossano la cravatta e non mostrano alcun imbarazzo. Eppure in Parlamento c’è l’aria condizionata, per cui la cravatta non dovrebbe provocare quel senso di calore che può diventare fastidioso ma al quale tante altre persone si devono assoggettare in omaggio al bon ton. Per debito di completezza devo anche aggiungere che si sta sviluppando un dibattito che tende proprio a stabilire se la cravatta sia ancora, o non sia più, un segno di bon ton, visto che il suo uso sta decrescendo. Tuttavia, se è vero che l’abito non fa il monaco, è anche vero che il modo di vestire manifesta il rispetto che si ha degli altri. Bisogna poi dire che, in netta controtendenza con la violazione del bon ton, le immagini fotografiche o televisive, ovviamente predisposte su copione e non certo in diretta, ci mostrano, per esempio, finanzieri che compulsano carte indossando berretto e guanti. Ora io non ho mai visto un finanziere entrare in un’azienda senza togliersi il berretto oppure compulsare carte senza togliersi i guanti. Tra l’altro, deve essere piuttosto complicato maneggiare fogli con i polpastrelli coperti. Tuttavia, su tutti questi strani comportamenti, non mi sentirei di fare un’opzione definitiva, per cui mi limito a porre un punto di domanda.
Cambiamo decisamente argomento. Mille anni fa, quando alcuni manifestanti bloccarono la stazione ferroviaria di Battipaglia ed un commissario di Pubblica Sicurezza (come allora si chiamava la Polizia di Stato) venne elogiato per aver convinto i manifestanti a lasciare liberi i binari, io scrissi che quel commissario andava invece processato per omissione di atti d’ufficio. Infatti, costituisce reato bloccare le comunicazioni ferroviarie. Oggi, che lo Stato sembra ritornato, se qualcuno blocca le comunicazioni arriva la polizia non per convincere ma per sfollare, magari coi manganelli.
Ma lo Stato è tornato intero o solo a metà? Nella precedente lettera ho ricordato che quest’anno ricorre il centenario della nascita ed il quarantennale della morte di Giovannino Guareschi. Giovannino andò in galera per offese al presidente della Repubblica, avendo pubblicato una vignetta nella quale due bottiglie di Barolo erano vestite da corazzieri. Presidente era Luigi Einaudi che era produttore di quel vino. Una cosa da tutti giudicata innocente ma che venne severamente repressa da giudici solerti. In questi giorni, c’è gente che continua ad offendere Giorgio Napolitano, attuale presidente della Repubblica, ma non ho notizia di azioni giudiziarie nei loro confronti. Sono andato a compulsare il codice penale, il reato per il quale fu condannato Giovannino è tuttora previsto dall’art. 278 che punisce l’offesa all’onore o al prestigio del presidente con la reclusione da uno a cinque anni. Il problema è se il ritorno dello Stato sia effettivo o supposto e se, nel primo caso, sia stata svilita la figura del presidente, così come sembrerebbe svilita la funzione della cravatta. Ed anche qui occorre mettere un punto di domanda.
Leggo che, nel mese di luglio, l’assenteismo nella pubblica amministrazione è crollato del 40 per cento. Ciò a causa delle minacce di licenziamento dei fannulloni fatte dal ministro Brunetta, il quale ha anche annunziato premi per chi eccelle nel proprio lavoro. Viene il dubbio che, nonostante il mutare dei tempi, la politica del bastone e della carota, enunciata da un certo Winston Churchill nel secolo scorso, sia sempre attuale. Punto di domanda.
Alcuni punti di domanda sopra elencati sono posti con evidente intento scherzoso, altri meno. Per rispondere a questi ultimi si richiede il verificarsi di almeno due presupposti: che un cervello esista e che, all’occorrenza, venga collegato alla parola o allo scritto. Punto.
(Da Bollettino tributario d’informazioni n. 15 del 2008)
Perché non siamo un paese normale?
Caro Lettore,
esistono delinquenti professionali, dediti soprattutto alla violenza, i quali sono in agguato sempre. C’è una dimostrazione di protesta in una discarica del napoletano? Loro lo sanno in anticipo, si presentano, si fingono dimostranti e poi si abbandonano alle violenze. C’è una partita di calcio nazionale o internazionale? Loro si travestono da tifosi, si presentano e, al primo pretesto, giù con le violenze. I più violenti di quest’ultima categoria mi pare fossero gli inglesi. Ebbene, da un po’ di tempo non se ne sente più parlare, perché, se risponde al vero ciò che ho letto, sono state fatte leggi, che poi polizia e magistratura fanno rispettare, in modo da scoraggiare iniziative del genere. Sembra che negli stadi siano state installate camere di sicurezza nelle quali vengono rinchiusi dalla polizia i facinorosi. Al termine della partita, un magistrato giudica seduta stante gli arrestati e, se del caso, li fa trasferire al carcere.
Nella partita Roma-Napoli è successo quel che è noto. Cinque facinorosi sono stati arrestati a Roma dalle forze dell’ordine ma il magistrato, pur avendoli rinviati a giudizio, li ha scarcerati. Subito Walter Veltroni ha rilasciato una dichiarazione che è stata ripresa da tutti i mass media, più o meno di questo tenore: “Il governo continua a dimostrarsi forte con i deboli e debole con i forti”. Il governo? E che c’entra il governo? Anche uno studente del primo anno di giurisprudenza sa che ad arrestare può essere la polizia giudiziaria ma che a scarcerare è il magistrato. Poiché non posso supporre che Walter ignorasse questa regola elementare, devo dedurne che egli ha detto il falso. Il che, per quanto mi riguarda, potrebbe anche lasciarmi indifferente. Ma il guaio è che Veltroni non è un quidam de populo, è il capo, sebben vacillante, del Partito democratico. Se questo partito e le altre opposizioni minori continuano su questi toni, perderanno le elezioni dei prossimi cinquant’anni ed a me, liberale viscerale, questo non sta bene, perché in tutte le grandi democrazie che sono state sempre il mio punto di riferimento penso soprattutto al Regno Unito ed agli Stati Uniti d’America l’alternanza al potere è una regola irrinunciabile per la vita stessa della democrazia.
Ma, a quanto pare, non c’è niente da fare. La sinistra non riesce a metabolizzare una sconfitta le cui proporzioni ricordano quella del 1948 e dà letteralmente i numeri. Lunedì 29 settembre ho captato uno scorcio della trasmissione “Omnibus”, su “La 7” (a mio avviso, la migliore emittente oggi esistente). Un giornalista affermava non essere affatto vero che la procura della Repubblica di Milano, già nel 1994, ce l’avesse con Berlusconi, facendogli pervenire un avviso di garanzia mentre presiedeva il G7 a Napoli, in tal modo esponendo l’Italia ad una figuraccia internazionale. “La procura di Milano ha detto più o meno testualmente il parlante nemmeno sapeva della riunione di Napoli. Figuriamoci se si metteva a seguire il calendario dell’ONU”. Ora, a parte il fatto che il G7 (divenuto poi G8) con l’ONU non c’entra proprio niente, era almeno dal 1992 che si parlava in tutti i mass media dell’evento che si sarebbe svolto a Napoli. Significa che solo la procura di Milano non era al corrente? Ma andiamo.
Il conservatore Winston Churchill, sconfitto alle elezioni politiche dal laburista Clement Attlee, sfogò la sua rabbia nel seguente modo: “Davanti al numero 10 di Downing Street (residenza ufficiale del premier britannico) si è fermata un’automobile vuota. Ne è sceso Attlee”. Questi qui, invece, che ignorano finanche l’esistenza dello humour, se la prendono anche con Valentina Vezzali, colpevole di aver donato un fioretto con dedica a Silvio Berlusconi durante un “Porta a porta”. Ma non basta. Valentina, tre medaglie d’oro olimpioniche, ha manifestato a Silvio l’idea di incrociare i ferri con lui e poiché Silvio, giustamente, si schermiva, lei, quasi a mo’ di incoraggiamento, gli ha detto: “Ma da lei mi farei anche toccare”. Ora anche il più ignorante degli ignoranti sa che “toccare” è un termine della scherma, chi “tocca” fa punto. Quindi Valentina intendeva dire che con Silvio avrebbe volentieri anche perso. Ma i non-normali della nostra generazione non l’hanno capito ed hanno imbastito, su quella frase, una indecente gazzarra addirittura a sfondo sessuale.
Ma il panorama della non-normalità è vastissimo. Nel mondo si discute sul mantenimento della pena di morte prevista da leggi fatte da parlamenti regolarmente eletti ed inflitta da giudici regolarmente costituiti. Noi abbiamo avuto pene di morte inflitte dai terroristi sulla base di leggi non scritte, improvvisate a loro uso e consumo, irrogate da loro stessi senza alcuna autorità se non quella della forza, della prepotenza e della sopraffazione fisica. Ci sono famiglie che stanno ancora piangendo i loro cari ammazzati da costoro, molti dei quali vengono invitati a tenere conferenze e lezioni universitarie. Ora spunta fuori addirittura qualcuno che, condannato con sentenza definitiva per terrorismo, osa, dico o-s-a, enunciare giustificazioni pseudo-psicologiche per quelle carneficine. Ma che lo faccia l’interessato potrebbe anche passare, basterebbe non leggere le farneticazioni e fare finta di nulla. Ma non si può, perché subito si mette in moto la grancassa degli altri non-normali, i quali promuovono dibattiti, discussioni e tavole rotonde, con il risultato di allontanare sempre di più la gente semplice che, grazie a Dio, continua anche ad essere normale dal teatrino della politica.
Per non parlare della vicenda Alitalia della quale si è capito poco o nulla. Era in ballo il posto di quindicimila lavoratori e va bene. Ma se lo stesso numero di lavoratori perdono il posto in mille aziende disseminate in Italia, nessuno se ne accorge, perché? Cos’hanno quindicimila lavoratori riuniti in un’unica azienda? E poi altre compagnie aeree sono fallite in Europa senza che quasi nessuno se ne accorgesse. E quell’esultanza del personale Alitalia alla notizia che la C.A.I. aveva ritirato l’offerta? Cosa avevano da esultare? In quegli stessi giorni venivano diffuse le immagini di persone che, vittime di veri e propri fallimenti, si avviavano mestamente a casa con gli scatoloni delle loro cose ritirate dagli uffici ormai chiusi. Ma queste immagini si riferivano agli Stati Uniti, che evidentemente sono ancora un paese normale. Qui da noi si è subito parlato di pericolo per la democrazia, di involuzione totalitaria e via fantasticando.
Ma il vero pericolo per la democrazia sta altrove. Sta in questa cecità scatenata, in questo odio mal dissimulato, in questa pretesa di insultare invece che dialogare, in questa contrapposizione preconcetta. Non sta certamente in un governo che finalmente governa, in uno Stato che è tornato ad essere presente nei discorsi come nella vita di tutti i giorni, come appare evidente dalla vicenda delle discariche nel napoletano che erano diventate fogne a cielo aperto. Ma, per riconoscere ciò, occorre essere persone normali. E questo è il punto.
(Da Bollettino tributario d’informazioni n. 19 del 2008)
Teste di legno
Caro Lettore,
quest’estate ho letto tutto d’un fiato, come si suol dire il libro che Giuseppe Ayala ha dedicato ai suoi colleghi Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Sulla copertina è riportata questa frase di Borsellino: “È bello morire per ciò in cui si crede; chi ha paura muore ogni giorno, chi non ha paura muore una volta sola”. Da questa frase è tratto il titolo del libro: “Chi ha paura muore ogni giorno”.
Sui contenuti di questo libro penso che dovrò tornare in altra occasione ma sin d’ora voglio dire che la sua lettura mi ha esaltato e depresso. Esaltato, perché quel gruppo di magistrati che lavorava a Palermo è riuscito davvero a dare al malaffare una batosta enorme. Depresso, perché ho tratto la sensazione che quell’esperienza non si ripeterà più.
Ma il punto che in questa occasione vorrei sottolineare è un altro. Ayala riferisce spesso tra virgolette frasi dei due giudici ammazzati dalla mafia nel modo che tutti ricordiamo. C’è un divario, spesso enorme, tra ciò che essi hanno veramente detto e ciò che in tempi anche recenti politici di varie estrazioni hanno riferito che essi avrebbero detto. Una vera e propria mistificazione operata, tra l’altro, nei confronti di chi non può più nemmeno rettificare. Mi chiedo come sia possibile questo divario tra ciò che è veramente stato e ciò che si pretende sia stato. Ma il dato allarmante è che la medesima tecnica mistificatoria adoperata nei confronti dei due giudici si vada generalizzando, fino a diventare una vera e propria patologia nazionale. Di questa sconvolgente realtà vanno prendendo atto non solo i politologi di professione ma anche gli intellettuali nella loro veste di cittadini.
A tal proposito, vorrei citare due scritti pubblicati lo stesso giorno (13 ottobre) sullo stesso giornale (“Corriere della sera”), uno come articolo di fondo, uno come elzeviro. Questo secondo è firmato da Raffaele La Capria, uno scrittore che non ha certo bisogno di presentazione. Il suo elzeviro, più che leggerlo, bisognerebbe mandarlo a memoria. “La normalità è uno stato d’emergenza”, così inizia l’autore, che si pone nei panni di un qualsiasi cittadino, “in bilico tra una verità e una contro verità sullo stato generale delle cose”, mentre lui ha problemi concreti di sopravvivenza. “Uno gli dice che è bianco, l’altro gli dice che è nero e questo ogni giorno. (...) Piove? No, è bel tempo. Ma come è possibile se mi bagno? È possibile perché te lo dico io e a quello che dico io, non all’evidenza banale del fenomeno, tu devi credere”. Ogni giorno i giornali dicono una cosa e il giorno dopo la smentiscono, non per colpa loro ma perché si limitano a riportare dichiarazioni altrui. Ma chi sbaglia veramente? Nessuno può rispondere. “È colpa tua. No, la colpa è tua. Il merito è mio. No è mio, è tutto merito mio. E non si arriva mai a capire di chi è il merito e di chi la colpa. (...) Conduttori, cantautori, comici, vignettisti, sindacalisti, intellettuali, artisti, scrittori, giornalisti, tutti schierati, tutti arrabbiati, tutti irremovibili, l’un contro l’altro armati e lui, il mio poveruomo, come fa a districarsi, a entrare nel merito delle questioni?”. Se poi quest’uomo “annoiato, cambia canale, può assistere alle favolose vincite dei concorrenti che rispondono alle domande più cretine e guadagnano in un momento quello che lui non riuscirebbe a mettere da parte non dico in un anno ma in una vita intera di lavoro”. Un uomo del genere viene definito dai più un qualunquista. “È un qualunquista o un eroe di sopportazione?”, conclude La Capria.
Autore dell’altro scritto, pubblicato come fondo, è Ernesto Galli della Loggia, un politologo che non ha ugualmente bisogno di presentazione. Della Loggia prende lo spunto dalla riforma della scuola ma, guarda caso, svolge considerazioni identiche a quelle dello scrittore: “Da tempo in Italia, nel dibattito tra maggioranza e minoranza, e di conseguenza nel discorso pubblico, la realtà, i dati, non riescono ad avere alcun peso, dal momento che su di essi sembra lecito dire tutto e il contrario di tutto. Nulla è vero e nulla è falso, contano solo le opinioni e i fatti meno di zero. (...) Questo non tenere conto dei fatti, dei dati concreti, questo continuo scansare la realtà, finiscono così per diventare uno dei principali alimenti della diffusa ineducazione politica degli italiani”. Per quanto poi concerne le riforme in genere, e quella della scuola in particolare, il politologo afferma un concetto che, qualche giorno dopo, verrà enunciato anche dal presidente della Repubblica che quasi quotidianamente distribuisce anche se, ahimè, con scarsi risultati pillole di saggezza. “Riformismo dovrebbe significare prima di tutto la consapevolezza di che cosa va cambiato, e poi, di conseguenza, la capacità di indicare i cambiamenti del caso: le riforme appunto. Non significa dire solo no alle riforme altrui, e basta”.
Ma sono pronto a scommettere che le due voci autorevoli citate avranno parlato al deserto. Già oggi stesso, leggendo i giornali od assistendo a trasmissioni televisive, ciascuno di noi potrà avere la conferma che tutto resta come prima, con i bambini che vanno in corteo a manifestare contro la riforma scolastica che non sanno neppure che cosa sia, con qualcuno che progetterà magari qualche girotondo. Al qual proposito varrà riportare una poesia inedita di Totò, resa nota dallo scrittore Alberto Bevilacqua in questi giorni: “Qui le teste son di legno / ch’è proibito avere ingegno... / Chi ragiona in questo regno / non è degno di campà. / Qui il pensiero più profondo / è di fare il girotondo / proprio in mezzo alla città! / Girotondo / girotondo / girotondo e llariulà!”.
