Date a Cesare



Giuseppe, durante le prove di uno spettacolo...


Narrano gli Evangelisti, quasi con le stesse parole (Matteo 22,16; Marco 12,13; Luca 20,20) che un giorno si avvicinarono a Gesù farisei ed erodiani con l’intento di fargli dire cose contrarie alla legge e quindi avere il pretesto per imprigionarlo. Gli chiesero: “È lecito o no pagare il tributo a Cesare?”. Gesù chiese che gli mostrassero la moneta e disse: “Di chi è questa immagine e questa scritta?”. Gli risposero: “Di Cesare”. Allora Gesù replicò: “Rendete a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio”.

Giuseppe


Il motivo dei tributi

     Adam Smith, nella sua celebre opera: “Ricerche sopra la natura e le cause della ricchezza delle nazioni”, si occupa, nel libro quinto, delle entrate del sovrano o della repubblica. L’entrata pubblica esiste e si giustifica in quanto esista una spesa pubblica e questa può essere ripartita in spesa della difesa, spesa della giustizia, spesa delle opere pubbliche e delle pubbliche istituzioni.
     Presso i popoli primitivi, dice Smith, ogni uomo è guerriero e cacciatore allo stesso tempo. Quando la tribù va alla guerra, si mantiene con la caccia, né più né meno di come fa quando vive a casa propria.
     In una fase più progredita della società, presso i popoli pastori, ugualmente ogni uomo è guerriero. La tribù si sposta a mano a mano che consuma il pascolo di una parte del paese e lo spostamento è identico anche se avviene per motivi di guerra. Infatti, “quando un tartaro o un arabo va alla guerra, si mantiene coi suoi armenti e coi suoi greggi, che trasporta con sé allo stesso modo che in tempo di pace”. La differenza con la fase precedente della società sta nel fatto che un popolo cacciatore difficilmente può superare i due o trecento uomini, tenuto conto della precaria sussistenza che offre la caccia, mentre un popolo pastore può giungere a due o tremila uomini.
     In una fase più progredita della società, quella agricola, che presuppone una residenza, non è possibile che tutta quanta la popolazione vada alla guerra ma chi ci deve andare, dovendo rinunziare al lavoro nei campi, pretende una paga dalla collettività.
     Infine, nella fase più progredita della società, vi sono due motivi che rendono necessario l’esercito: da un lato, lo sviluppo delle manifatture, giacché queste non “lavorano”, come entro certi limiti può fare la terra, quando chi vi è addetto si allontani e, da un altro lato, il progresso nell’arte della guerra, che rende necessaria una apposita preparazione.
     Per strade parallele a quella della spesa per la difesa, sorge con l’evoluzione della società l’esigenza della spesa della giustizia, delle opere pubbliche e delle pubbliche istituzioni. Ne deriva che lo Stato – ossia la forma attualmente più progredita di organizzazione della società – deve poter disporre di entrate sufficienti a fronteggiare le spese.

(Estratto da Diritto tributario, Giuffrè editore, terza edizione, Milano 2002)



Col rincaro dei tabacchi il fisco si scotta le dita

     (Il 1° gennaio 2008 è aumentato il prezzo dei tabacchi)

     Si parla di un nuovo aumento del prezzo di vendita delle sigarette estere. Il più recente provvedimento col quale è stata stabilita la ripartizione del prezzo tra costo pagato al fornitore, imposta di consumo, imposta sul valore aggiunto ed aggio al rivenditore, è il decreto ministeriale 30 settembre 1977. Esaminando la tabella allegata a tale decreto, si può rilevare, ad esempio, che se per un chilogrammo convenzionale (uguale a mille sigarette) il prezzo richiesto dal fornitore è di 12.533 lire, il prezzo di vendita al pubblico è di 100.000 lire. Anche togliendo l’aggio spettante al rivenditore, pari a 10.000 lire, si ha un ricarico superiore al 700 per cento, da ripartire tra imposta di consumo e imposta sul valore aggiunto. Si può dunque affermare che alla pressione fiscale sui tabacchi spetta l’Oscar della esosità.