(Da Bollettino tributario d’informazioni n. 20 del 2008)
È ora di dire basta
Caro Lettore,
la mia fede cattolica mi dice ogni giorno che esiste un solo, vero Giudice ed è Nostro Signore. Lui, per definizione, non può sbagliare, perché in grado di valutare non solo le azioni ma anche le intenzioni più riposte. Il problema mio come, ritengo, di qualsiasi altro credente, anche se non cattolico è che il giudizio di Dio ci sarà noto un giorno, di là da venire, e non certamente su questa terra. Quel giorno, è possibile, anche se non addirittura probabile, che i giudizi espressi dagli uomini, ancorché investiti della funzione di giudicare, risulteranno capovolti. E così, magari, colui che gli uomini hanno giudicato colpevole risulterà innocente, e viceversa, un innocente potrà essere ritenuto colpevole. Il “metro” divino non è certamente quello umano.
Io, però, sono un uomo, vivo su questa terra, ed ho bisogno di alcune certezze per poter vivere seguendo un certo itinerario mentale. Una di queste certezze mi è data proprio dalle sentenze della magistratura, che costituiscono la mia base di orientamento su fatti accaduti nella vita reale, in relazione ai quali io ho soltanto le informazioni dell’uomo della strada, che le apprende dalla radio, dalla televisione, dai giornali. Le persone fisiche che la società investe del potere di giudicare hanno molti più mezzi a disposizione per indagare, vagliare, valutare. Beninteso, con tutte le incognite della natura umana, che, purtroppo, non di rado induce in errori che si rivelano tali anche a distanza di anni, quando un’esistenza è stata già annientata. Non dico tutti i giorni, ma con una certa frequenza, leggiamo che Tizio è uscito di prigione dopo alcuni anni perché l’omicidio per il quale era stato condannato è risultato commesso da altri. L’errore giudiziario, voglio dire, è sempre dietro l’angolo.
Ma, a parte la non secondaria constatazione che i grossi errori giudiziari sono, per fortuna, rari, sta di fatto che esistono molti casi in cui neppure i condannati contestano i fatti loro ascritti e la conseguente condanna inflitta in base alle regole del diritto. Allora non si capisce perché mai io, cittadino qualunque, mi dovrei interessare dei loro delitti, cercare di capire i perché ed i percome che oggi cercano di comunicare. Si tratta di gente che ha causato la morte di altre persone, lasciando vuoti che non verranno colmati. Esce in questi giorni un libro che mi accingo ad acquistare e leggere. Già il titolo mi dà i brividi: “Sedie vuote. Gli anni di piombo: dalla parte delle vittime”. Sedie vuote, capito? Sedie che sono e resteranno vuote, perché chi le occupava non c’è più. Ma non mandato al di là dalla volontà di Dio, nossignori, mandato di là con un colpo alla nuca, o alla schiena, o al cuore, poco importa, per volontà di chi si era arrogato il diritto di giudicare e di condannare a morte, senza un processo, senza la possibilità di difesa, senza un giudice legittimato a giudicare. Così, pim, pum, pam, e una vita è finita, e una famiglia è privata di marito, di padre, di fratello, di figlio. Pim, pum, pam ed ecco la desolazione, lo sconforto senza fine. Io ho vissuto la guerra, i bombardamenti, ho visto la morte con gli occhi, ma erano situazioni più grandi di tutti noi, era la follia della guerra che era entrata in casa nostra. Ma la follia di un gruppo di criminali pronti ad uccidere, che hanno ucciso, spietatamente, questo no, non riesco a digerirlo. Ecco perché sono le ragioni delle vittime, non quelle degli assassini, che mi interessano. Anche se le ragioni delle vittime, anzi dei loro eredi, non possono essere che lamenti, perché non c’è nulla da ragionare su un omicidio deliberato a tavolino con fredda determinazione. Ed oggi questi criminali, perché di non altro si tratta, occupano sedie nelle università, nei circoli culturali, nei teatri, perché sentono il bisogno non di chiedere perdono, non di fare un atto pubblico di contrizione, non di riconoscere i loro tragici errori, ma di volerci comunicare le loro ragioni. Dovrebbero letteralmente scomparire dalla circolazione, magari farsi eremiti, cenobiti, abitanti delle vette innevate, e non pretendere di guardarci ancora negli occhi.
Ecco perché mi sono indignato sì, indignato nel leggere che Giulio Andreotti, il ben noto uomo politico che tra l’altro stimo se non altro per la sua ironia, ha partecipato ad un dibattito per la presentazione di un libro sulle brigate rosse al quale era presente Valerio Morucci, il brigatista che partecipò alla strage di Via Fani ed alla conseguente uccisione di Aldo Moro. Secondo la cronaca riportata dal “Corriere della Sera” del 24 novembre, Andreotti ha detto: “C’era l’idea che il giusto fosse tutto dalla propria parte e che dall’altra fosse tutto sbagliato. Ma distinzioni così nette non aiutano a capire. Sul terrorismo, ad esempio, pensavamo a un fortissimo influsso straniero, che non era così rilevante. È possibile che abbiamo sbagliato qualcosa, soprattutto nell’analisi globale”.
Come, come? La distinzione tra chi è lo Stato, o sta con lo Stato, e chi quello Stato vuole abbattere con la forza è una distinzione “così netta” che non “aiuta a capire”? Capire che cosa? Che si può uccidere il maresciallo dei Carabinieri che aspetta l’autobus per tornare a casa, soltanto perché è espressione dello Stato? O che si possono uccidere a sangue freddo gli agenti della scorta di un uomo che si ha intenzione di sequestrare, come è appunto accaduto con Moro? O che si può proditoriamente sparare ad un uomo indifeso, probabilmente dopo averlo fatto accovacciare nel bagagliaio di un’auto facendogli balenare la liberazione? Ma neanche nel Far West si uccideva un uomo se anche lui non era armato e quindi in grado di difendersi.
Ma le sorprese della cronaca giornalistica non sono finite. Valerio Morucci, dopo “lunghi secondi di silenzio”, dice: “Il discorso del presidente Andreotti mi pare molto indulgente verso le brigate rosse. Forse troppo. Dubito che in quel momento lo Stato potesse reagire diversamente da come fece”. E ben gli sta, ad Andreotti. E come è finito l’incontro? Dandosi la mano, Morucci ha detto ad Andreotti: “Lietissimo”e Andreotti ha detto a Morucci: “Ciao”. Roba dell’altro mondo.
Ci si dimentica che il discorso sul terrorismo è tutt’altro che archiviato, dagli Stati Uniti all’India. Ci si dimentica che in Italia, con allarmante frequenza, si parla di cellule terroristiche. Poiché io sto dalla parte delle famiglie che hanno sedie vuote e non voglio che si creino altre sedie vuote, dico che è ora di smetterla con i cicisbeismi.
(Da Bollettino tributario d’informazioni n. 23 del 2008)
Il pettegolo
Caro Lettore,
questa che segue è una sorta di “confessione laica”, che non so bene cosa significhi ma, una volta tanto, voglio seguire la moda senza pormi tante domande.
Dunque, già da ragazzo, o forse dovrei dire da bambino, mi sono scoperto una irresistibile vocazione per la carta scritta, a stampa ma anche a mano. Così, io che sono il primo di cinque fratelli (per la precisione, quattro maschi ed una femmina), mi ero inventato un giornaletto scritto a mano al quale avevo dato lo stesso titolo di questa lettera: “Il pettegolo”. Usavo un foglio protocollo a righe e sotto il titolo compariva la scritta: “Fondato, diretto e scritto da Geppigiù: un nome, una marca, una garanzia”. Geppigiù è l’acronimo di Geppino, diminutivo familiare di Giuseppe, e Giuliani. “Un nome, una marca, una garanzia” era, viceversa, lo slogan della pubblicità dell’epoca. E con questo acronimo avrei poi presto inondato giornali e giornaletti del tempo, veramente stampati in tipografie. Ma “Il pettegolo” era soprattutto diretto ai miei fratelli, dei quali coglievo aspetti esilaranti, che facevano sorridere sia quello preso di mira sia gli altri. Perché ciascuno di noi non è tutto bianco o tutto nero, tutto così o tutto cosà: è un po’ questo e un po’ quello, genio e sregolatezza, saggezza e follia, buonsenso e balordaggine. A seconda delle stagioni, dei venti, delle piogge, della temperatura, delle lune e di tanti altri fattori.
Ma com’è che mi sono venute in mente cotali elucubrazioni? Bene, sarò sincero. Mi sono venute in mente leggendo le intercettazioni di tutto e di tutti che i giornali ci stanno mettendo in pasto senza soluzione di continuità. Un pettegolume senza fine. Il figlio di Tonino di Bisaccia che raccomanda i suoi amici ad un dipendente di suo padre quando questi era ministro. E tutte le telefonate fatte dall’oramai notissimo Alfredo Romeo, appaltatore di lavori in mezza Italia e frattanto condannato per lavori abusivi nella sua villa di Posillipo a Napoli. C’è finanche un questore, Oscar Fiorolli, per non parlare dei politici, di destra, di sinistra e di centro, in un intreccio che non è neppure “bipartisan” ma addirittura “globale”. Non si salva nessuno, dalle intercettazioni, voglio dire, perché non è affatto detto che tutte le parole pronunziate dagli intercettati abbiano rilevanza penale. Anzi, l’esperienza c’insegna che spesso le notizie gridate dai giornali si rivelano come quei palloncini gonfiati ad elio che scoppiano con una puntura di spillo.
Però, c’è un però. Quand’io facevo “Il pettegolo” prendevo di mira un modo di dire o di fare o di agire di uno dei miei fratelli. Non dovevo mai registrare, per esempio: “Ti ho rubato la mela”. Insomma, gioco o non gioco, emergevano fatti innocenti, quali io considererei, per esempio, una telefonata tra innamorati: “Ciao, Pucci”. “Ciao, gattina”. “Stanotte ti ho sognato e non ti dico che cosa ti ho combinato”. “Davvero? E perché non me lo combini sul serio?”. No, questo proprio non mi scandalizzerebbe, anche se il maresciallo addetto alle intercettazioni dovesse trascrivere che “Pucci” è l’Eccellenza Tal dei Tali e la “gattina” è la celebre giornalista. Ma il fatto è che questi qui altro che Pucci Pucci e gattina gattina, questi qui parlano di appalti, di affari, di appoggi per sgambettare concorrenti, di mazzette come contropartita. E le conversazioni si svolgono tra politici, pubblici funzionari, militari, appartenenti alle forze di polizia, magistrati: tutto falso, tutto panna montata, tutto gas elio? Me lo auguro, per il bene di questo sventurato Paese, ma temo proprio che almeno un fondo di verità ci sia. E c’è da sperare che chi deve provvedere abbia la forza ed il coraggio di andare avanti sino in fondo.
Anche se non si può certo essere ottimisti. Quando ci fu Tangentopoli, fummo in molti a sperare che il capitolo fosse definitivamente chiuso. Ma fu una mera illusione. Il capitolo mazzette non si è chiuso e forse non si chiuderà mai, purtroppo. La cosiddetta “questione morale”, che ogni tanto si fa finta di riscoprire, in realtà non si è mai esaurita, ha una vitalità prorompente. A tal proposito, ciascuno può avere le proprie idee. Io la mia ce l’avrei ed è che, dal dopoguerra ad oggi, siamo tutti cambiati. Nel dopoguerra ci accontentavamo di mangiare, dopo aver fatto la fame negli anni precedenti. Io ho ritrovato in vecchie carte una tessera annonaria, che i giovani, per loro fortuna, non sanno neppure che cosa sia. Quella che ho sotto gli occhi è un cartoncino tutto diviso in rettangolini. Su ogni rettangolino c’è il genere alimentare al quale la sua cessione dava diritto: pane, zucchero, olio, grassi suini, burro, secondo quantità che non sono riportate sul documento e che io non ricordo più. Ma questo cimelio mi aiuta a ricordare che cosa sia stata la vita di tutti coloro che oggi hanno una certa età. Perciò, noi abbiamo imparato ad accontentarci dell’essenziale ed abbiamo metabolizzato un rigore di vita incapace di provocare qualsiasi “questione morale”.
Adesso io qui mi guardo bene dal farne una questione generazionale ma sta di fatto che, salvo isolate eccezioni, tutti i protagonisti della “questione morale” sono nati dopo la guerra e il dopoguerra. Sono loro che hanno rotto gli argini, che hanno moltiplicato i bisogni a dismisura e, chiaramente, i soldi non sono più bastati a fronteggiare le nuove esigenze, quanto meno da parte di chi non è già nato ricco. Ed allora è cominciato il mercanteggiamento. Chiunque aveva un potere, e quindi la possibilità di incidere positivamente nella vita di altri, ha ritenuto di poterlo esercitare chiedendo una contropartita. Si sostiene che il massimo potere si sia concentrato nella politica, e sarebbe perciò che la politica viene additata come la grande corruttrice. Forse è vero, ma non sta qui tutta la verità. Perché la verità sta anche nella condotta del funzionario che deve rilasciare una licenza, o che deve compiere un controllo, o che comunque ha un ambito di discrezionalità. Sta nel professore che deve promuovere o bocciare. Può stare finanche nel guardamacchine abusivo che ti graffia l’auto se non gli dai la mazzetta.
Se oggi qualcuno pubblicasse “Il pettegolo” non basterebbero certo le quattro paginette del mio foglio protocollo a righe. Occorrerebbero volumoni, tanto è il materiale che le cronache quotidianamente ci propinano. Ma, invece di un dolce sorriso, affiorerebbe una irrefrenabile nausea.
(Da Bollettino tributario d’informazioni n. 1 del 2009)
Autorità
Caro Lettore,
all’inizio del mese, camminando per Via Caracciolo, ho alzato gli occhi su una targa che fa bella mostra di sé accanto ad un portone di un importante palazzo. C’era scritto: “Autorità di bacino interregionale del fiume Sele”. E mò che è ‘sta Autorità?, mi sono chiesto, dando la stura ad una serie di elucubrazioni.
Quand’ero ragazzo, e quindi partecipe di una società a sfondo rurale, le “autorità” avevano una precisa denominazione: si chiamavano prefetto, questore, alcuni comandanti militari, vescovo eccetera, per cui si distinguevano in civili, militari e religiose. Nei piccoli paesi, lo schema si ripeteva anche se, ovviamente, in scala ridotta, per cui erano considerate “autorità” il sindaco, il maresciallo dei Carabinieri, il farmacista, il parroco. Insomma, erano autorità ma non si chiamavano Autorità.
Per quanto riguarda il fiume Sele, devo dire che, qualche giorno dopo la mia “scoperta” dell’esistenza della targa, il Corriere del Mezzogiorno si è preoccupato di informarmi per benino. Dunque, il fiume Sele non ha una sola Autorità ma ne ha tre, ciascuna con un proprio sito: la citata interregionale (www.abisele.it), l’Autorità di bacino sinistra Sele (www.adbsinistrasele.it), l’Autorità di bacino destra Sele (www.autoritabacinodestrasele.it). Subito dopo la pubblicazione, l’assessore regionale all’ambiente riconosce che tre enti sono troppi, ne basterebbe uno solo. Ma il capo dell’Autorità interregionale, ossia l’Autorità in persona, precisa che la dizione è errata, qualcuno ha sbagliato “tantissimi anni fa”. Lui, infatti, si occupa non solo del Sele, ma anche di altri bacini. Insomma, la questione è complicata. Anche perché il citato quotidiano ha messo a raffronto il Po e il Sele. Il Po, principale fiume italiano, attraversa otto regioni (Liguria, Piemonte, Valle d’Aosta, Lombardia, Trentino, Veneto, Emilia-Romagna, Toscana) per complessivi 652 chilometri. Il Sele attraversa due sole regioni (Campania e Basilicata) e scorre per 65 chilometri, un decimo del fratello maggiore. Eppure, al Po basta una sola Autorità, nel mentre al Sele ne occorrono tre.
Una o tre, al cittadino qualunque potrebbe importare poco. Il fatto è che ogni Autorità ha un costo e, se dove ne basterebbe una, se ne mettono tre, è evidente che il cittadino paga tre e prende uno, esattamente il contrario di quanto predicano certi supermercati: venite da noi, pagate uno, prendete tre..
Dello stesso parere sembra il citato assessore regionale all’Ambiente, il quale ha dichiarato che le tre Autorità vennero create “in una logica di distribuzione provinciale”. Ma ci fu anche un giudice che sospettò si trattasse di un’altra logica, quella della moltiplicazione di costi e consulenze.