(Estratto da Il Sole 24 Ore del 5 novembre 1997)



Il compenso alla prostituta sfugge al fisco

     Le professioniste dell’amore potranno continuare a dormire sonni fiscalmente sereni. È quanto si deduce dalla risposta che il sottosegretario alle Finanze, Stefano De Luca, ha dato all’interrogazione parlamentare presentata dal deputato Francesco Servello. Secondo De Luca, è difficile collocare fiscalmente le prestazioni delle “lucciole”, che vengono compensate con “elargizioni” da parte del beneficiario. E questo perché, spiega il sottosegretario, il testo unico delle imposte sui redditi ha reso tassative le categorie di reddito e non è disponibile quella adatta ad accogliere i redditi delle prostitute.
     Né si incontra maggior fortuna se si va a spulciare tra le imposte indirette. A suo tempo venne, infatti, dichiarata non applicabile l’imposta generale sull’entrata, che pure non faceva distinzioni tanto sottili. Figuriamoci con l’imposta sul valore aggiunto: tributo moderno, sofisticato, “europeo” e tanto, tanto più rigoroso dell’ige, almeno nelle intenzioni.
     Si deve comunque dare atto al sottosegretario De Luca di non aver tirato in ballo l’uggiosa questione della tassazione delle attività illecite. Infatti, secondo una certa dottrina lo Stato non deve tassare i proventi di attività contrarie al diritto perché, altrimenti, le legittimerebbe. Tesi che è apparsa sempre peregrina, sia perché finisce col premiare i proventi illeciti, sia perché dovrebbe essere fatta valere da un Fisco pigliatutto, che tassa con avida voluttà redditi veri, presunti, supposti, inventati, ma che poi improvvisamente si tura il naso e fa il moralista a buon mercato.
     Senza dire che la prostituzione è tutt’altro che un’attività giuridicamente illecita. Sono illeciti l’adescamento, lo sfruttamento, l’induzione, l’organizzazione ma è proprio la legge Merlin che ha liberalizzato e reso addirittura esente da controlli l’esercizio della professione.
     Ma tutto questo il legislatore fiscale probabilmente non lo sa.

(Da Il Sole 24 Ore del 2 agosto 1990)



Evitare l’imposta? Una tentazione troppo tollerata

     “Il problema è grave ma non è serio”: lo diceva Leo Longanesi, il quale la sapeva lunga sulla psicologia degli italiani. La definizione sembra attagliarsi perfettamente all’evasione fiscale, argomento “ondivago”, ossia che va e che viene, proprio come le onde del mare. E, come le onde, l’evasione c’è stata e ci sarà sempre, perché è un fatto fisiologico, anche se non sempre della stessa entità.
     Ma che cosa è veramente questa evasione fiscale? Nello “Stato dei lavori della Commissione delle riforme tributarie”, del 1964, si legge testualmente: “Il sistema tributario è tale da dover essere considerato obiettivamente inapplicabile e, se venisse applicato, comporterebbe la impossibilità di sopravvivenza per larghi settori della nostra vita economica”.
     Verrebbe dunque da dire che l’evasione fiscale, ossia la non applicazione del sistema fiscale, è stata il toccasana della nostra economia o, quanto meno, di “larghi settori” di essa. Una sorta di “legittima difesa” di operatori economici, che non intendevano soccombere sotto il peso di un sistema tributario “arcaico e ingiusto”, come lo definì la Commissione finanze e tesoro della Camera dei deputati. In definitiva, un fattore economico positivo.
     Fu anche per questi motivi che il sistema tributario venne sostituito radicalmente da un altro sistema tributario che, però, a quanto sembra, si sta dimostrando ugualmente arcaico, ingiusto e fonte di “scandalose evasioni”, come si legge sempre più frequentemente. A questo punto, i casi sono due: o si cambia di nuovo tutto il sistema tributario o si cerca di far funzionare quello che esiste.
     Si potrebbe aderire alla prima tesi qualora esistesse, in teoria, un sistema tributario “perfetto”. Un sistema del genere non esiste, come l’esperienza non solo del nostro Paese ma di tutto il mondo dimostra.
     Non resta che la seconda soluzione, ossia il tentativo di far funzionare ciò che esiste. Ma è qui che casca l’asino, perché anche il funzionamento dell’esistente ciascuno lo intende alla propria maniera, ossia secondo il proprio angolo visuale, che poi, il più delle volte, coincide con quello di qualche lobby o corporazione.
     Perciò, anche la lotta all’evasione non ha una direttrice costante. Chi ignora, o fa finta di ignorare, il fenomeno (“Evasione, chi era costei?”), non crede neppure nella necessità della lotta. Chi lo enfatizza (“Siamo un popolo di evasori”), non crede nelle possibilità di successo della lotta. A ciò si aggiunga che tutti gli strumenti escogitati per combattere l’evasione (manette, bolle di accompagnamento, scontrini, ricevute, contrassegni sotto i tappi eccetera) si sono dimostrati lance con punte arrotondate. Che altro occorre per dimostrare la mancanza di serietà del problema?

(Da Il Sole 24 Ore del 3 maggio 1983)



Condono

     Condono è una parola che deriva dal latino “cum donare”, concedere in dono. Sarebbe in errore, però, colui che pretendesse di sostenere che i condoni sono stati concessi per regalare qualcosa agli evasori. Mai più. I vari ministri delle finanze che si sono resi promotori dei vari provvedimenti di condono sono sempre partiti da uno stato di necessità che si può condensare nelle seguenti proposizioni: gli uffici sono sovraccarichi di lavoro, le commissioni tributarie scoppiano, la litigiosità è in aumento. Dunque, con un provvedimento di condono si manda un bel po’ di carte al macero, si fa piazza pulita e si ricomincia daccapo.
     Tutto giusto, tutto esatto, tutto vero. Però, quegli stessi ministri avrebbero dovuto adottare, contestualmente al condono, altri provvedimenti che avessero consentito all’amministrazione di funzionare, al contenzioso di non vegetare ed alla litigiosità di non avere spazio per affermarsi.
     Uno dei grossi guai dell’Italia è che i ministri in carica hanno sempre ragione e che quelli decaduti, anche quando si sia accertato che hanno commesso grossi errori, non vengono mai citati in giudizio.
     Ma c’è un’altra considerazione, ben più grave. Il rapporto tra fisco e contribuente deve essere un rapporto essenzialmente fiduciario. Ma quale spazio può mai avere la fiducia se i contribuenti vengono sempre penalizzati e quelli disonesti sempre premiati?

(Estratto da L’altra faccia del fisco, Giuffrè editore, Milano 1983, pag. 189)



Quante bugie nel 740 per legittima difesa

     Molto opportunamente dottrina e giurisprudenza sono state sempre concordi nel ritenere quella dei redditi una dichiarazione di scienza e non di volontà. Infatti, forzando un po’ il significato tecnico-giuridico delle espressioni, si può affermare che i contribuenti non hanno avuto, non hanno e verosimilmente non avranno mai la volontà di pagare le imposte. Peraltro, essendo di scienza, ossia di conoscenza, la dichiarazione si presta a vecchi trucchi quali: niente so, niente ho visto. Intendiamoci, non è per imitare atteggiamenti propri della mafia o della camorra che il contribuente vi fa ricorso, ma semplicemente per cercare di attuare una legittima difesa.
     Questo concetto della legittima difesa non siamo stati noi ad inventarlo. Noi lo abbiamo semplicemente mandato a memoria, avendolo desunto dagli atti parlamentari che hanno preceduto la riforma tributaria. C’è però un particolare. Il concetto veniva evocato in tali atti con riferimento al vecchio sistema tributario, che aveva portato la pressione fiscale a livelli non più tollerabili, per affermare la necessità di un nuovo sistema che non spingesse più alla legittima difesa.
     Diventa dunque comprensibile il nostro stupore quando leggiamo che viene sbandierato quasi con orgoglio il dato secondo il quale la pressione fiscale raggiunge il bel livello del 43,3 per cento sul prodotto interno lordo. Infatti, bisognerebbe cominciare ad aver paura del socio occulto che ciascuno di noi ha, e che si chiama fisco, se ci porta via 44 lire su ogni 100 che noi riusciamo a produrre con le nostre sole forze. Una simile voracità può avere come effetto o l’imbroglio per legittima difesa o la cessazione dell’attività lavorativa oltre un certo limite di convenienza.
     Certo, l’animo non si fa lieto nel constatare che, a dieci anni dalla riforma tributaria, il tempo della dichiarazione dei redditi continua ad aprire il festival nazionale delle bugie. Tanto più se si pensa che si era partiti col piede giusto. Ezio Vanoni, nell’unificare le varie dichiarazioni che ciascun tributo richiedeva nell’unico modello che da lui prese nome, recò una semplificazione di enorme portata, anche psicologica. Oggi c’è da dubitare che si sia trattato di una semplificazione, se è vero che soltanto la scelta del modello da adottare, tra tanti che ve ne sono, richiede altro che scienza. Come se questo già non bastasse, ogni anno i modelli recano variazioni non suggerite da motivi di chiarezza, ma imposte dall’incessante divenire della legislazione, che sta finendo col portare scompiglio anche nelle menti più agguerrite.
     Neppure si fa lieto l’animo nel constatare che l’unico, vero successo della riforma tributaria sta nella tassazione dei redditi di lavoro dipendente. Peraltro, anche in questo caso l’affermazione va posta con ampie riserve per almeno tre motivi: esistono lavoratori dipendenti nel “sommerso” che non pagano alcunché; esistono lavoratori dipendenti in grado di imporre al loro datore compensi “in nero”; si è enormemente espansa l’abitudine dei “fringe-benefits”, ossia di quelle vere e proprie integrazioni di stipendio costituite dall’uso gratuito di automobili, alloggi ecc.
     Ma, allora, questa riforma non è servita proprio a niente? Non vorremmo essere pessimisti sino a questo punto ma certo il quadro che abbiamo dinanzi agli occhi non induce nemmeno all’ottimismo. Un dato confortante esiste ed è costituito dagli studi che in questi ultimi anni sono stati condotti sul come poter riformare la riforma, salvando quel che di buono essa ha. Purtroppo, i giuristi non hanno altre armi che gli scritti e le conferenze per far valere le loro ragioni. Individualisti ed isolati come sono, non sarebbero probabilmente neppure disponibili per raccogliere firme per una legge di riforma di iniziativa popolare. E poi, anche per far approvare quest’ultima, occorrerebbe pur sempre una volontà politica. Nel momento in cui questa ci sarà, nei comportamenti concreti oltre che nelle parole, si saprà esattamente cosa fare per far pagare le tasse a tutti ed in modo sopportabile.