E, in effetti, l’Autorità di bacino sinistra del Sele, nel 2008, ha sottoscritto tre consulenze ed erogato fondi a 45 “esperti” per una spesa complessiva di 188.330 euro e 41 centesimi. Di questi, 26.910 sono stati corrisposti ad un ingegnere in gonnella (si deve chiamare ingegnera?) che si è occupata del “rischio idraulico”. A sua volta, l’Autorità di bacino destra del Sele ha stanziato 185.000 euro per “Aggiornamento del vigente piano stralcio per l’assetto idrogeologico del territorio”. Ovviamente, anche l’Autorità interregionale ha i suoi consulenti, ai quali corrisponde 150 euro ogni ventiquattr’ore di lavoro per 156 giorni per un totale di 23.000 euro. Questo se i consulenti sono junior. Se sono senior il compenso è maggiore. Com’è poi ovvio, le spese per consulenze si aggiungono a quelle per il “normale” funzionamento dell’Autorità.
A questo punto, mi è venuto il ghiribizzo di sapere quante sono le Autorità istituite nel nostro Belpaese. Il conteggio è praticamente impossibile, a meno di non voler fare una ricerca nelle 150.000 leggi che il ministro Calderoli si è ripromesso di sfoltire. Le Autorità “certe” sono undici: Consob (Commissione nazionale per la società e la borsa), Isvap (Istituto per la vigilanza sulle assicurazioni private e del mercato), Cnipa (Centro nazionale per l’informatica nella pubblica amministrazione), Autorità per l’energia elettrica e il gas, Garante per la protezione dei dati personali, Commissione di vigilanza sui fondi pensione, Autorità per la garanzia nelle comunicazioni, Autorità per la vigilanza sui lavori pubblici, Autorità garante del contribuente per il fisco e la burocrazia, Agenzia per le organizzazioni senza scopo di lucro di utilità sociale.
Ma poi ci sono le Autorità “incerte”. Una ricerca su “Google” dà 192.000.000 risultati alla voce Authority. E sì, perché fa più fino dirlo in inglese. Di certo ci sono le Autorità portuali, per esempio per i porti di Napoli, Ravenna, Trieste eccetera. Ma poi ci sono le Autorità di bacino, come quella del Po e le tre del Sele, ma certamente ci saranno anche per il Garigliano e magari per i laghi.
Bisogna poi aggiungere le Authority volute dalla Unione europea. Leggo, per esempio, che “in base alla normativa ISO 6523, la Naming Authority è l’organismo che stabilisce le procedure operative e il regolamento in base al quale opera la Registration Authority nazionale. A causa di questa precisa distinzione dei ruoli, la Naming Authority deve essere un organismo separato ed indipendente rispetto alla Registration Authority stessa”. È tutto chiaro?
Leggo poi che il Comune di Parma ha indetto un bando di gara per lavori di realizzazione della nuova sede dell’Autorità per la sicurezza alimentare (EPSA).
E l’elenco potrebbe continuare non so per quanto. Una cosa mi sembra certa. Chi, come me, è nato tra le due Guerre mondiali, portandosi dentro un po’ della vecchia civiltà rurale e contadina, trova qualche difficoltà ad assuefarsi a questi nuovi panorami, nazionali ma anche internazionali. Non so come e quando siano state “scoperte” le Authority, ma una cosa mi sembra non opinabile: si tratta di “scoperte” straniere, importate in Italia. Ce n’era davvero bisogno? Ecco una domanda alla quale non so chi sarebbe in grado di rispondere, tenuto anche conto dei conflitti (di attribuzioni, di competenza) che quotidianamente si creano tra le nuove strutture e quelle preesistenti (come, per esempio, tra Antitrust e Banca d’Italia). Naturalmente, per non parlare del peso che tali nuove strutture hanno sul bilancio dello Stato, ossia sulle nostre tasche.
E, infine, le persone che incarnano le Autorità hanno anche autorevolezza? Questo è il problema, avrebbe detto quel brav’uomo di Amleto.
(Da Bollettino tributario d’informazioni n. 2 del 2009)
Le solite lagne
Caro Lettore,
la vita d’oggi è diventata ripetitiva e monotona, propinandoci più o meno sempre le stesse lagne.
Inaugurazione dell’anno giudiziario. La cerimonia formale è sempre la stessa: inviti programmati, onori prestabiliti, applausi di approvazione. Il guaio è che anche la sostanza, ossia i discorsi, sono sempre gli stessi. Non, sia ben chiaro, per insufficienza oratoria di coloro che prendono la parola, ma perché, non essendoci novità vere, va bene anche il discorso dell’anno precedente.
Che cosa ha detto il primo presidente della Suprema Corte di cassazione? Che la giustizia non funziona. E che cosa hanno detto i presidenti delle Corti d’appello? Che la giustizia non funziona. E che cosa ha detto il ministro della Giustizia? Che la giustizia non funziona. Ma se si avesse la pazienza di risalire negli anni, si troverebbero cronache dell’identico tenore.
E non solo nel settore della giustizia. “Il Giornale” ha pubblicato un servizio di cui trascrivo il titolo: “Nostalgia del ‘68? No, è l’Italia che non cambia. La scuola? È vecchia. La giustizia? È lenta. Gli statali? Non lavorano. Le riforme? Sono urgenti. I politici? Una casta. Sapete quali erano i guai che i giornali denunciavano 40 anni fa? Gli stessi di oggi. Che nessuno vuole mai risolvere”. Ora è ben noto che “Il Giornale” appartiene alla famiglia Berlusconi, che esprime il presidente del Consiglio dei ministri. Sicché verrebbe da suggerire al quotidiano di predisporre, anziché un servizio giornalistico, un promemoria per il presidente. Il quale, però, queste cose le sa a memoria, tant’è vero che si è riproposto di rivoltare l’Italia come un calzino. Milioni di persone lo hanno votato affinché adoperasse una spada di fuoco per recidere lacci e lacciuoli che impediscono ogni libertà d’azione, che frenano ogni buon proposito e viceversa talvolta dà la sensazione di restarvi lui stesso prigioniero.
Bisognerebbe cambiare le regole del gioco. Si dice che i regolamenti parlamentari sono arrugginiti, che impediscono lavori spediti, imbrigliati come sono in pesi e contrappesi. Silvio ha detto che gli unici modi per fare presto è ricorrere al decreto-legge oppure al voto di fiducia. Entrambi rimedi da non condividere, almeno come norma, perché sono l’antitesi della democrazia parlamentare. E, infatti, c’è chi grida allo scandalo. Ma, invece di gridare, perché non si mette sul tappeto la riforma dei regolamenti-cappio? La sensazione che si ricava da certi comportamenti è che nessuno voglia cambiare niente, secondo la vecchia teoria di Tomasi di Lampedusa. In tal modo, tutti continuano ad avere il pretesto per lamentarsi, ossia per fare la lagna ma nessuno si rimbocca le maniche e comincia ad operare. Se poi qualcuno mostra qualche segno di vita, ecco che viene fuori la solfa della maggioranza parlamentare verso l’opposizione, che sbaglia sempre, e dell’opposizione verso la maggioranza, che sbaglia sempre. Insomma, un’altra lagna.
Ora c’è Di Pietro che ha insultato il Capo dello Stato ma nessuno si è mosso. Nessuno, dico, delle cosiddette Autorità, che so, la polizia giudiziaria, un sostituto procuratore. Eppure, questi sostituti sono sempre sul piede di guerra, magari anche troppo. A Napoli un processo a carico di 192 persone, che è durato anni ed ha suscitato comprensibile allarme nell’opinione pubblica, si è risolto con 183 assoluzioni, ossia con 9, dicesi nove, condanne. Naturalmente, nessuno pagherà i danni allo Stato, di immagine ma anche di soldi. Ebbene, quando si è trattato di prendere un’iniziativa a tutela del Presidente, nessun procuratore si è mosso. Si son dovuti muovere due avvocati, rispettivamente presidente e vice-presidente dell’Unione camere penali.
Così mi è tornata alla mente la vicenda di Giovannino Guareschi, che fu processato e condannato per una banale vignetta. Presidente della Repubblica era Luigi Einaudi, produttore di un ottimo Barolo delle sue tenute che offriva agli ospiti del Quirinale. Giovannino, non ricordo più con quale appiglio alla cronaca, disegnò due bottiglie di Barolo vestite da corazzieri. C’era offesa al Capo dello Stato? Era stato violato l’art. 278 del codice penale? I giudici attivati, si noti bene, non dal Presidente Einaudi ma dalla polizia giudiziaria dissero di sì, anche se l’opinione pubblica non ne era affatto convinta, nel mentre ora Tonino di Bisaccia sfida tutti e dice: che mi processino pure, tanto mi assolveranno. E magari andrà a finire proprio così, perché così come certe femmine vestite in modo da mostrare, possibilmente in televisione, parti intime, non offendono più né il pudore né la decenza, così le offese al Capo dello Stato sono state declassate, sono divenute espressione del diritto di critica o di cronaca. D’altra parte, nelle famiglie non accade nulla di diverso. Figli che mandano a quel paese i genitori, genitori che mandano a quel paese i figli. E così, anche in questo caso, si accende la lucetta della memoria e mi ricordo di quella volta che, per dimostrare la deferenza a mio padre, provai a dargli del “voi”, non quello che voleva il fascismo, ma quello che una volta usava, soprattutto nelle famiglie meridionali. Per la verità, non ci riuscii, mi sembrava troppo un’affettazione. Segno che già allora i tempi erano cambiati ed anche un ragazzo solitamente rispettoso qual ero riteneva eccessivo un distacco colloquiale del genere. Naturalmente, non potevo immaginare in quale baratro saremmo precipitati di lì a poco. Ma quanti genitori conosco che si lagnano dei loro figli? E quanti figli dei loro genitori? Ma nessuno fa niente per tornare a rapporti normali.
Quanto è durata la lagna dell’aumento dell’iva a quei poveretti abbonati a Sky? Direi abbastanza per farcene avere piene le tasche, nel mentre la soluzione, peraltro proprio su questa pagina suggerita, era che Sky pagasse di tasca propria l’aumento e tutto sarebbe stato risolto. Non so se Sky lo abbia fatto, ma lo ha fatto Mediaset che “si farà carico del 10 per cento in più dell’iva richiesto dal Governo come misura anticrisi”. Fine della lagna? Chissà. Perché l’importante non è finire, come affermava una vecchia canzone di Mina. L’importante è continuare a lagnarsi.
(Da Bollettino tributario d’informazioni n. 3 del 2009)
Sindrome da jus
Caro Lettore,
se esiste una sindrome da jus, credo di averla contratta verosimilmente al pari di molti altri nelle mie stesse condizioni in questi terribili giorni di inizio febbraio. Lo jus, il diritto, è il settore della conoscenza che ho più amato in vita mia e che, nonostante tutto, continuo ad amare tanto da averlo frequentato a lungo. Infatti, nella mia prolungata esperienza di studente, che mi ha portato a conseguire (lo dico qui solo per poter dare sostanza al discorso) cinque lauree ed un master, ho sostenuto non meno di cinquanta esami di diritto. In almeno tre occasioni, ho anche avuto l’opportunità di rivestire ruoli specialistici.
La prima si presentò all’esame universitario di Diritto internazionale. La commissione, presa visione dell’esito degli esami giuridici sino ad allora sostenuti, mi chiese di non interrogarmi sul programma d’esame ma di sottopormi una questione che i suoi membri stavano studiando e sulla quale non trovavano l’accordo. Non ricordo, ovviamente, dato il tempo trascorso, né la questione né la risposta che diedi. So soltanto che applicai quella che definirei “tecnica giuridica”, ossia un modo mentale di impostare le questioni che poggia sulle fondamenta del diritto ossia sui principi generali immutabili, dal diritto romano in poi e consente di giungere a conclusioni quanto meno razionali. La commissione apprezzò la mia analisi e mi invitò a frequentare l’Istituto di diritto internazione in qualità di assistente. Risposi grazie no, perché pensavo che a questa branca del diritto, pur interessantissima anzi, direi affascinante un ufficiale della Guardia di finanza non si potesse dedicare a tempo pieno.
La seconda occasione si presentò all’indomani della pubblicazione da Giuffré della mia prima monografia, intitolata “La corte costituzionale”. Era il 1962 e il libro era stato tra i primi ad apparire sul nuovo argomento. Ricevetti offerte di collaborazione da testate giuridiche importanti che però avevano il “difetto”, per così dire, di operare in un settore non proprio vicino ai miei interessi di tributarista. Che trovarono una sintesi nel volume, edito sempre da Giuffré, dedicato alla “Giurisprudenza tributaria della Corte costituzionale”. Ma non me la sentii di impegnarmi sul piano del diritto costituzionale puro.
La terza occasione, direi quella buona, mi venne dal prof. Sergio Steve, cattedratico di Scienza delle finanze a Roma ed illustre studioso, che mi avrebbe preso come assistente. Ma quella volta ci pensò la Guardia di finanza ad ostacolarmi, imponendomi un repentino trasferimento in altra sede.
Così, decisi di dedicarmi soltanto al mio orticello, quello del diritto tributario praticato e vissuto, soprattutto del diritto punitivo, ma senza perdere di vista tutte le altre branche, tanto da diventare autore di una rubrica intitolata “Cronache del diritto”, pubblicata per molti anni prima su “Il finanziere” e poi su “Il Sole 24 Ore”.
Questa lunga premessa serve a spiegare il motivo della sindrome che credo di avere contratto. Io non ho soltanto studiato e praticato il diritto, io l’ho amato e, come ho detto, lo amo. Se lo avessi soltanto praticato, osservare lo stato comatoso nel quale si trova provocherebbe, sì, un certo interesse, ma non la partecipazione emotiva che viceversa avverto. Vedrei la cosa con gli occhi di un tecnico che, resosi conto dei guasti di una macchina, emette un verdetto o di riparazione o di fine vita. Purtroppo non è così, perché, se la mia affermazione non viene presa per spocchia, il mio cervello e il diritto sono la stessa cosa, nel senso che io non so concepire alcunché al di fuori del diritto. Uno dei progetti irrealizzati della mia vita resta un libro di diritto per ragazzi, magari per bambini, per cercare di imprimere in loro la mentalità giuridica, il modo di pensare giuridico, la tecnica giuridica, che, a mio modo di vedere, costituiscono gli strumenti con i quali è possibile dare soluzione soddisfacente a tutti i casi pratici della vita. A me l’automobilista che non dà la precedenza che spetta ad un altro automobilista o ad un pedone, mi provoca, al di là del pericolo di collisione o di investimento, una sofferenza, perché si tratta di un cittadino che non rispetta la norma. E questo anche se l’altro automobilista o il pedone non sono io. E la stessa cosa dicasi per tutte le altre violazioni di legge delle quali sono piene le cronache.
Ma esiste un altro motivo, forse determinante, di turbamento. Il diritto è, dovrebbe essere, un insieme di regole, obiettive, incontrovertibili, certe. E invece c’è una tale instabilità del diritto da rendere problematico e talvolta impossibile lo svolgimento di una ordinata vita sociale. Ricordo bene di essermi intrattenuto altre volte, qui, in questa paginetta, sul problema che mi assilla, ossia sul principio della certezza del diritto come mito infranto, come meta irraggiungibile, come schema ideale che non si fa nulla per tradurre in realtà. Leggi che vengono interpretate in modo diversissimo e non solo dai giudici minori ma da quelli di legittimità, i quali, forti del potere che è nelle loro mani di dire l’ultima parola, la dicono una volta in un senso, una volta in un altro. La stessa Corte costituzionale che dice e si contraddice, come nel caso clamoroso e per me imperdonabile, considerati i danni prodotti della natura delle commissioni tributarie.
Figuriamoci se poi il diritto va a finire nella mani dei laici. Ossia di coloro che non possono tecnicamente definirsi chierici del diritto, com’è appunto capitato in questi caldissimi giorni di febbraio. Non si capisce più niente, è il caos. Allora non si sa più se una certa norma della Costituzione dice una cosa o il suo opposto. Allora non si sa più se la Magna Charta contempli solo un diritto alla salute, e quindi alla vita, od anche un diritto alla morte, come espressione del diritto di libertà. Allora non si sa più che cosa siano la necessità e l’urgenza che legittimano i decreti legge né si sa se la responsabilità di questi sia del solo Governo od anche del presidente della Repubblica. Né si sa, nella cosiddetta patria del diritto, se la volontaria giurisdizione possa dar luogo a sentenze o solo a provvedimenti. E di tutto questo si discute, con dotte argomentazioni, formulate certamente in buona fede, nel mentre una vita si spegne e forse potrebbe non spegnersi se...