(Da Il Sole 24 Ore del 3 maggio 1983)



La “regina delle imposte” se ne va

     Il trattato istitutivo della Comunità europea ha messo sul banco degli accusati l’imposta generale sull’entrata, la “regina delle imposte”, come è stata autorevolmente definita. Sicché, agli alti lai che da ogni dove si levano contro il farraginoso macchinismo della legge, si aggiungono gli studi, le proposte, le discussioni per sostituire l’ige – che, sia pure sotto nomi diversi, è da cinquant’anni sulla scena tributaria italiana – con una nuova imposta. Sennonché, sembra che non tutti siano d’accordo sulla nomina della nuova “regina”, che alcuni vorrebbero somigliante all’imposta sul valore aggiunto, altri all’imposta sulla cifra d’affari.
     Gli amanti delle novità a tutti i costi non vanno troppo per il sottile e, purché non si parli più di ige, sarebbero disposti ad accettare qualunque altra imposta. Ma non v’è dubbio alcuno che, se la sostituzione s’ha da fare, essa va fatta dopo attenta meditazione, per evitare che ad uno strumento complesso quanto si vuole, ma almeno noto alla generalità degli operatori, si sostituisca un altro strumento, magari più complesso e di più difficile assimilazione. Perciò, mai bisognerebbe dimenticare che una imposta, la cui applicazione è affidata allo stesso contribuente, deve essere chiara e facile. Ora, se un addebito veramente sostanziale si può muovere all’ige, è proprio quello di essere nata come imposta “generale” e di essere poi diventata, strada facendo, un’imposta “particolare”, a cagione dello stragrande numero di casi, sottocasi, esenzioni, agevolazioni, distinzioni e sottigliezze di cui si è arricchita nel tempo.
     Sembra a noi, quindi, che la vagheggiata, applaudita, desiderata imposta sul valore aggiunto, per la sua complessa struttura (si parla, tra l’altro, di un prospetto mensile più un altro prospetto riepilogativo annuale), non costituirà un rompicapo meno contorto dell’ige, sicché, alla fine, potremmo essere indotti a rimpiangere la via vecchia.
     Queste cose, purtroppo, nessuno si azzarda a dirle, perché chi difendesse l’ige sarebbe accusato di oscurantismo fiscale e chi mettesse in dubbio la bontà dell’imposta sul valore aggiunto sarebbe accusato di ostacolare il progresso. Accuse assolutamente infondate, perché qui non si tratta di fare della filosofia a buon mercato ma di dire al piccolo commerciante, all’artigiano, al piccolo industriale – ed insomma a tutti coloro che non possono permettersi un laboratorio per l’analisi e l’interpretazione delle leggi fiscali – quanto, come e dove pagare una certa imposta. Secondo quei sani principi di Adam Smith, molto celebrati ma poco osservati:

(Da Nuova rivista tributaria giugno 1966)