Summum jus, summa iniuria? Può darsi, ma questa volta, con lo stravolgimento delle coscienze che si è verificato, non ce la caveremo con un brocardo.
(Da Bollettino tributario d’informazioni n. 4 del 2009)
Il grande fardello
Caro Lettore,
chi pensava che la storia della povera Eluana fosse finita con i suoi funerali dovrà ricredersi. La procura della Repubblica di Udine ha aperto un’inchiesta a carico di molte persone, a cominciare dallo stesso padre, per capire se c’è stato omicidio e per far luce su fotografie che sarebbero state scattate nella stanza della morente. La procura ha fatto sapere che si tratta di “atti dovuti”, a seguito di numerosi esposti presentati da singoli cittadini e da associazioni. Vorrò vedere chi sarà capace di pubblicare le fotografie di quella povera ragazza, così come, molti anni fa, ci fu chi ebbe il coraggio di pubblicare la fotografie di un Papa morente. In quell’occasione, era stato nientemeno il medico personale del Papa, ossia l’Archiatra pontificio, a scattare le foto. Mi pare di ricordare che venne radiato dall’albo dei medici ma, intanto, la curiosità morbosa del pubblico era stata soddisfatta.
Il nuovo presidente della Corte costituzionale, il napoletano Francesco Amirante, durerà in carica 21 mesi. Sembra che lo stipendio di un giudice costituzionale sia di 416 mila euro, nel mentre quello del presidente è di 500 mila euro. Ma quel che più conta è che, anche a mandato scaduto, vengono mantenuti, vita natural durante, taluni privilegi tipo automobile, autisti, benzina eccetera. Si possono citare casi di presidenti che sono durati in carica 3, 4 o 6 mesi, diventando poi “emeriti”, al pari di tutti gli altri, con corrispondenti stipendi e benefici aggiuntivi.
Cambiamo registro. Martedì 24 febbraio Il Giornale titolava: “Eliminiamo solo gli sprechi inutili”. Si tratta di una tautologia, perché lo spreco è, per definizione, inutile. Comunque, al citato quotidiano va reso l’onore delle armi, perché il giorno successivo, nella rinata rubrica “Controcorrente”, ha denunziato l’errore. Lo stesso onore delle armi va reso al Magazine del Corriere della Sera che aveva fatto diventare Gheddafi leader “libanese” anziché “libico”. Non mi risulta, invece, che il quotidiano abbia mai chiesto scusa ai lettori per la tautologia costituita da “reato penale”, peraltro comune a molti sprovveduti giornalisti radiotelevisivi.
Quasi incredibile, viceversa, l’errore nel quale sarebbe incorso Alberto Asor Rosa, insigne scrittore e letterato. A pagina 533 del terzo volume della “Storia della letteratura italiana”, edita da Einaudi, si legge: “All’origine di questa più matura fase io metterei senz’altro il pratese Curzio Maltese, il quale, tra le due guerre, era stato redattore e inviato del Mondo, del Corriere della Sera, del Mattino e direttore della Stampa (dal ‘29 al ‘31)”. Orbene, il Curzio al quale si riferisce lo scritto ha per cognome Malaparte ed è defunto. Il Maltese, invece, è un giornalista ben vivo di “Repubblica”. Ad essere sincero, penso che Asor Rosa paghi un errore non suo ma di un anonimo correttore di bozze. La frittata, comunque, esiste e, tenuto conto del livello culturale anche degli attuali studenti universitari, potrebbe recare danni non indifferenti.
Non è stata viceversa colpa di alcun correttore di bozze, il lapsus nel quale è incorsa Anna Finocchiaro, la bella e combattiva senatrice del Partito democratico, allorquando ha ricordato “la frase che George Bernard Shaw usò quando venne falsamente annunziata la sua morte: La notizia è vera ma prematura”. In realtà fu Mark Twain a ironizzare all’annunzio della sua morte: “La notizia è esagerata”. A farlo rilevare è il Corriere della Sera che però fa di peggio di un errore sulla paternità di una frase, perché scambia ben altro. A corredo di un servizio su Walter Veltroni, a pagina 15 dell’edizione del 24 febbraio, pubblica quattro fotografie sotto il titolo: “Tutti gli uomini di Walter”. I loro nomi? Eccoli: Ermete Realacci, Enrico Morando, Marianna Madia, Federica Mogherini. Ma le ultime due non sono donne? Eh, già, e allora come si spiega il titolo? Ma non basta. Federica Mogherini afferma: “Non mi definivo veltroniana prima e non mi definisco veltroniana adesso”. Insomma, non solo non rientra in “tutti gli uomini di Walter”, essendo donna, ma non è nemmeno veltroniana. Boh.
Nucleare, non nucleare? Si è riaperta la disputa dopo la decisione, a mio avviso saggia, del Governo di avviare la costruzione di quattro centrali. Quattro scienziati ecologisti hanno scritto sull’Indipendent: “Abbiamo sbagliato a criminalizzare le centrali atomiche” ma c’è da scommettere che nemmeno questo taciterà gli ambientalisti italiani, nonostante la loro accertata responsabilità in molti ritardi della nostra economia.
La stampa ha ricordato che il week-end compie quest’anno quaranta anni, essendo stato varato nel 1969 allorquando, all’esito di forti agitazioni sindacali, il sabato venne dichiarata giornata non lavorativa. Poiché l’appetito vien mangiando, molti uffici oggi sono chiusi anche il venerdì pomeriggio, nel mentre da più parti si prospetta una settimana lavorativa ancora più corta. Una volta “i signori”, inteso come sinonimo di “ricchi”, ritenevano oltraggioso lavorare. Però avevano i mezzi per vivere di rendita. Oggi vorremmo tutti non lavorare, pur non avendo rendite. Anzi, avendo dinanzi una crisi dai risvolti imprevedibili. Quando ho iniziato la mia attività lavorativa, si andava in ufficio anche la domenica mattina. Ma allora era chiaro a tutti che “chi non lavora non mangia”, come dice San Paolo.
Giunti a questo punto, Lei, caro Lettore, mi potrebbe chiedere: “Pur condividendo, o non condividendo, quanto ho letto sin qui, dov’è il grande fardello annunziato nel titolo?”. Ed è qui che La volevo, avrebbe detto il mio amato Totò. E come lo chiama Lei lo stress, il fastidio, il disorientamento provocati dalle informazioni che riceviamo quotidianamente? È letteralmente un peso che ci casca addosso ogni giorno, vedendo, leggendo, ascoltando. Un peso al quale non possiamo sottrarci e che ci può provocare capogiri e voltastomaco. Ecco perché vorrei inviare una parola di solidarietà e di comprensione a tutti coloro milioni, dico milioni, di persone che, in un giorno particolarmente delicato della nostra vita nazionale, si sintonizzarono sul “Grande fratello”, attirandosi per questo le invettive degli altri, di coloro che sono vittime del grande fardello. “La vita è bella perché è avariata”, dicevamo negli anni della scapigliatura, così sostituendo la parola “varia”. E, allora, se la vita è varia, che ognuno faccia ciò che vuole e nessuno rompa le scatole agli altri.
(Da Bollettino tributario d’informazioni n. 5 del 2009)
Bancarella
Caro Lettore,
Candido Cannavò, il mitico direttore della “Gazzetta dello Sport”, noto anche a chi, come il sottoscritto, non ha mai acquistato quel quotidiano, è morto senza realizzare un suo sogno: quello di fondare un giornale con sole notizie buone. Ma forse le notizie buone non sarebbero sufficienti a riempire un giornale. Vogliamo provare a vedere se si riesce a riempire almeno una pagina?
Il 28 marzo è stato inaugurato il termovalorizzatore di Acerra da parte di Silvio Berlusconi, presidente del Consiglio dei ministri e con un messaggio di congratulazioni di Giorgio Napolitano, presidente della Repubblica. Non risulta che a Vienna, ma anche a Brescia, quando sono stati avviati i rispettivi inceneritori, ci sia stata tanta partecipazione di autorità. Ma nel caso indicato, tutto si giustifica. In una puntata della sua trasmissione televisiva, andata in onda quando la munnezza a Napoli arrivava al primo piano dei palazzi, Michele Santoro aveva promesso che si sarebbe messo in mutande se l’impianto di Acerra fosse stato avviato in otto mesi, com’era stato preventivato. Forse pensava di imitare Sabrina Ferilli che fece uno spogliarello quando la “sua” Roma vinse lo scudetto. “Per non vedere Santoro in mutande, ci abbiamo messo dieci mesi, invece di otto ”, ha argutamente chiosato Guido Bertolaso. Ma la cosa ancora più importante dell’entrata in funzione della struttura è che sia stato percepito da tutti il ritorno dello Stato, che ha avuto la meglio su gruppi e gruppuscoli che pensavano di poter impedire l’avanzamento dei lavori occupando strade, incendiando cassonetti, gridando slogan. Ci sono volute le maniere forti? C’è voluta la militarizzazione delle aree ed il conseguente impiego dell’Esercito? A mali estremi, rimedi estremi e chi storce il muso, anche se per motivi di lotta politica, non sa, o finge di non sapere, che cosa sia doversi destreggiare tra la monnezza. Peggio, ma molto peggio, che destreggiarsi tra le macerie, che almeno non puzzavano.
Si chiama Tsutomu Yamaguchi, con un nome così non può essere che giapponese, ha 93 anni, ingegnere. Il 6 agosto 1945 si trovava, per lavoro, ad Hiroshima, quando gli americani sganciarono la prima bomba atomica. Sopravvissuto alla catastrofe, si spostò, sempre per lavoro, a Nagasaki, dove gli americani sganciarono qualche giorno dopo la seconda e per fortuna ultima bomba atomica. Sopravvissuto anche questa volta, pur trovandosi, come la precedente, a soli tre chilometri dal punto di esplosione. Ora riceverà un riconoscimento dal comune di Nagasaki, ma lui dice che è tutta questione di modo di vedere. Lui il bicchiere lo vede sempre mezzo pieno.
Gli ammiratori del seno femminile si mettano l’animo in pace: il seno naturale sta scomparendo. Lo afferma il rapporto 2008 dell’American Society for Aesthetic Surgery, la più prestigiosa società internazionale di chirurgia plastica, in quanto è in costante aumento il numero di donne che ricorrono alla mastoplastica additiva. In altre parole, che si fanno ingrandire il seno con il silicone. Chissà che cosa si prova ad accarezzare o a baciare il silicone.
I rapporti tra Stati Uniti e Russia si stavano mettendo maluccio, a seguito del progetto americano di creare uno scudo spaziale in Polonia. Si stava creando un pericolo di “riarmo da paura”, la paura che ciascuno dei due ha di restare accoppato dall’altro. Ma anche la paura nostra di fare la fine dei vasi di coccio. Ora sembra che ci sia una schiarita. Stati Uniti e Russia si impegnerebbero a portare le rispettive testate nucleari da 3000 a 1500 e fors’anche a 1200. Che è comunque un numero enorme ma sempre più piccolo rispetto alle 6000 testate che ciascun Paese poteva detenere in base all’accordo del 1991. Di scalino in scalino, è lecito attendersi la messa al bando delle armi nucleari?
Molte speranze si sono accese sui provvedimenti a favore dell’edilizia che il Governo sta promovendo. Chi ha vissuto il dopoguerra ricorda benissimo che fu proprio lo straordinario sviluppo edilizio non solo a cancellare le macerie ma anche a portare l’Italia verso un periodo di espansione che prese il nome di “boom economico”. Per costruire una casa occorre mobilitare un esercito di artigiani e comunque utilizzare materiali e prodotti di varia origine, per cui l’effetto trainante dell’edilizia è addirittura intuitivo, sicuramente maggiore di quello dell’auto. Piaccia o non piaccia, bisogna dire che Berlusconi ha visto giusto. Anzi, bisognerebbe chiedergli come mai non ci ha pensato prima, visto che lui ha anche una solida esperienza nell’edilizia.
Il 25 agosto 1999 veniva sottoscritta a Washington una Convenzione tra il Governo della Repubblica italiana ed il Governo degli Stati Uniti d’America per evitare le doppie imposizioni in materia di imposte sul reddito e per prevenire le frodi e le evasioni fiscali. La Convenzione ha dato luogo ad uno scambio di note effettuate a Roma il 10 aprile 2006, ossia circa sette anni dopo, ed il 27 febbraio 2007, circa otto anni dopo. La ratifica della Convenzione è avvenuta con legge del 3 marzo di quest’anno, ossia dieci anni dopo.
Il canone di abbonamento alle radiodiffusioni deve essere pagato dal 1° al 31 gennaio di ciascun anno solare. Dunque, il ministro competente ha tempestivamente provveduto a determinarlo per il 2009 con suo decreto del 18 dicembre 2009. Peccato, però, che il decreto sia stato pubblicato sulla “Gazzetta Ufficiale” n. 66 del 20 marzo scorso. Anche una “bancarella” come questa è simpatico che si chiuda con la comica finale. Ma il ministro Renato Brunetta al quale al primo Congresso del Popolo della Libertà è stata tributata un’ovazione paragonabile solo a quella riservata a Berlusconi, che lo ha visibilmente commosso perché non va a fare una capatina al Poligrafico che stampa la “Gazzetta”?
(Da Bollettino tributario d’informazioni n. 7 del 2009)
Sedie vuote
Caro Lettore,
il 15 aprile i giornali hanno dato notizia del trasferimento di Cinzia Banelli dal carcere dove si trovava dal 24 ottobre 2003 ad un domicilio segreto. La terrorista era stata condannata a 12 anni di reclusione per l’omicidio di Massimo D’Antona e ad altri 10 anni, 5 mesi e 10 giorni per l’omicidio di Marco Biagi. Dicono che le carte siano tutte in regola, perché la terrorista si è pentita ed i giudici hanno applicato la legislazione vigente. Non è d’accordo la Signora Olga D’Antona, vedova del giuslavorista, che ritiene non sincera la Banelli, che “ha sempre tenuto un comportamento ambiguo e spregiudicato, finalizzato soltanto ad ottenete i benefici di legge”. L’arma dei due omicidi, afferma la Signora D’Antona, non è stata mai trovata e “non sono state le sue rivelazioni a permettere di individuare i brigatisti poi arrestati”. Cinzia Banelli avrà una nuova identità ed un sussidio.
Il 30 aprile i giornali hanno dato notizia che Stefano Bommarito è stato affidato dal tribunale di sorveglianza ai servizi sociali. Bommarito è stato il carceriere per due anni di Giuseppe Di Matteo, un bambino di 11 anni la cui colpa era di essere figlio di un pentito di mafia. Rapito, segregato, ucciso e sciolto nell’acido. Per questo e per altri delitti, Bommarito era stato condannato a 22 anni di reclusione ma poi si pente ed ecco la legislazione andargli incontro: affidato ai servizi sociali, ossia libero.
Le due notizie, diffuse nello stesso mese di aprile, non sono una novità, tutt’altro. E, infatti, oggi, 1° maggio, leggo che un altro terrorista è stato scarcerato per buona condotta. Si tratta del palestinese Youssef Maged al Molqui, il terrorista che, dopo aver sequestrato la nave “Achille Lauro”, uccise e gettò in mare Leon Klinghoffer, ebreo americano, paralitico.
I giornali dovrebbero aprire una rubrica, il cui titolo potrebbe essere: “Grand Hotel: chi entra e chi esce”. Oggi a San Vittore (o a Poggioreale o all’Ucciardone o dove che sia) sono entrate 15 persone che hanno occupato i posti di altre 15 che sono uscite, chi per decorrenza dei termini, chi perché il giudice si era scordato di scrivere la sentenza, chi perché si è pentito all’ultimo momento anche se mai prima di commettere i delitti.
La Costituzione, invocano le vestali. Sì, la Costituzione dice che “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Ma non dice che le pene non devono essere scontate. Non lo dice neppure la Chiesa. Il vescovo Giovanni Francesco Girotti, reggente della Penitenzieria Apostolica, ossia del “tribunale delle anime”, lo ha detto chiaramente: “Di fronte a un pentimento sincero la Chiesa accoglie e perdona, seguendo il mandato di Gesù Cristo. Ma ciò non significa che il perdono annulli gli effetti del delitto compiuto”. E alla domanda dell’intervistatore: “Non risparmia dalla riparazione?”, risponde senza esitare: “Mai. Mancherebbe di giustizia. Una delle condizioni, oltre al pentimento, è la soddisfatio: un’azione che rimargini le ferite”.