L’altra volta a Fiumicino per una storia di quadri

     La signora Sophia Scicolone in Ponti, in arte Sophia Loren, rischiò parecchio la sera dell’8 marzo 1977 quando venne avvicinata all’aeroporto di Fiumicino da ufficiali del nucleo speciale di polizia valutaria della Guardia di Finanza. Quella mattina, Sophia, proveniente dall’estero, si era recata presso una banca romana per rilevare un notevole numero di quadri d’autore che una società della quale lei era legale rappresentante vi aveva depositato alcuni mesi prima. Quella stessa mattina, ufficiali del nucleo valutario, che stavano già indagando sulle molteplici attività del dottor Carlo Ponti, si recarono presso la medesima banca e poterono così prendere notizia della visita effettuata qualche ora prima da Sophia. La cosa, in virtù delle indagini in corso, si presentava alquanto sospetta, anche perché l’attrice sarebbe ripartita per l’estero la sera dello stesso giorno.
     Fu cosi che si scatenò una vera e propria caccia al tesoro; e non per modo di dire, visto che il valore dei quadri assommava ad oltre 3 miliardi. Dopo numerose peripezie sulle quali appare superfluo indugiare, i quadri vennero localizzati in un appartamento di Milano. Vi sarebbero rimasti o avrebbero poi preso la via della frontiera? Nessuno può dirlo. Sta di fatto che il sostituto procuratore della Repubblica, dott. Paolino Dell’Anno, che nel frattempo si era materialmente trasferito nell’ufficio del Colonnello comandante del nucleo valutario, redasse un decreto di sequestro che venne trasmesso per fonogramma agli ufficiali che operavano a Milano, i quali provvidero a repertare i quadri nel modo prescritto.
     Tutto questo avveniva nella nottata del giorno 8. Intorno alle 5 del mattino, il magistrato ed il comandante del nucleo valutario poterono finalmente andare a dormire. Non sappiamo che cosa abbia fatto il dott. Dell’Anno nella mattinata del 9; sappiamo, invece, che cose fece il colonnello. Alle ore 8,30 era già seduto dinanzi alla scrivania del comandante generale, il quale aveva come giudice a latere il capo di stato maggiore, per raccontare «per filo e per segno» tutto ciò che aveva fatto nel pomeriggio, nella sera e nella notte precedenti. L’ufficiale avviò un racconto dettagliato ma, ad un certo punto, fu impreciso. «Potevano essere le 4 o le 4 e mezzo di ieri pomeriggio», disse, ma fu subito interrotto. «No, devi essere preciso, erano le 4 o le 4 e mezzo?». Più avanti l’ufficiale riferì del decreto di sequestro emesso dal magistrato e trasmesso a Milano via filo; ma gli fu violentemente contestata la procedura, perché si sarebbe dovuto trasmettere a Milano il decreto in originale. Quasi che i mezzi di telecomunicazione non venissero adoperati non solo per adempimenti procedurali ma addirittura in guerra, dove la posta in gioco è ben più alta.
     Il fatto, poi, che quel comandante generale si chiamasse Raffaele Giudice e quel capo di stato maggiore Donato Loprete costituisce elemento puramente accidentale del racconto giacché chiunque altro, al loro posto, non avrebbe potuto probabilmente fare altrimenti. Infatti quando si muovono le forze scatenate della raccomandazione, non v’è chi possa resistervi.
     Ma, nel caso della Loren, chi le aveva mosse? Nel mentre avveniva la caccia al tesoro, Sophia, come abbiamo già ricordato, era stata discretamente avvicinata all’aeroporto di Roma dove stava per imbarcarsi su un volo internazionale, da due ufficiati del nucleo valutario, i quali le avevano chiesto delucidazioni sull’operazione bancaria compiuta nella mattinata. Poi, ad un certo punto, l’ex pizzaiola aveva fatto alcune telefonate. Non si sa a chi ma non è difficile intuirlo.
     La signora Ponti si era recata presso la banca in qualità di legale rappresentante di una società; ma abbiamo la sensazione che di questa ignorasse non diciamo l’esistenza ma certo la reale attività.
     Sophia, infatti, è rimasta una popolana napoletana, nel senso migliore dell’espressione. Aveva la vocazione di attrice ed è riuscita nel suo intento, a prezzo di notevoli sacrifici personali, come è dimostrato dal faticoso studio delle lingue e dalla trasformazione stilistica che in lei è avvenuta. Ma ci rifiutiamo di credere che sia una donna d’affari o una mestatrice. Qualcuno deve averle detto «firma qua e sottoscrivi là» e lei ha eseguito per fiducia, per amore, per incompetenza. Poi le sono piovuti addosso i guai, da lei certamente non previsti. È anche verosimile che le abbiano fatto credere di essere entrata a far parte di un mondo nel quale tutto si può, basta alzare la cornetta del telefono. E poi non ci sono gli esperti per cavare fuori dai guai?
     Ed intanto questa donna che conserva le caratteristiche genuine, spontanee ed anche ingenue della sua terra nonostante il vorticoso ritmo di vita impostole dalla professione, viene rinchiusa in carcere per evasione fiscale.
     In questo Paese lastricato, come l’inferno, di buone intenzioni, si parla e si riparla di abolire la pregiudiziale tributaria. Si tirano fuori dal cassetto progetti di legge a ripetizione, forse proprio per provocarne l’affossamento. Basti ricordare che uno di questi progetti prevedeva un esame di diritto tributario per l’accesso alla magistratura, con ciò intendendo assicurare la competenza del magistrato in una materia che richiede ben altro impegno. Cose risibili, come scrisse il presidente dell’associazione dei magistrati.
     Ebbene, in questo Paese, Sophia va in galera per evasione fiscale. Se avesse varcato la soglia del carcere Nunziatina Esposito nessuno se ne sarebbe accorto. Ma Sophia ha richiamato su di sé e sull’Italia l’attenzione del mondo, come già accadde per l’episodio di Fiumicino. E quello stesso mondo che rimase ammirato per l’impresa della liberazione del generale Dozier, credendo che l’Italia fosse un Paese in cui tutto funziona, ora resterà ammirato perché l’Italia è un Paese che non guarda in faccia a nessuno e che mette realmente in galera per evasione fiscale. Se, come è probabile, i liberatori di Dozier hanno avuto un premio, è giusto che un premio vada anche a Sophia.