Ma sono state mai rimarginate queste ferite? Direi proprio di no. A pagina 1826 dello scorso anno del nostro Bollettino ho accennato ad una pubblicazione allora appena uscita dal titolo: “Sedie vuote. Gli anni di piombo da parte delle vittime”. Il libro è sorto per iniziativa di una piccola ma qualificata Casa editrice di Trento, “Il Margine”, e consiste nella raccolta di colloqui avuti da un gruppo di giovani con familiari di alcune vittime del terrorismo. La più giovane di tali vittime aveva 29 anni, si chiamava Graziano Giralucci, la più anziana si chiamava Aldo Moro, 62 anni. Qualcuno degli intervistati non ha proprio conosciuto il padre, ammazzato prima che la memoria potesse cominciare a registrare. Altri lo hanno conosciuto ma la sensazione della “sedia vuota” non si è spenta in nessuno.
Dice un intervistato: “Si perdonano le persone che hanno compiuto una determinata azione. Si perdona, ma le cose sbagliate che si perdonano rimangono tali. Quando sento discorsi come «insomma, chi ha avuto ha avuto, chi ha dato ha dato... mettiamoci una pietra sopra, ormai è passato tanto tempo...», non sono d’accordo perché non basta volerlo o deciderlo per sanare le ferite”.
Dice un altro intervistato: “Non ci sono morti di serie A o di serie B, ma sapere che c’è stata la fredda volontà di qualcuno di uccidere ti lascia esterrefatto. Quando una persona muore per un incidente o una malattia, alla fine te ne fai una ragione, cerchi di dire che l’ha voluto il Signore se sei cattolico, o che è andata così perché così è la vita se sei laico. Ma quando ti uccidono il padre in questo modo, le giustificazioni non te le sai dare, sai solo che è morto in una maniera feroce. È questa la differenza, quel qualcosa in più che non ti permette di superare la morte”.
Dice un altro ancora: “Mio padre era uscito di casa disarmato come tutti gli altri e questa sorta di giustificazione per cui si era in una guerra civile fa da scudo a quello che è stato l’agire violento ed è qualcosa di inaccettabile. Non dobbiamo dimenticare le conquiste di quegli anni: la battaglia per il divorzio, per l’aborto, lo statuto dei lavoratori... Dov’era quindi la guerra civile?”. E aggiunge: “Un dolore così non lo superi mai. Impari al massimo a conviverci. Diventa una cosa che fa parte di te e del tuo quotidiano.”
Insomma, sedie vuote, irrimediabilmente vuote. Così come dice un altro intervistato: “Non è una questione che riguarda il passato, perché ci penso ogni giorno, perché continua a cadermi addosso anche quando vorrei dedicarmi ad altro”.
Ho omesso sin qui l’indicazione degli autori delle frasi riportate per non fare torto a nessuno. Ma devo ora affidare la conclusione a Gian Carlo Caselli, il magistrato che è stato uno dei protagonisti della lotta al terrorismo. Dalla postfazione al libro, da lui scritta, traggo due soli pensieri. “Si vive nella miopia, nella disattenzione e non si comprende il dolore in cui si è trovata tanta gente colpita direttamente o indirettamente, mentre i brigatisti anche quelli irriducibili sono talora delle star e vanno a parlare ovunque”. “Negli anni si sono dilatati a dismisura gli spazi per i brigatisti, ben al di là di quanto sarebbe auspicabile in un Paese che voglia fare i conti con il suo orribile passato, perché i conti con il passato si fanno anche dicendo «ciascuno al suo posto, ciascuno ricordi che cosa è stato». Ogni tanto mi capita di dire o di scrivere che è vero che la Costituzione è categorica, imperativa nell’affermare che la pena deve tendere alla riabilitazione del condannato (per cui ben vengano anche i terroristi riabilitati attraverso la pena scontata), ma nella Costituzione non c’è scritto che gli ex terroristi devono tendere alla... rieducazione dei cittadini, insegnando loro che cosa sia giusto o che cosa sia sbagliato: questo mi sembra troppo”. Appunto.
(Da Bollettino tributario d’informazioni n. 9 del 2009)
Muri e muraglie
Caro Lettore,
ricorre quest’anno, esattamente il 9 novembre, il ventesimo anniversario dell’abbattimento del muro di Berlino. Era stato eretto nel 1961 per separare la zona sovietica della città, ad est, da quella alleata, ad ovest, e dunque durò ben ventotto anni. A far edificare il muro erano stati i sovietici, che non potevano tollerare che i berlinesi della “Germania popolare” stessero a contatto con i berlinesi della “Germania federale”. Troppo stridenti erano le differenze tra il tenore di vita dei primi, bassissimo, che rasentava la povertà, e quello degli altri. Ma, soprattutto, si voleva evitare che i berlinesi “orientali”, passati dalla dittatura hitleriana a quella staliniana, potessero intuire come fosse cosa ben diversa vivere nella libertà della quale viceversa godevano i loro concittadini “occidentali”.
Il solito errore sia dei dittatorelli da strapazzo sia dei grandi dittatori. Credono di poter soffocare quella che Benedetto Croce chiamava “la religione della libertà”, ignorando, perché quasi sempre i dittatori sono anche ignoranti, che non ci sono muri, muraglie, carceri o torture che la possano veramente soffocare.
Non so quanti berlinesi dell’est vennero uccisi dai “vopos”, i poliziotti orientali, mentre cercavano di scavalcare il muro per andare di là. Ma, quando l’ora giunse, anche i “vopos” si dettero da fare per picconare quel muro che avevano difeso con tanta ferocia.
La caduta del muro non fu che l’inizio del crollo dell’impero sovietico, durato anche troppo a lungo dopo la morte di Stalin. Il feroce dittatore georgiano aveva tenuto tutti sottomessi con le “purghe”, con le fucilazioni, con le deportazioni, con i carri armati, ma non era riuscito a trovare alcun antidoto alla “religione della libertà”. Aveva piegato i corpi, non le menti.
La caduta del muro di Berlino coincide con l’inizio del processo di riunificazione della Germania. Anche questo grande Paese, ricco di tradizioni e di realizzazioni in ogni campo dello scibile, era caduto nelle mani di un dittatore. Qualche storico ritiene che Adolf Hitler sia stato un grande stratega. Può darsi, ma era certamente un grande pazzo. Perché soltanto un pazzo può pensare di distruggere non una etnia, o un popolo come pure avevano fatto lo stesso Stalin ed un certo Saddam Hussein ma una stirpe, come quella ebrea, per di più presente in tutto il mondo. Anche questo pazzo aveva fatto ricorso ai muri ma non di divisione, come quello di Berlino, bensì di inclusione, come i campi di sterminio e le camere a gas. È stato saggio non abbatterli, questi muri, perché essi devono ricordare alle generazioni future gli orrori della dittatura e dell’intolleranza religiosa.
Ma i muri, purtroppo, non vengono eretti soltanto dai dittatori, talvolta anche le democrazie pensano di potervi fare ricorso. È il caso di Israele, che, fatto segno a bombardamenti continui da parte dei palestinesi ed a sconfinamenti di terroristi, ha eretto a Gaza un muro per difendersi. Io, personalmente, sto con Israele e con le sue ragioni, ma non posso nemmeno ignorare l’auspicio che il Papa ha fatto durante il suo viaggio in Terra Santa che quel muro sia presto abbattuto. Vorrebbe dire che la via della pace tra due popoli, costretti dal destino a convivere sullo stesso territorio, sarebbe stata finalmente imboccata, dopo tanti e tanti tentativi non riusciti.
Anche a costo di cedere un po’ all’utopia, devo annotare che molti altri muri, magari solo in senso metaforico, attendono di essere abbattuti.
Mi riferisco, per esempio, al muro dell’arroganza, eretto molto spesso da chi esercita pubblici poteri, in primo luogo da magistrati. Credono di sapere tutto, di poter dire tutto, di discettare su tutto. È stato reso noto nei giorni scorsi un tagliente giudizio della Cassazione su alcuni pubblici ministeri napoletani. In una intricata vicenda che vede, l’un contro l’altro armati, procuratore capo, procuratore aggiunto e alcuni sostituti, il Supremo Consesso scrive: “Questa Corte osserva che le censure del pm formulate di continuo con toni (inutilmente) aspri e accesi, inusuali in un provvedimento giurisdizionale, talvolta irridenti, altre volte sicuramente eccessivi (per non dire inaccettabili) si risolvono in doglianze infondate”. Riferendosi ai colleghi del Tribunale del riesame, i sostituti avevano definita “goffa” la “giustificazione del tribunale al proprio comportamento” ed avevano anche parlato di “chiara determinazione di non leggere gli atti”. Insomma, roba da querela, che la Corte bolla così: “Mere e gratuite insinuazioni”. Ma fatte da chi? Da Pasqualino Esposito, illetterato? Nossignori, da pubblici ministeri nei confronti di altri magistrati.
C’è poi, incombente e minaccioso, il muro della illegalità. Mao Tse Tung diceva che il rivoluzionario si deve muovere nella società come il pesce nell’acqua, ossia avere appoggi ovunque, coinvolgere gli strati sociali. Si potrebbe pensare che i terroristi italiani siano stati sconfitti perché, uccidendo l’inerme maresciallo dei carabinieri che aspettava l’autobus alla fermata, e che certo non poteva essere ritenuto complice delle multinazionali, hanno fatto di tutto per uscire dall’acqua, inimicandosi la gente comune che è anche gente perbene. Ma chi vive nell’illegalità è proprio come un pesce nell’acqua perché è il sistema che non funziona. Ed allora se, per ottenere un documento, un permesso, un’autorizzazione, oppure per evitare un castigo, occorre “ungere”, si unge, magari mugugnando ma senza denunziare, anche perché molto spesso la denunzia resta senza esito. Come è oramai tristemente noto, anche quando la polizia riesce a fare luce, ci pensano altri organi a rendere vuoto il castigo. La polizia municipale di Napoli ha da qualche mese un nuovo comandante, che era Generale dei Carabinieri ed è intervenuto con energia nel suo nuovo ruolo. Risultato: ha ricevuto una busta con un proiettile in uso al reparto da lui comandato e quindi verosimilmente di provenienza “interna”. In un’intervista ha detto: “Tra i vigili urbani enormi sacche di corruzione”. E qui credo che neanche il fuoriclasse Renato Brunetta potrebbe farci molto.
E che dire del muro dell’intolleranza politica? Questo numero del Bollettino giungerà nelle Sue mani ad elezioni europee compiute allorquando ci scoppierà la testa per le manifestazioni di intolleranza che ci saranno state ammannite. Il Paese è stufo di tutte queste storie, lo hanno capito anche gli analfabeti, ma Lorsignori no, non lo hanno capito.
Anche se mi sforzo sempre di cercare di vedere il bicchiere mezzo pieno, molte volte devo arrendermi all’evidenza: il bicchiere è mezzo vuoto.
(Da Bollettino tributario d’informazioni n. 10 del 2009)
I furbetti del guadagno facile
Caro Lettore,
il 14 agosto si compiranno tre anni dal giorno in cui ho subito una rapina a mano armata. Erano le tre del pomeriggio ed avevamo portato, mia moglie ed io, il nostro pastore tedesco Fritz, che allora aveva quattro mesi, alla visita di controllo dopo un intervento al femore. La clinica veterinaria sta in una traversa di Via Foria, che è una zona centrale di Napoli e proprio di fronte avevo parcheggiato l’auto. Uscendo dalla clinica, la nostra attenzione era tutta per Fritz, sicché non ci rendemmo ben conto che due giovanotti, che avevo intravisto fermi all’inizio della traversa, ci venivano incontro mostrando interesse per le condizioni del cane. Anzi, mi aiutarono a metterlo in braccio a mia moglie sul sedile posteriore destro. Io feci il giro dell’auto e, salendo al posto di guida, mi accingevo a dire a mia moglie che la faccia di quei due proprio non mi piaceva. Ma non feci in tempo, perché i due si accovacciarono tra me e la portiera, uno dei due armò una pistola e mi ingiunse di dargli i soldi, altrimenti avrebbe ucciso me, mia moglie e pure il cane. Gli detti i soldi che avevo in tasca, riuscii ad evitare di dargli la fede nuziale ma non l’orologio, che lui stesso mi strappò dal braccio. Poi mi disse di buttare a terra le chiavi dell’auto ma a questo punto intervenne il complice che gli suggerì di “accontentarsi” e lui si “accontentò”, suggerendomi di tornarmene a casa “buono buono”, senza chiamare nessuno. Mi sono sempre chiesto quale altro epilogo avrebbe avuto la vicenda, se lui avesse insistito per rapinare anche l’auto, perché di certo non gliela avrei lasciata con moglie e cane sopra. Ma lasciamo stare i se.
Appena i due si allontanarono, chiamai il 113 ed in un lampo giunsero una pantera e due motociclisti, che a Napoli vengono chiamati “falchi”. Avevo preso la precauzione di uscire dalla traversa e di fermarmi in via Foria, quando uno dei motociclisti vide passare due giovani in motorino, che rispondevano alla descrizione che stavo facendo. Li riconobbi, i “falchi” li inseguirono, trovarono nelle loro tasche una somma cospicua, li arrestarono. In Questura, mi vennero restituiti i soldi ma non l’orologio, del quale evidentemente si erano disfatti in un tempo record e proprio ciò indusse a ritenere che si fosse trattato di una rapina su commissione: qualcuno, nella sala d’aspetto della clinica, aveva notato il mio orologio ed aveva chiamato i due lestofanti. Così si spiegava anche il loro interessamento al mio cane ed il fatto che si fossero mossi in coincidenza con la mia uscita dalla clinica.
E qui devo parlare dell’orologio. L’ho portato al polso ininterrottamente dal mese di ottobre 1959, allorquando, trasferito a Roma da Genova, i miei collaboratori me lo avevano affettuosamente imposto come loro ricordo. Aveva, dunque, per me un valore immenso.
Qualche tempo dopo, mi telefona un avvocato e mi dice che i due rapinatori intendono risarcire il danno nel limite di mille euro. A me vengono i brividi a pensare che quei due potrebbero darmi soldi provenienti da altri reati, che non sarei quindi riuscito nemmeno a toccare. Poiché il legale insisteva, gli proposi di fare un versamento all’Opera per i figli dei carcerati presso il Santuario della Madonna di Pompei, la cui devozione coltivo da sempre. Non ho più avuto notizie né del legale né del versamento né dei due. Evidentemente, l’avvocaticchio voleva solo sondare la mia intenzione di costituirmi parte civile. Un mio amico penalista, al quale ho successivamente raccontato i fatti, mi ha detto che ho sbagliato tutto, che mi sarei dovuto costituire parte civile, perché così altro che mille euro avrei avuto e poi avrei potuto versare la somma a chi mi pareva. Ma non mi sono affatto pentito del mio comportamento, anche perché almeno uno dei rapinatori, quello armato, era sicuramente un imbecille: indossava una maglietta di un così strano colore giallo, che avrei potuto riconoscerlo pure in Piazza San Pietro gremita di folla. E verso gli imbecilli sento le mie armi spuntate.
Questo è uno dei motivi per i quali, pur non essendone vittima, ho esultato nell’apprendere che al superdelinquente Bernard Madoff sono stati inflitti 150 anni di galera. Penso sia noto che cosa ha fatto questo signore. Ha creato una specie di “catena di Sant’Antonio”, una raccolta di denaro con promessa di tassi d’interesse altissimi, pagati con la raccolta di altre persone. Naturalmente, il grosso del malloppo è restato nelle sue mani. La catena potrebbe proseguire all’infinito ad una condizione: che non si spezzi mai. Infatti, è con i soldi in arrivo che si pagano gli interessi ai precedenti depositanti e si alimenta il fondo a disposizione del malfattore. Se la memoria non m’inganna, in Italia, negli anni sessanta, abbiamo avuto il nostro Madoff. Si chiamava Giuffrè ed operava alla stessa maniera. Quella volta fu proprio la Guardia di finanza a spezzare la catena che aveva reso ricche molte persone e defraudato molte altre. Ma sembra che il “sistema” sia stato inventato addirittura nel 1920, da un immigrato italiano di Boston di nome Charles Ponzi. In meno di un anno, ingannò 40.000 persone per un equivalente di 162 milioni di dollari attuali.
Ora, io vorrei porre a me stesso una domanda molto semplice, almeno all’apparenza: in quale brodo di cultura maturano i Madoff, i Giuffrè, i Ponzi e chissà quanti altri ancora non scoperti? Secondo me, nel desiderio di molta, di troppa gente, di volersi arricchire a buon mercato, senza sudore della fronte, senza impegno alcuno, magari ritenendo che, dall’altra parte, ci siano dei fessi che consentono, con la loro fessaggine, tassi di interesse altissimi. Posso anche immaginare il risolino di cotali “investitori”, i furbetti del guadagno facile, che chissà quali monumenti erigono alla loro perspicacia. Poi, quando si accorgono che i fessi sono loro, strillano e reclamano la punizione del colpevole. Punizione, sia ben chiaro, che ci sta tutta, ma una spolveratina non sarebbe sprecata anche nei confronti di chi ha consentito il delitto.