(Da Il Sole 24 Ore del 21 maggio 1982)



Superispettori, addio

     Nella nuova alluvione normativa recata dalla “manovra d’estate” c’è una disposizione, all’art. 45, che mi ha fatto tirare un sospiro di sollievo: è quella che sopprime il Secit.
     Per anni, al solo leggere o sentire questa sigla, mi è venuta l’orticaria, che ora, grazie a Dio, se n’è subito andata. Mi è anche tornato in mente un vecchio adagio credo cinese: “Siedi sulla riva del fiume, vedrai passare il cadavere del tuo nemico”. Nemico mio il Secit, ma come, ma perché?
     Tutto cominciò il 29 settembre 1979, allorquando il Consiglio dei ministri approvò il disegno di legge per la finanziaria 1980. Leggendo l’art. 8 di tale documento, mi vennero le traveggole. Veniva proposta la istituzione del “Servizio generale degli ispettori di finanza” con il compito essenziale di eseguire verifiche e controlli o di intervenire in quelli in corso di esecuzione da parte dell’amministrazione finanziaria civile e militare e di quella previdenziale; di esaminare i risultati dell’attività svolta dalle medesime amministrazioni: di formulare proposte al presidente del Consiglio in merito ai programmi di verifiche sempre delle stesse amministrazioni. Il nuovo servizio sarebbe stato composto da 50 ispettori, 100 consulenti e 100 impiegati. Bene, cosa c’era di strano? Per me, se le cose fossero state in questi termini, nulla, se non il prendere atto che si sarebbe creato un doppione con gli ispettori di finanza già in organico e con tutti i controllori da sempre previsti nell’organico della Guardia di finanza. Ma le disposizioni che mi provocarono l’orticaria furono quelle concernenti il trattamento economico degli appartenenti al nuovo servizio: agli ispettori, sarebbe andata una indennità pari a quella spettante ai componenti della Consob ed agli impiegati un premio di produzione in base all’attività svolta o dei risultati conseguiti in misura non superiore alla metà del rispettivo stipendio. Il trattamento economico venne addirittura migliorato nel corso dei lavori parlamentari nel senso che agli ispettori venne assicurato lo stipendio di dirigente generale più una “speciale indennità di funzione di importo pari allo stipendio di dirigente generale di livello C” (art. 12 della legge 24 aprile 1980, n. 146). Agli impiegati, diventati 200 per sostituire i 100 consulenti nel frattempo cancellati, veniva assicurata una “speciale indennità di funzione” pari al 50 per cento dello stipendio percepito, senza più alcun collegamento con l’attività effettivamente svolta e con i risultati conseguiti. Insomma, a tutti una vera e propria rendita di posizione.
     Ora è il momento di dire che, al tempo in cui il Parlamento era chiamato ad occuparsi di questo servizio, gli stipendi dei funzionari erano davvero risibili. Il direttore di un importante ufficio delle imposte dirette con 34 anni di servizio e qualifica di dirigente da 12 anni aveva in busta paga lire 1.486.664 , come misi in evidenza a pag.1050 del 1985 di questo Bollettino. Con quale animo un tale funzionario poteva ricevere nel suo ufficio un superispettore con uno stipendio incomparabilmente superiore al suo? E che cosa dire di tutti gli altri funzionari ed impiegati che non avevano avuto la fortuna di essere assegnati al Secit?