Ecco allora, inevitabile, il confronto tra chi rapina o ruba per vivere, correndo il rischio concreto della galera, e chi immagina di imbottirsi le tasche a spese degli altri. Forse mi sbaglierò ma a me sembra che costoro, pur con le debite differenze, siano sulla stessa strada degli usurai e degli estorsori.
Probabilmente, tutti dovrebbero ricordare che sono passati i tempi dei sepolcri ricchi e pieni anche di cibarie, allorquando si immaginava che il morto ne potesse beneficiare. Ora tutti hanno capito che nella tomba è inutile portare alcunché. Lo hanno capito, ma molti si comportano come se non lo avessero capito. L’uomo, vallo a capire.
(Da Bollettino tributario d’informazioni n. 14 del 2009)
Staycation
Caro Lettore,
devo confidarLe che io non amo il mare, non amo la campagna, non amo la montagna. Amo la città. Così, quest’anno, ho deciso di non muovermi da Napoli, una città che solo per un paio di settimane in agosto diventa vivibile. Mi sarebbe sembrato assurdo rinunziare a “vedere” luoghi solitamente nascosti da auto per undici mesi all’anno. Occorre aggiungere che in agosto, tra teatri all’aperto, musei ad ingresso continuato ed altre iniziative, c’è come passare il tempo libero, ammesso che se ne abbia.
Per la verità, nella mia scelta di quest’anno ha avuto un ruolo determinante Fritz, un pastore tedesco ora di tre anni. Fritz non si stacca un momento da me ma è difficile trovare alberghi o altri luoghi dove lo accolgano con le dovute maniere. Una volta andammo in un agriturismo che mi aveva assicurato che poteva stare con noi. Quando ci recammo a pranzo ci dissero che no, lì il cane non poteva entrare. Allora mi feci venire i “cinque minuti” ed il cane entrò. Un’altra volta andammo a Marsala e prendemmo la nave traghetto per Trapani. Tenni Fritz con me in cabina ma la mattina, uscendo, una virago in veste di cameriera mi apostrofò perché non avevo portato il cane sull’ultimo ponte dove c’era un locale con tante gabbie per cani e per gatti. Confesso che non ero al corrente di questa prassi e quindi ero in buona fede. Ma fui in mala fede al ritorno allorquando si presentarono a me due ipotesi: o trascorrere la notte accanto alla gabbia di Fritz oppure cercare di nasconderlo. Scelsi questa seconda soluzione perché la notte preferisco dormire. Manco a dirlo, la mattina successiva, giunti a Napoli, un’altra virago mi chiese se il cane avesse dormito in cabina e io fui lesto a risponderle che lo avevo appena prelevato dalla gabbia dell’ultimo ponte. Un’altra volta ancora prendemmo un aliscafo ma, appena a bordo, mi dissero che il cane doveva stare a poppa, al di fuori della cabina. Naturalmente gli feci compagnia e ci prendemmo tutti e due una bella dose di spruzzi.
Ma Fritz mi sta provocando anche altri problemi. A Roma hanno inaugurato una piscina per cani. A Napoli, dove non esiste un luogo, che è uno, dove lasciare liberi i cani, Rosetta, il nostro beneamato sindaco, ha disposto che, nel Parco della Rimembranza, che sta a Posillipo ed è l’unico luogo frequentabile nei pressi di casa mia, i cani siano condotti non solo con il guinzaglio ma anche con la museruola, laddove un’ordinanza del Ministro della salute prescrive tale ultimo aggeggio solo per i locali pubblici. Ora a me sembra che, con il caldo di agosto, imporre la museruola senza un reale pericolo costituisca maltrattamento di animali, reato ancora previsto dal codice penale, tenuto conto che i cani respirano con la lingua di fuori. E così, tutte le volte che vado al Parco, devo “catechizzare” i guardiani, i quali mi danno ragione anche perché di Fritz ci si innamora a prima vista, però devono pure “guardarsi le spalle” dalle possibili ire del sindaco.
Stessa “manfrina” nel giardino di casa, perché tre o quattro persone hanno paura. Poiché io dico che la paura è un sentimento irrazionale che va rispettato, la rispetto ma devo rispettare pure le esigenze di un pastore tedesco che “deve” correre. E dove correre più in sicurezza se non in un giardino, per di più recintato? Io poi ho insegnato a Fritz a correre per andare a prendere palloni che gli lancio e per lui tutto ciò è diventato un gioco che si svolge due o tre volte al giorno. C’è qualcuno che si ferma al cancello per vederci giocare. Se ci avesse visto Hemingway, invece di “Il vecchio e il mare”, avrebbe scritto “Il vecchio e il cane”. Ma in agosto non ho avuto occasione di tenere fermo Fritz, perché credo che solo altre due o tre famiglie del palazzo, oltre alla mia, abbiano scelto la città.
Ed è a questo punto che ho fatto un’interessante scoperta. Ho scoperto la “Staycation”. Si tratta di una nuova moda, che nasce in Inghilterra e che già si dice si diffonderà al pari di altre mode nate colà. Significa, grosso modo, vacanze a casa propria, nel salotto, sulla veranda. Per me, significa vacanze alla scrivania, dove faccio di tutto, visto che mi sono munito di un aggeggio che fa da monitor per il computer, da televisore e da schermo per le cassette o i dvd. Tenuto conto che dispongo di almeno duemila titoli tra teatro, storia, documentari e film, lo spettacolo è assicurato, per di più senza obblighi di orario. Allora vorrei sapere per quale motivo dovrei affrontare dotte dispute sulla presenza del cane qui o lì, nel mentre a casa “sua” se ne sta sempre ai miei piedi senza che nessuno gli dia noia. Tra l’altro, proprio qualche giorno fa ho visto uno di quei deliziosi film in bianco e nero che la televisione manda in onda prevalentemente nel periodo estivo. Si intitolava “L’ombrellone” e faceva vedere spiagge con file parallele di cabine ed ombrelloni uno accanto all’altro, persone che stanno sdraiate gomito a gomito, mare affollatissimo. Si potevano anche intuire i timpani rotti dal vociare della gente e dalle musiche mandate a tutto volume dagli altoparlanti. Insomma, uno spettacolo da far passare per la vita la voglia di andare in vacanza, almeno in quelle condizioni lì.
Il guaio è che quello di agosto è, per definizione, il mese delle vacanze. Tutti “devono” andare in vacanza, non tanto perché quasi tutte le fabbriche chiudono ma perché questa è diventata la prassi anche per le persone che potrebbero scegliere un altro periodo dell’anno, evitando la ressa, la pasta scotta, i camerieri nervosi, i parcheggi sovraffollati. Invece si abbandona il caos della città per trovare il caos del paese di villeggiatura. Per carità, ciascuno è libero di scegliersi il caos che più gli aggrada, è sempre questione di gusti. D’altra parte, se cercassimo di fare una vita più regolata, meno stressante, non schiava delle consuetudini e del “così fan tutti”, i poveri “psi” (psichiatri, psicologi, psicoterapeuti, psicanalisti e via psiconeggiando) come farebbero a campare?
Certo, non si può dire che la “staycation” sia tutta rose e fiori. Lunedì 10 agosto si è rotto un avvolgibile di casa mia. Ho telefonato al tecnico che a suo tempo lo ha installato ma era in ferie, sarebbe tornato il 21. Per non restare senza, mi sono ricordato che l’assicurazione sulla casa mi garantisce anche l’intervento di un artigiano in qualsiasi periodo dell’anno. Ho telefonato ed ho trovato qualche difficoltà a rispondere alle domande. La competenza era di un fabbro, di un falegname o di un elettricista, considerato che l’avvolgibile è azionato elettricamente? Chiariti questi punti, mi è stato detto che entro 72 ore avrei avuto l’artigiano a casa. Ma, entro le 72 ore, una telefonata mi ha avvertito che nessun artigiano era disponibile. Nel frattempo, mi ero anche ricordato che la mia carta di credito assicura un’analoga assistenza e così ho telefonato pure ad un altro numero ma l’esito è stato ugualmente negativo. Insomma, “agosto, cliente mio non ti conosco”.
E così potrei essere indotto a pensare che se mi fossi trovato non a casa, ma altrove, non avrei avuto tanti problemi, a parte Fritz. Ma sarebbe pura illusione, perché i mali possono giungere dappertutto, com’é dimostrato dalle isole di Capri e, soprattutto, Ischia, rimaste quasi totalmente al buio per molti giorni.
Perciò, manterrò i nervi saldi e continuerò a credere nella “Staycation”.
(Da Bollettino tributario d’informazioni n. 15-16 del 2009)
Il rompiballe
Caro Lettore,
venne chiesto una volta a Benedetto Croce se si dovesse essere superstiziosi. Il filosofo abruzzese-napoletano ci pensò un po’ e poi disse che no, non si doveva essere superstiziosi, perché la superstizione non esiste. Ed aggiunse che lui, se avesse avuto tempo, avrebbe scritto non uno ma due libri per dimostrarlo. Purtroppo, non aveva tempo, e quindi avrebbe continuato a fare gli scongiuri.
Vorrei suggerire a Ferruccio De Bortoli, direttore del “Corriere della Sera”, di adeguarsi agli insegnamenti crociani. Se egli si fosse premunito contro i guai che può dare il numero 17, il giorno 17 settembre il quotidiano, probabilmente, non sarebbe incorso in un triplice scivolone.
Nella prima pagina, in una delle “finestre” che servono a richiamare l’attenzione sui servizi più importanti che poi si troveranno all’interno del giornale, si poteva ben leggere: “Reati penali, bagarre in Parlamento”. A pagina 12, riservata alle “Idee e opinioni”, si poteva leggere: “I reati penali, lo scudo fiscale e quella tentazione da evitare”. Era il titolo dato ad un articolo di Daniele Manca, il quale, in sessanta righe, ha trovato modo di infilare per ben due volte l’espressione: “reato penale”. A pagina 37, dedicata all’economia, Enrico Marra, nel raccontare la cronaca parlamentare dello scudo fiscale, evita accuratamente il tranello. Infatti, egli parla di applicabilità dello scudo “a procedimenti penali in corso” e di esclusione della “punibilità per reati tributari”: espressioni del tutto corrette. Ma oramai il diavolillo del 17 ci aveva messo la coda, e dunque nel titolo (che solitamente viene fatto da un redattore e non dall’autore del testo) si può leggere in caratteri ben grandi: “Emendamento della maggioranza per includere i reati penali”.
C’era una volta uno slogan pubblicitario della Olivetti (la Olivetti che fu, quella della “Lettera 22”), che, per diffondere i suoi raccoglitori, diceva così: “L’ordine delle cose è l’ordine delle idee”. Si potrebbe adattare così: “L’ordine delle parole è l’ordine delle idee”. Se le parole sono improprie, ossia non ordinate, vuol dire che anche le idee sono confuse, ossia non ordinate. E la tautologia è un tipico esempio di confusione mentale. Nessuno giornalista o commentatore scriverebbe “giorno diurno”, “mattino antimeridiano” e così via. Ma in tanti scrivono “reato penale” senza nemmeno arrossire.
Non è la prima volta che devo segnalare l’uso scorretto del linguaggio giuridico. Anzi, è una vecchia battaglia che ho condotto dovunque, con esiti, in verità, assai deludenti. Nel mio lavoro: “Violazioni e sanzioni delle leggi tributarie” ho cercato di afferrare il toro per le corna. Si legge, per esempio, nella quinta edizione, a pagina 131, stampato con caratteri più grandi di quelli del testo ed in grassetto: “Poiché con eccessiva ed esasperante frequenza si leggono, anche su organi di stampa qualificati e comunque di larga diffusione, espressioni errate del tipo “reati penali” occorre richiamare con forza l’attenzione sulla necessità di rispettare il lessico legislativo. Come si è appena detto il vocabolo reato è sinonimo di illecito penale, per cui l’espressione “reato penale” costituisce una tautologia. Per gli stessi motivi, ugualmente errata è la locuzione “reato amministrativo”. Quando si ha necessità di classificare i reati, si ricorra a quella del codice penale, che è, al tempo stesso, ufficiale e completa: delitti contro la pubblica amministrazione, delitti contro la fede pubblica, delitti contro il patrimonio eccetera”.
Ma anche persone in teoria qualificate non ci sentono da questo orecchio. Dopo aver trascorso una vita in abitazioni senza obbligo di assemblee condominiali, da oltre quattro anni mi trovo a dover partecipare a cotali bolge, tra l’altro non per mia qualifica, ma come delegato oramai permanente di mia moglie, che, giudiziosamente, dopo qualche tentativo iniziale, si è ritirata sull’Aventino. Essendo un rompiballe, ho cominciato a romperle anche lì. Così, per esempio, una volta ho fatto notare che il regolamento sul parcheggio delle auto prevede l’irrogazione, in caso di violazioni, di una ammenda di 100.000 lire (euro 51,64). Ora, a parte il fatto che l’art. 70 delle disposizioni di attuazione del codice civile, prevede una sanzione di lire 100 (euro 0,65), certamente divenuta risibile ma comunque non modificata, facevo notare che, in ogni caso, non poteva trattarsi di ammenda bensì di sanzione amministrativa. Mi ha contraddetto non un Pinco Pallino ma un avvocato civilista in attuale esercizio professionale. Mi ha detto che sì, potevo pure aver ragione (bontà sua) ma che il condominio è formato da persone semplici, di buona volontà, che scrivono “alla buona” e che quando scrivono non stanno con la grammatica giuridica in mano. Ecco, se si fosse trattato di un condominio di metalmeccanici (sia detto con tutto il rispetto), avrei pure potuto capire. Ma qui ci sono quattro avvocati, cinque ingegneri, una preside, due professoresse, un cattedratico di radiologia, un manager.
In altra occasione, feci notare che il verbale di assemblea è, comunque, un atto giuridico che deve pertanto rispondere a determinati requisiti e non essere redatto alla carlona. Uno dei presenti mi manifestò il suo disinteresse, perché, disse, essendo ingegnere, non ne capiva nulla di diritto.
Anche se so che la mia natura mi impedirà di essere coerente con me stesso, ho deciso di non prendermela più di tanto. Ho istituito una cartellina nella quale raccolgo ritagli di stampa che parlano di condomìni e, se sono di buonumore, la tiro fuori in assemblea. Così rendo noto che il sessanta per cento delle liti civili ha origine nei condomìni. O che a Foggia, un condòmino ha ucciso la vicina. Stessa tragedia a Milano, dove però l’assassino si è pure suicidato. A Voghera una ex guardia giurata ha ammazzato addirittura due vicini. A Roma, invece, una condòmina ha ucciso l’amministratore che, entrato in casa per riscuotere le quote, le aveva fatto capire che avrebbe potuto pagare in natura. A Torino un condòmino è stato ammazzato con un colpo di pistola, dopo una lite per il parcheggio.
Ha scritto Aldo Grasso: “I condòmini, presi uno per uno, sono brave persone, spesso professionisti affermati, magari conducono un’intensa vita di relazione pubblica. Ma quando c’è il bene comune in discussione, perdono la testa, si comportano da pazzi”. E Vittorio Zucconi, dopo aver raccontato le gentilezze ricevute dai suoi vicini di casa in America dopo che vi aveva preso dimora, annota: “Se mi verrà voglia di odi veri, di egoismi o meschinità, di duelli all’ultimo sangue, di stupidità o miopia, mi basterà un viaggio nella ultima frontiera selvaggia e ancora non civilizzata, dove nessun vicino ti offrirà mai un fiore. Una riunione di condominio in Italia”.
Ma, nonostante tutto il mio amore per il lessico giuridico e per altri valori ignoti alle assemblee condominiali, non penso che finirò assassino. Preferirò seppellirli con una risata. Mi auguro solo di non finire assassinato.
(Da Bollettino tributario d’informazioni n. 18 del 2009)
Toghe e togati
Caro Lettore,
vorrei sottoporLe un quesito. Riassumerò le parti essenziali di un articolo che ho sotto gli occhi e poi Le chiederò di individuare il suo autore.