     Negli anni in cui sono stato redattore capo de Il finanziere, allora ed oggi organo ufficiale della Guardia di finanza, compilavo per ogni numero una rubrica dedicata ai temi di attualità. All’indomani di una dimostrazione operaia a Torino, nel corso della quale i dimostranti avevano lanciato contro le forze dell’ordine l’invettiva di “Morti di fame”, fui indotto ad affrontare lo scottante problema degli stipendi e delle paghe – siamo all’inizio degli anni sessanta e la situazione era ancora peggiore di quella degli anni ottanta – e, com’è ovvio, tentai di sottolineare che la fedeltà alle Istituzioni comportava anche sacrifici, la capacità di adattarsi, di affrontare con coraggio e serenità anche privazioni, pur di non deflettere dalla retta via. Non avevo inventato nulla. Cercavo soltanto di trasmettere l’insegnamento di mio padre che, a capo di una famiglia con moglie e cinque figli, che aveva vissuto bene con due stipendi (mia madre insegnava) si era poi visto spiazzato dalla guerra e dalla carestia che l’aveva accompagnata e seguita. Ebbene, mio padre ci insegnava la dignità delle “pezze nel sedere” se a queste si dovesse far ricorso per mantenere alta la testa. Probabilmente, oggi si riderebbe di fronte ad insegnamenti di questo genere ma allora nessuno di noi sorrise e credo che tutti abbiamo fatto tesoro di quelle parole. Ripeto, scrivendo quell’articolo per Il finanziere non avevo inventato nulla. Ricordo, però, che dopo qualche giorno ricevetti una lettera, molto cortese e corretta, nella quale, pur recependo il mio messaggio, veniva sottolineata la difficoltà di portare aventi una famiglia con stipendi di mera sopravvivenza.
     Questi sono i motivi di fondo per i quali io insorsi subito contro l’istituzione del servizio, cominciando, già all’indomani della presentazione del disegno di legge, una vera e propria campagna di stampa e verbale, condotta su quotidiani, periodici e congressi, e durata anni, contro il Secit, acronimo di Servizio centrale degli ispettori tributari, denominazione che aveva sostituito quella originaria del disegno di legge. La mia fiera opposizione venne poi avvalorata dagli atti parlamentari, dai quali risulta che il trattamento economico dei superispettori rispondeva alla necessità di “metterli al riparo dal ricatto della corruzione”. Questo significa che il ministro proponente sapeva bene che uno stipendio inadeguato non mette al riparo da tale ricatto e che cosa fa? Invece di provvedere nel modo logico, crea un gruppo di privilegiati, di supercontrollori, di intoccabili?
     Devo dire che combattei la mia battaglia in ottima compagnia (mi limiterò a citare Giovanni Spadolini, Bruno Visentini e Marco Vitale) ma il Parlamento, pur dopo aspri contrasti che causarono addirittura lo slittamento dell’approvazione della legge finanziaria, approvò l’istituzione del servizio, che ha avuto vita per circa trent’anni, a dimostrazione di come l’estirpazione degli enti inutili (anche se utili ai loro appartenenti) sia opera difficilissima in questo Paese.
     Ma aveva comunque funzionato il Secit? Non credo, se è vero che nel 2001, le sue funzioni vennero drasticamente ridimensionate. Una vera e propria caduta agli inferi, come è dimostrato dal fatto che l’acronimo Secit restò ma significò soltanto “Servizio consultivo e ispettivo tributario”. Una sorta di organo di consulenza e di studio, anche se di lusso, e non più quel totem onnipotente e teocratico di un tempo. Non si ebbe il buonsenso di andare sino in fondo, sopprimendolo, come avevo auspicato sin dal 1990 (pag. 670 del Bollettino).
     Ora che finalmente l’evento si è verificato, non c’è da versare neppure una lacrima.