“Il bandito... era già stato arrestato per rapine e assalti a mano armata, prima che uccidesse il carabiniere... Quale Tribunale, quale Giudice gli hanno offerto il destro, rimettendolo in libertà, di compiere quest’ultimo misfatto? È alla Magistratura che dobbiamo chieder conto di quanto accade. (...) Vera o falsa che sia, l’impressione di tutti è questa: che la Magistratura tanto è sensibile al reato politico che solleva scalpore, tanto è inerte di fronte al reato comune. (...) Sappiamo benissimo che non si può fare di tutte le erbe un fascio, e che anche nella Magistratura ci sono tuttora degli uomini che onorano al meglio la loro qualifica di custodi e tutori della Legge. Ma le nuove leve che incalzano sembrano ispirarsi a tutt’altra scuola e costume. (...) Noi rifiutiamo la contrapposizione manichea fra vecchia e nuova Magistratura. È probabile che anche sugli ‘ermellini’ della Corte di Cassazione ci sia qualcosa da ridire e che talvolta la loro rigorosa neutralità non sia che la maschera del conservatorismo. Ma una cosa vogliamo ricordare, anzi due. La prima è che fu grazie a questi uomini e alla loro neutralità che il fascismo si vide costretto a inventare un ‘Tribunale speciale’ per perseguire dei reati che non erano tali. La seconda è l’ammonimento impartitoci da uno dei nostri Maestri di Giurisprudenza: ‘Quando per la porta della Magistratura entra la politica, la giustizia esce dalla finestra’. Questo Maestro era Piero Calamandrei. (...) Sappiamo che il rispetto non s’impone per legge, bisogna guadagnarselo, e la Magistratura sta invece facendo di tutto per perderlo”.
Ed ecco il quesito: chi è l’autore dell’articolo? Un “servo” o un “lacché” di Berlusconi? Uno di quei prezzolati che, pur di far piacere al Capo, si venderebbero l’anima della mamma? Niente di tutto questo. L’autore è Indro Montanelli e l’articolo è pubblicato sul suo “il Giornale” del 19 novembre 1974, ossia qualcosa come trentacinque anni fa.
E, allora, il problema è questo. Se, dopo tanti lustri, sta sempre sul tappeto la questione magistratura, che cos’è che non ha funzionato? E di chi la colpa? La risposta non è semplice ma un aiuto per trovarla può venire dalla lettura di alcuni dei tanti libri che, soprattutto in questi ultimi mesi, sono stati dedicati all’argomento.
Il primo libro che ho avuto occasione di leggere, uscito nel giugno di quest’anno, s’intitola: “Magistrati. L’ultracasta”. Autore è Stefano Livadiotti, un giornalista de “L’Espresso”, che non è precisamente un settimanale di destra. Trascrivo dal risvolto di copertina: “Quella dei giudici e dei pubblici ministeri è la madre di tutte le caste. Uno stato nello stato, governato da fazioni che si spartiscono le poltrone in base ad una ferrea logica lottizzatoria e riescono a dettare l’agenda alla politica. Un formidabile apparato di potere che, sventolando spesso a sproposito il sacrosanto vessillo dell’indipendenza, e facendo leva sull’immagine dei tanti magistrati eroi, è riuscito a blindare la cittadella della giustizia, bandendo ogni forma di meritocrazia e conquistando per i propri associati un carnevale di privilegi”. In 246 pagine di testo, Livadiotti si preoccupa di giustificare ampiamente la sua realistica sintesi. (Una minuscola precisazione. Livadiotti scrive “stato” con la minuscola e, dovendo trascrivere le sue parole, così ho fatto. Ma non condivido per niente. Stato, per me, si scrive ancora e sempre con la maiuscola, così come ancora e sempre con la maiuscola si deve scrivere Nazione o Patria. E qui non è questione di sinistra, centro o destra. È questione di rispetto dei valori tradizionali sui quali è nata e continua a vivere la nostra civiltà del diritto. Anzi, la nostra civiltà, senza specificazioni).
Un altro autore che non gliele manda a dire ai magistrati è una vecchia conoscenza della politica, Luciano Violante, già presidente della Camera dei deputati. In un suo libro, uscito nel settembre scorso, dal semplice titolo “Magistrati”, usa la sferza senza tanti complimenti. Anche Violante, guarda un po’, parla di “accordi tra le correnti dell’Anm (Associazione nazionale magistrati) per la spartizione dei posti tra i propri membri”. I posti erano quelli direttivi e semidirettivi, i cui concorsi languivano dinanzi al Consiglio superiore della magistratura perché non si erano ancora perfezionati gli accordi di spartizione. Tra tanti spunti di riflessione offerti in 190 pagine, l’autore denunzia il protagonismo dei pubblici ministeri, i quali vanno alla ricerca del reato piuttosto che della prova di un reato di cui hanno già avuto notizia. Sembra fargli eco il Procuratore generale di Napoli, Vincenzo Galgano, il quale, in un’intervista al “Corriere del Mezzogiorno” del 15 ottobre, denunzia i “pm fanatici che danneggiano le persone e procurano sofferenze”.
Bisogna riconoscere che lo straripamento delle funzioni e dei poteri dei magistrati è stato agevolato, se non provocato, dalle vicende storiche che ha vissuto l’Italia, dal terrorismo a “Mani pulite”, allorquando la politica ha aperto voragini che i magistrati si sono affrettati ad occupare. Ciò però ha creato un disagio sociale senza precedenti e, soprattutto, una confusione di idee spaventosa, E allora è tempo di rimettere le cose a posto, senza vittimismi e senza rivalse.
Sembra dunque condivisibile il pensiero di Violante, allorquando scrive che “il magistrato deve privilegiare la certezza del diritto e della sua interpretazione rispetto alla propria creatività personale; deve rispettare l’autonomia della politica e dell’amministrazione rispetto alla tentazione di costituirsi come guardiano-protettore della comunità nazionale; deve far prevalere il senso del limite della giurisdizione rispetto alle luci abbaglianti del moralismo politico”. Si tratta di una “strada faticosa”, che però conduce a riguadagnare “il rispetto della società e della politica”. L’alternativa, ossia “lo scontro permanente con quella parte della politica non minoritaria” potrebbe sfociare in un “processo di delegittimazione della magistratura che la porti a perdere la propria indipendenza”.
Anche se foschi segnali si profilano all’orizzonte, mi auguro che a Luciano Violante non tocchi la stessa sorte toccata a Gianpaolo Pansa. Uomo di sinistra anche questi, è stato messo al bando dalla sua parte politica allorquando ha detto ciò che tutti sapevano, e che Giovannino Guareschi, uomo di destra, scriveva già negli anni in cui i fatti accadevano, e cioè che anche la sinistra ha i suoi scheletri negli armadi. Pansa si riferiva a scheletri veri, non in senso figurato, ossia a tutti quei morti ammazzati durante la guerra civile italiana, non proprio per cause di guerra. Ma anche la guerra tra magistratura e politica, e quella tra magistrati, hanno sparso cadaveri, in senso figurato e non, sulle loro strade.
Riusciremo a rinsavire?
(Da Bollettino tributario d’informazioni n. 21 del 2009)
Toghe e togati / 2
Caro Lettore,
questa volta, a differenza della precedente, non Le farò alcun indovinello. Le dico subito che le frasi che sto per trascrivere sono di Indro Montanelli, tratte dal suo editoriale: “Il letto di Procuste”, pubblicato su “il Giornale” dell’11 maggio 1975.
“Un giudice istruttore, Buongo, ha ordinato una perquisizione nella sede di ‘Avanguardia operaia’. Non vogliamo confondere ‘Avanguardia operaia’ con le Brigate rosse. Ma dobbiamo supporre che Buongo avesse fondati motivi per disporre il sopralluogo. Ebbene, i suoi colleghi progressisti di ‘Magistratura democratica’, che, essendo estranei al procedimento, sulla sostanza dei fatti ne sanno quanto noi, sono subito intervenuti con un ordine del giorno di protesta contro quella iniziativa che, a loro dire, «s’inquadra in una orchestrata campagna d’intimidazione nei confronti di forze politiche non subalterne al potere costituito»”.
Sono trascorsi 34 anni dall’intervento di Montanelli, ma ‘Magistratura democratica’ e, più in generale, l’Associazione nazionale magistrati (Anm), della quale la prima è una corrente, non la smettono di intervenire non solo negli affari di giustizia ma altresì in quelli della politica. Anzi, c’è da aggiungere che, nel mentre una volta il Consiglio superiore della magistratura (Csm) era piuttosto silenzioso, negli anni seguenti ha cominciato a parlare senza remore, in una sorta di gara con l’Anm.
Ora qui nessuno immagina di impedire a cittadini che per professione fanno i magistrati di avere le loro idee ed anche di manifestarle. Si tratta di un diritto riconosciuto a tutti i cittadini, qualunque sia la loro professione. Ma si tratta di un diritto che deve necessariamente trovare un punto di equilibrio con la “terzietà” di chi esercita pubblici poteri. Anche il sottoscritto, avendo militato in una Forza Armata, non ha mai rinunziato a manifestare il proprio pensiero ma sempre come privato cittadino, al di fuori di ogni occasione pubblica o, peggio, nell’esercizio delle proprie funzioni istituzionali. Né ha mai pensato di servirsi di tali funzioni per fini diversi da quelli propri. Il magistrato così come, del resto, il pubblico impiegato, perché tale è anche il magistrato non solo deve essere, ma deve anche apparire al di sopra delle parti, così come la moglie di Cesare non solo doveva essere onesta, ma anche apparire tale.
Lo spettacolo al quale stiamo assistendo oramai da tanti, da troppi, anni, va in tutt’altra direzione. Io posso capire che un pubblico ministero, impegnato in un’indagine delicata e complessa, nutra indignazione verso chi, a suo parere, si è macchiato di reati anche gravi. Ma tale indignazione va contenuta, non spiattellata dinanzi alle telecamere, anche perché una precisa norma costituzionale impone di non considerare colpevole una persona sino a sentenza definitiva. Ed è dunque sempre possibile ed anzi probabile, in diretta proporzione con il clamore suscitato dal presunto delitto che tutta l’accusa si dimostri un castello di carta. Posso dunque anche capire che un pubblico ministero, avendo appreso di norme in corso di formazione che potrebbero svuotare di contenuto il suo lavoro, si arrabbi. Però anche l’arrabbiatura deve essere contenuta e, soprattutto, rispettosa degli altri poteri.
Perché è proprio qui il punto. Una volta s’insegnava che, nello Stato di diritto, vige la tripartizione dei poteri. Il Legislativo produce le leggi, che ha l’autorità di imporre a tutti, in quanto la sua sovranità, per effetto delle elezioni, deriva direttamente dal popolo ossia dal detentore vero ed ultimo della sovranità medesima.
Il secondo potere è quello Esecutivo, incaricato dell’applicazione delle leggi. Il terzo è il potere Giudiziario, che deve dirimere le controversie derivanti dall’applicazione delle leggi.
In definitiva, al centro dell’universo giuridico c’è la Legge, intorno alla quale tutto deve ruotare. La Legge, si insegnava, si “oggettivizza”, cioè non tiene più conto dei motivi che l’hanno originata.
Vorrei avvertire che qui non sto attingendo alle vette della filosofia del diritto ma a nozioni che, almeno un tempo, costituivano l’abc della vita sociale e che oggi vedo sconvolte dalle cronache quotidiane.
Siccome in questo Paese c’è ancora chi non si rassegna all’andazzo, qualcuno si interroga e cerca di dare spiegazioni del fenomeno. Si è così creata una vulgata secondo la quale tutto sarebbe nato con “Mani pulite”. Questo fenomeno, con le sue luci e le sue ombre, ha di fatto azzerato una classe politica. Si sarebbe così creato un vuoto di potere che la magistratura avrebbe subito occupato. Ma le date non coincidono. “Mani pulite” è del 1992-93, nel mentre Montanelli scriveva nel 1975, ossia quasi vent’anni prima. Bisogna allora dedurne che l’occupazione (abusiva) era cominciata molti lustri prima e che “Mani pulite” ha solo fatto dilagare il fenomeno.
Una volta ho qui raccontato dei “busti” e dei ritratti ad olio che c’erano a Castelcapuano, la mitica residenza della giustizia napoletana, ora trasferitasi in una immonda costruzione di quella cosa orribile che è il Centro direzionale. Personaggi austeri, autorevoli, pensosi, riservati, irreprensibili nella vita pubblica come in quella privata. Offrivano l’immagine di una giustizia della quale il cittadino si poteva fidare e godevano di un prestigio autentico, genuino, spontaneo, non imposto o reclamato. La Costituzione del tempo, ossia lo Statuto albertino, non si occupava affatto, come fa la Costituzione repubblicana (art. 104), dell’autonomia e dell’indipendenza della magistratura, ma soltanto (art. 68) della inamovibilità dei magistrati. Eppure, nessuno aveva mai dubitato della loro autonomia e della loro indipendenza e non c’era bisogno che nessuno sbandierasse tali concetti.
Ho ripensato ai busti di Castelcapuano, a quegli oli, leggendo “Storia di Giovanni Falcone”, di Francesco La Licata. Mi limito ad accennare a un episodio minore della vita di quel martire. La dirigenza del quotidiano “La Stampa” premeva, proprio tramite La Licata che conosceva bene il magistrato, per una sua collaborazione. Ma Falcone tergiversava ed accettò soltanto quando fu “sbattuto” al Ministero, perché in tal modo distaccato dalla magistratura operante. Trascrivo: “Quanti tentennamenti sui temi da trattare. Quanti dubbi sulle parole, quanti timori di apparire «troppo sbilanciato», di essere accusato di fare «fughe in avanti» (...) Non cercava lo scontro frontale, anche quando scriveva la sua preoccupazione era quella di non mostrarsi troppo categorico. «Non bisogna spaccare», diceva, «il nostro compito è di sanare, non di rompere»”.
Nessun commento.
(Da Bollettino tributario d’informazioni n. 22 del 2009)
Peppino
Caro Lettore,
martedì 24 novembre la Rai ha trasmesso per intero il film “Giuseppe Moscati”, che già aveva trasmesso in due puntate due anni fa. Io lo avevo già visto e registrato ma ho voluto rivederlo per un motivo che cercherò di raccontarLe.
C’è stato un tempo in cui in America, almeno così si diceva, l’appendice veniva tolta ai bambini in tenera età. Era ritenuto un organo non vitale che poteva solo dare problemi nel corso dell’esistenza. Mia madre non era dello stesso parere, perché, pur avendo sommarie nozioni di medicina, riteneva che ogni organo del corpo umano avesse una sua ragione, anche se non ancora scoperta dalla scienza.
A me capitò di avere due attacchi ritenuti di appendicite acuta intorno all’età di 13-14 anni. Il primo lo ebbi al ritorno dal cimitero, dove mi ero voluto caparbiamente recare per assistere all’esumazione di zia Checchina. Si chiamava in realtà Francesca ma la sua figura minuta e snella spingeva al diminutivo direi spontaneamente. Era una sorella della mia nonna materna ed aveva a lungo vissuto con un’altra sorella, Fortunata, in una casa di loro proprietà. Entrambe zitelle, entrambe legate a filo doppio alle tradizioni, tra le quali quella delle gonne lunghe fino al piede. Quando zia Fortunata morì, zia Checchina si trasferì a casa nostra, dove c’erano quattro diavoli scatenati, che poi sarebbero diventati cinque. Con mio padre praticamente assente dalla mattina alla sera per lavoro, e mia madre insegnante, l’arrivo di zia Checchina fu una manna che ci evitò di essere affidati per buona parte delle giornate alle sole cure di una collaboratrice domestica. Perciò, non avevo voluto perdermi nulla di lei, nemmeno in quel pietoso, definitivo atto del cimitero. E probabilmente fu anche l’emozione a scatenare il male.
Il medico di famiglia fu perentorio. Qui si tratta di appendicite acuta, il ragazzo rischia la peritonite, perciò, appena passati i dolori si deve operare. Andammo anche dal chirurgo che avrebbe dovuto operarmi, e lui confermò la diagnosi e la terapia.
Ma mia madre da quest’orecchio un po’ non ci sentiva, per cui tergiversò. Bisogna anche tenere presente che, a quei tempi, un’operazione di appendicite (appendicectomia, come dicono i dotti), non era proprio uno scherzo come sembra che oggi sia diventata. Stiamo parlando degli anni immediatamente seguenti alla guerra e le sale operatorie non sembra che brillassero per igiene e pulizia. Mia madre era una igienista e quindi non voleva espormi a rischi imprevisti.
Sennonché, dopo un paio di settimane, si ripeté l’attacco: febbre a quaranta, vomito, dolori all’addome. Il medico di famiglia questa volta si arrabbiò, perché lui “lo aveva detto” che l’operazione era non sono indispensabile ma anche urgente, e nuovamente prospettò il pericolo di una perforazione dell’intestino, ossia di una peritonite.
Questa volta mia madre non stette più in attesa. Prendemmo la Circumvesuviana, una sorta di metropolitana veloce, precisissima, che tuttora collega i paesi della zona vesuviana tra i quali Torre Annunziata, dove allora abitavamo, ed andammo a Napoli.
A Napoli aveva lo studio zio Luigi Briganti, nostro parente per parte di padre e nostro nume medico tutelare in tutte le occasioni più importanti della nostra vita. Zio Luigi auscultò, tastò, guardò e poi disse che l’appendice non c’entrava per niente. Conservo ancora la sua prescrizione che consistette in una serie di suggerimenti esclusivamente alimentari. La mia appendice è ancora al suo posto.
Ma, Lei potrebbe obiettarmi, e che c’entra tutto questo con Giuseppe Moscati? C’entra molto, perché zio Luigi era stato allievo del prof. Giuseppe Moscati, ora elevato alla dignità degli altari. Nella stupenda Chiesa del Gesù Nuovo, a Napoli, non solo riposano le spoglie mortali del Santo, ma c’è tutta una zona comunicante con la Chiesa e formata da più locali, a Lui esclusivamente dedicata. Sono le cosiddette “Sale Moscati”. In un locale c’è lo studio, in un altro la camera da letto con l’inginocchiatoio ed un bellissimo quadro della Madonna di Pompei. Poi c’è la cappella, in cima al cui altare è ben visibile la fotografia del Santo, quella classica, che Lo ritrae con il camice bianco e l’aria piuttosto severa ed assorta. È la foto “ufficiale”. Ma io ne ho trovata, del tutto casualmente, un’altra, che sta nella Chiesa di Santa Maria della Vittoria, all’inizio della Villa comunale. In questa fotografia, Moscati è ritratto in abiti “borghesi” e con un ciuffo di capelli sulla testa. Insomma, una foto “normale”, certamente più rispondente al Suo carattere, quale il film della Rai mette molto bene in mostra.
Le pareti di una delle “Sale Moscati” sono tappezzate da ex voto che circondano anche una bacheca con oggetti vari e foto. In una delle foto si vede chiaramente zio Luigi, insieme ad altri discepoli, riuniti intorno al loro Maestro. E zio Luigi fu tra quei discepoli che portarono a spalle la bara di Moscati quando morì a soli 47 anni.
Ma non sono soltanto questi i motivi che mi hanno spinto a seguire la causa di beatificazione di Peppino mi permetto di chiamarLo affettuosamente così, proprio come facevano la sorella e gli amici fino alla proclamazione a Santo fatta da quell’altro grande Santo che risponde al nome di Giovanni Paolo II. Il motivo di fondo è che Peppino è stato un uomo “normale”, che ha condotto una vita “normale”, così dimostrando a tutti, con i fatti, che la santità non è una meta riservata ai prescelti, preferibilmente asceti e religiosi, ma raggiungibile da tutti, ovviamente a certe condizioni. Scriveva in una lettera ad un suo discepolo: “Non la scienza, ma la carità ha trasformato il mondo, in alcuni periodi; e solo pochissimi uomini son passati alla storia per la scienza; ma tutti potranno rimanere imperituri, simbolo dell’eternità della vita, in cui la morte non è che una tappa, una metamorfosi per un più alto ascenso, se si dedicheranno al bene”. E ad un altro discepolo: “Ricordatevi che non solo del corpo vi dovete occupare, ma delle anime gementi, che ricorrono a voi. Quanti dolori voi lenirete più facilmente con il consiglio, e scendendo allo spirito, anziché con le fredde prescrizioni da inviare al farmacista!”. Grazie, Peppino.
(Da Bollettino tributario d’informazioni n. 23 del 2009)
Concetti alati
Caro Lettore,
l’altra sera, a “La Feltrinelli” di Chiaia, uno dei quattro centri napoletani della famosa casa editrice, c’era un “evento” imperdibile. Erano annunziati interventi di Giuseppe Galasso, storico, di Biagio De Giovanni, filosofo, e di Claudio Velardi. Quest’ultimo, come ha argutamente ammesso lui stesso, non si sa bene quale professione eserciti, anche se ha detto di essere lì per evocare alcuni ricordi di quando era “il Rasputin di D’Alema”, ossia, ha aggiunto, “l’omologo di Gianni Letta di Berlusconi”.
L’evento era stato organizzato per presentare un libro di Paolo Macry, che insegna storia contemporanea, dal titolo abbastanza inconsueto: “Gli ultimi giorni. Stati che crollano nell’Europa del Novecento”. L’autore sostiene la tesi che le partite della storia non sono mai un destino già scritto, perché nulla sembra predestinato. “A Pietroburgo come a Vienna, a Berlino come a Mosca, nel 1917-18 come nel 1989-91, il gioco è aperto fino all’ultima mossa”. Una tesi intorno alla quale hanno discettato, da par loro, sia Galasso sia de Giovanni, sempre volando alto nelle sfere del sapere. L’unico ancorato alla terra è stato Velardi, il quale, per dimostrare la tesi di Macry, ha ricordato di quando D’Alema, di fronte ai contrasti del governo da lui presieduto, lo svegliò una mattina alle 7,30 per chiedergli che cosa fare. E lui, Velardi, gli suggerì di dimettersi, cosa che poi D’Alema effettivamente fece, ponendo fine alla sua esperienza a Palazzo Chigi.
A parte il fatto che la fine di un governo non è paragonabile alla fine di uno Stato, argomento del quale viceversa si occupa Macry, sono state le argomentazioni dei due teorici a tenere avvinto l’uditorio. Non so, in verità, con quanto profitto, almeno per quanto mi riguarda. Io pensavo, per esempio, che, quando l’Italia dichiarò guerra agli Stati Uniti d’America, qualunque persona di buon senso non avrebbe scommesso un dollaro bucato sulla nostra vittoria. Dunque, negli “ultimi giorni”, nulla sarebbe potuto accadere di diverso da quel che è effettivamente accaduto.
In un’altra occasione, sempre alla Feltrinelli, ero andato per sentire Gino Strada e mi aspettavo che il famoso medico raccontasse le sue esperienze internazionali, certamente di enorme interesse. Invece Strada tenne un comizio contro gli Stati Uniti, giungendo a giustificare il terrorismo. Una tesi da incubo, che mi fece chiedere la parola per porre alcune domande, alle quali Gino Strada oppose soltanto che si trattava di domande “da un milione di dollari”. Nella recente occasione, di ben diverso livello erano gli argomenti trattati, e comunque non era previsto alcun dibattito, per cui le domande che pure mi sarebbe piaciuto porre le ho dovuto tenere per me.
Ciò, però, mi ha consentito di svolazzare col pensiero, ed andare, per esempio, ad Indro Montanelli, che la storia l’ha esposta come andrebbe veramente studiata, per raccontare i fatti e loro cause recenti e remote, perché nulla, nemmeno la fine di un impero, nasce dal caso.
Certo, poi ci può entrare anche il caso o la fortuna. Napoleone diceva che preferiva un generale fortunato ad uno bravo. Lo sbarco in Normandia non sarebbe stato effettuato se le condizioni atmosferiche fossero state avverse. Sarebbe stato posticipato, è ovvio, ma non sarebbe stata la stessa cosa, perché, avendo più tempo a disposizione, i tedeschi si sarebbero accorti dell’inganno che era stato loro teso, dando ad intendere che lo sbarco sarebbe avvenuto in altro luogo. Ma la fine dello Stato tedesco si sarebbe verificata comunque, perché, come ha scritto il più grande storico della seconda guerra mondiale, Liddell Hart, la sproporzione delle forze era tale da non consentire diversa soluzione.
Queste osservazioni banali nulla tolgono, ovviamente, alle dotte argomentazioni che gli oratori andavano svolgendo, attingendo al loro elevato sapere. Ma io, intanto, forse in serata non di vena, continuavo a divagare col pensiero e, grazie alla mia intuibile deformazione professionale, mi misi a pensare al “solve et repete”, che con la fine degli Stati non c’entra nulla ma con la storiuccia tributaria sì. Per chi avesse dimenticato o magari nemmeno conosciuto il principio, che veniva espresso in latino forse per dargli una nobiltà che gli mancava, il contribuente, di fronte ad una pretesa dell’amministrazione finanziaria, doveva prima pagare e poi chiedere la restituzione. Non importava nulla se avesse ragione o torto. Presupposto imprescindibile per adire la sede contenziosa, amministrativa o giudiziaria, era il pagamento del tributo e si capisce come questa condizione-capestro andasse a danno delle categorie più deboli che non avevano mezzi sufficienti e che, anche in caso di vittoria, avrebbero ottenuto il rimborso con il consueto ritardo. Eppure, anche questo principio ebbe sostenitori illustri, che si sforzarono di dimostrarne la razionalità.
Così come sostenitori illustri hanno avuto gli studi di settore. Ho già ricordato in altre occasioni che essi nacquero sotto forma di elaborati degli Ispettorati compartimentali delle imposte dirette, di buona memoria, conseguenti a verifiche effettuate secondo un duplice criterio: dimensioni delle aziende (grandi, medie e piccole) e loro dislocazione (nord, centro e sud). Mettevano in evidenza alcune “medie” statistiche, che costituivano un ausilio nelle successive verifiche. A nessun ispettore compartimentale sarebbe venuto in mente di elevare quasi a norma cogente quegli studi. Eppure è successo, con l’avallo di autorevoli teorici. Con un certo sollievo, ho letto che l’era degli studi di settore sta per tramontare, se non è già tramontata.
Così come è tramontata l’era dei superispettori,. Che ebbero sponsor illuminati ed onniveggenti, per la loro asserita funzione di fungere da grimaldello per sradicare la corruzione e l’evasione. Credo che entrambe siano rimaste al loro posto.
Ma, giacché la mia mente si era sbrigliata, ho cominciato a pensare a quegli illustri scienziati che sostenevano che fosse il sole a girare intorno alla terra e non viceversa. Oppure a quegli altri autorevoli esponenti della cultura che avallavano le teorie antisemite di quel pazzo di Hitler, giustificando la sua “soluzione finale”, ossia lo sterminio fisico di tutti gli ebrei.
Ma essendosi oramai la mia mente sbizzarrita un po’ troppo, l’ho dovuta richiamare all’ordine e sono così tornato ad Indro Montanelli, che faceva i conti con la realtà piuttosto che con i concetti alati. E proprio per questo, non fu mai accolto nel mondo accademico.
(Da Bollettino tributario d’informazioni n. 2 del 2010)
Una boccata d’aria pura
Caro Lettore,
la scena si svolge in una strada di Napoli, in un qualsiasi giorno di anni lontani. Un distinto Signore sta per attraversare su striscia pedonale ma non si avvede che il semaforo segna rosso. Il vigile di sorveglianza lo strattona in malo modo per un braccio, per cui il Signore fa le sue rimostranze ma non dice neppure: “Lei non sa chi sono io”, quando il vigile lo invita a seguirlo in Questura. All’ingresso, qualcuno lo riconosce e corre a chiamare il Questore, il quale, subito sopraggiunto, si profonde in scuse. La sera dello stesso giorno, il distinto Signore torna in Questura accompagnato dal vigile e va dritto dal Questore. Pretende la revoca del provvedimento disciplinare che aveva saputo essere stato adottato nei confronti del vigile. Quel distinto Signore si chiamava Enrico De Nicola.
Traggo l’episodio da una biografia del grande statista napoletano, uscita in questi giorni a firma di Andrea Jelardi, il quale ha saputo evitare qualsiasi piaggeria, dando dell’uomo e del politico un ritratto asciutto, essenziale.
Non ancora trentenne, De Nicola divenne consigliere comunale con il maggior numero di preferenze, il che gli avrebbe consentito di presiedere la prima riunione del nuovo consesso. Ma, per rispetto verso un altro consigliere, più anziano di lui, egli inviò un telegramma al prefetto, dicendosi malato. Era già un avvocato di grido ma, soprattutto, era noto per la sua dirittura morale. Entrato in politica, egli si rifiutava di assumere incarichi professionali che lo avrebbero visto dall’altra parte dell’Avvocatura dello Stato. “Non posso schierarmi contro lo Stato del quale faccio parte come componente del potere legislativo”, usava ripetere.
Prima dell’avvento del fascismo, entrò a far parte di vari Governi, ma sempre defilandosi quando si presentava la possibilità di essere nominato presidente del Consiglio. Fu poi presidente della Camera dei deputati, a soli 43 anni. Però dopo le elezioni del 1924, quando fu chiaro che il fascismo si avviava a diventare dittatura, si ritirò dalla vita politica attiva, pur conservando intatto il rispetto di tutti. Furono le stesse autorità del tempo, del resto, ad autorizzare l’intitolazione di una strada al suo nome nel comune di Afragola, dove per la prima volta era stato eletto deputato benché fosse in vita e dunque in eccezionale deroga ai regolamenti.
Dunque, dopo la fine della seconda guerra mondiale, De Nicola era un personaggio dall’immagine integra, intatta. Era riuscito davvero a mantenersi al di sopra delle parti, tanto che intorno a lui si mosse tutta la strategia per ricostituire la democrazia e far rivivere l’immagine dello Stato, avvilita non solo dalla umiliante sconfitta militare ma anche da un generale decadimento dei costumi.
Fu Capo provvisorio dello Stato, presidente della Repubblica, presidente della Corte costituzionale. Dovunque rifulsero le sue qualità. Già da consigliere comunale, egli pretese che la corrispondenza personale fosse affrancata a sue spese. Una direttiva che darà sempre a tutti i collaboratori successivi. Era quasi un pallino, quello di non confondere le spese per la carica con quelle personali. Questo pallino lo porterà addirittura a rifiutare anche assegni personali riconosciuti dalla legge.
Improntata allo stesso rigore la sua vita privata. Egli usava ripetere che nella vita è importante avere “una donna, pochi amici e molti libri”, pur avversando il matrimonio per una sorta di dedizione si direbbe sacerdotale alla missione politica. “Io penso che un uomo politico non dovrebbe mai sposarsi: è meglio”. Eppure, scrive Jelardi, “un personaggio così carismatico non avrebbe alcuna difficoltà ad avere accanto a sé le donne più belle e affascinanti”. Evita Peron, dopo averlo conosciuto nel corso di una sua visita ufficiale in Italia, lo aveva definito un encantador. Ma della sua vita privata si conoscono soltanto due episodi. Un primo riguarda una donna abitante alla Riviera di Chiaia. De Nicola va nel negozio di Marinella (famosissimo ancora oggi) e lì attende una telefonata come segnale per passare in carrozzella sotto il balcone della sua casa poco distante. Il secondo episodio riguarda una baronessa di origini siciliane, conosciuta in occasione della causa di separazione dal marito, al quale De Nicola chiede una sorta di autorizzazione a corrispondere con l’amata. Le resterà fedele per tutta la vita.
Un’altra caratteristica di De Nicola era costituita dalle dimissioni, che egli diede si può dire sistematicamente da ogni incarico ricoperto, tanto da diventare anche oggetto di satira. Ma le sue dimissioni costituivano soltanto l’insofferenza nel vedere calpestati o trascurati taluni principi della vita politica che egli riteneva essenziali.
Per non parlare della sua preparazione giuridica. Nel corso di una conversazione con il presidente degli Stati Uniti d’America, Harry Truman, si discusse sul numero degli emendamenti della Costituzione americana: 21, secondo Truman, 22, secondo De Nicola. Rientrato in sede, Truman scrisse una lettera a De Nicola: “Lei conosce la Costituzione americana meglio di me. Gli emendamenti sono 22!”.
Quando il 27 dicembre 1947, alle ore 17, avvenne la firma della Costituzione italiana, De Nicola disse a De Gasperi: “L’ho letta attentamente. Possiamo firmare con sicura coscienza”. E il cronista del cinegiornale “Settimana Incom” chiosò, a sua volta: “L’avvocato De Nicola è un grande giurista. Possiamo stare tranquilli anche noi”.
“L’ultimo italiano in cilindro, un gentiluomo in mezzo a una classe politica di parvenu, di rivoluzionari dai moralismi feroci”: la definizione, sempre attuale, è di Giorgio Bocca.
Politici inchiodati alla poltrona, politici che rubano, politici che si accompagnano a trans ed escort, politici che abusano dei mezzi a loro disposizione. Un olezzo mefitico ci avvolge. In verità, non da oggi, se è vero che, molti anni fa, Indro Montanelli esortò a turarsi il naso e comunque votare. Ma l’olezzo è peggiorato nel tempo ed ogni giorno, nel tenerci informati sulla cronaca, dovremmo indossare una maschera antigas, come si faceva al tempo di guerra. In un’atmosfera del genere, dedicare un po’ di tempo ad una figura come quella di Enrico De Nicola, equivale a concedersi una boccata d’aria pura.
(Da Bollettino tributario d’informazioni n. 4 del 2010)