(Da Bollettino tributario d’informazioni n. 18 del 2008)



La legge del contrappasso fiscale

Caro Lettore,
     se Dante Alighieri fosse stato al corrente di quanto sto per esporre, probabilmente mi avrebbe collocato in un girone infernale in applicazione della sua legge del contrappasso. Come forse Lei già sa, io ho speso la mia vita professionale nell’amministrazione finanziaria militare, per cui, in adempimento dei miei doveri, ho certamente causato a dir poco patemi d’animo in un numero imprecisato di persone.
     Bene, che cosa ha fatto il Fisco? Lungi dall’essermi grato per lo svolgimento di un compito ingrato, si è prodigato, in una sorta di applicazione del contrappasso, per darmi patemi più o meno paralleli a quelli da me provocati. Con una fondamentale differenza, però: i patemi da me provocati avevano quasi sempre fondamento in comportamenti non leciti; i patemi a me provocati, viceversa, non hanno avuto fondamento alcuno.
     La faccenda è antica, nel senso che cominciò alla fine degli anni cinquanta, allorquando fui trasferito a Roma. Presi in fitto un appartamento che aveva molte belle qualità, tranne una: costava troppo per le mie tasche. Perciò, quando mi venne assegnato un alloggio Incis (Istituto nazionale case impiegati statali), fui ben lieto di trasferirmi e, naturalmente, comunicai al comune la variazione di domicilio. Qualche tempo dopo, mi giunse un avviso di accertamento per l’imposta di famiglia. Questo tributo che probabilmente Lei o ha dimenticato o, se di giovane età, non ha mai conosciuto, era uno degli obbrobri dell’imposizione tributaria, anche perché si sussurrava che veniva adoperato come arma di ricatto da parte di sindaci di pochi scrupoli. Esso colpiva “l’agiatezza della famiglia desunta dai redditi o proventi di qualsiasi natura e da ogni altro indice apparente di agiatezza”. Leggendo l’avviso, mi avvidi che la base imponibile era raddoppiata rispetto a quella solita. L’avviso non recava alcuna motivazione, per cui mi recai presso l’apposito ufficio comunale, dove colloquiai con un omino dalla voce stridula. Costui, preso il mio fascicolo, mi comunicò che, avendo io cambiato domicilio, avevo dunque acquistato una casa per cui, essendo evidentemente aumentato il mio reddito, l’ufficio comunale aveva provveduto a raddoppiare la mia agiatezza. Quando gli spiegai che avevo cambiato domicilio per risparmiare sul fitto e non perché avessi aumentato le mie disponibilità finanziarie, l’omino, senza battere ciglio, mi disse: “Allora faccia ricorso”.
     Io ho sempre sostenuto, verbalmente e per iscritto, in pubblico ed in privato, che le commissioni tributarie sono “organi giurisdizionali da operetta”. Ma Lei non sa cos’erano le commissioni per la finanza locale: organi da opera dei pupi. Quando ci fu la discussione del mio ricorso, io andai munito del contratto di locazione Incis ma chiesi alla commissione di non costringermi ad esibirlo in base al principio generale sull’onere della prova. Infatti, argomentai, il comune mi accusa di avere raddoppiato la mia agiatezza senza farne denunzia per l’imposta di famiglia. Poiché il comune accusa, è al comune che compete provare. Venni guardato non so se come un extraterrestre o come un invasato, per cui fu giocoforza esibire il contratto pur tra fremiti di rabbia.
     Molti anni dopo, una casa a Roma la comprai veramente, insieme con mia moglie. Sennonché, un mese prima di andarla ad abitare, mi trasferirono di sede, per cui la concessi in locazione. Registrai, ovviamente, il relativo contratto. Qualche anno dopo, mi venne notificato un avviso di accertamento perché il reddito da locazione che avevo indicato nel mio 740 era la metà del canone annuo risultante dal contratto. Prendendo gli opportuni contatti, mi fu facile dimostrare che l’altra metà stava nel 740 di mia moglie. D’altro canto, precisai, quel brav’uomo che ha redatto l’avviso di accertamento è, a dir poco, distratto, perché nel quadro degli immobili c’è scritto chiaramente che io sono proprietario al 50 per cento e quindi sarebbe stato sufficiente incrociare i dati per vedere dove stava l’altra metà del reddito. Giusto, mi fu detto, l’errore non si ripeterà più. Invece si ripetette l’anno seguente, e poi l’anno successivo e poi l’altro ancora e tutte le volte vai all’ufficio, parla con questo e con quello, chiarisci, precisa. Il quarto anni persi la pazienza e scrissi al Ministro delle finanze, che in quel momento era Visco: me li toglie lei questi qui dai piedi o devo andare con un manganello? Devo dire che Visco intervenne e mi furono risparmiati ulteriori fastidi.
     Sempre per effetto del lavoro da me svolto, non ho nemmeno pensato di nascondere nulla al fisco non solo per un fatto deontologico ma anche, e forse soprattutto, per non sentirmi dire da qualcuno: “Ma come, proprio lei...”. Ebbene, un giorno anche questo mi è capitato. È venuto un tizio dell’azienda della riscossione, col ditino alzato in segno di rimprovero, per pignorare qualcosa. Era un altro errore che aveva commesso il Fisco, in relazione al quale avevo già fatto valere le mie ragioni ed ottenuto il provvedimento di sgravio. Ma a causa di non so più quale altro disservizio, il provvedimento non era giunto all’esattore che quindi era passato addirittura alla fase esecutiva. Naturalmente, la bolla di sapone di sgonfiò, ma a spese del mio fegato.
     Da qualche anno in qua, a causa della mia distrazione che mal mi faceva digerire il labirinto del 740, mi sono rivolto ad un Caf al quale presento il 730 compilato con tutti i documenti giustificativi, in modo tale che il Fisco, all’occorrenza, li può chiedere all’ente evitandomi fastidi. Bene, qualche mese fa giunge a mia moglie una cartella di pagamento per un importo piuttosto rilevante per imposta non pagata, sanzioni, interessi e quant’altro. La cartella non era stata preceduta da nessun altro atto, per cui la situazione risultava davvero enigmatica. Riassumo. Il fisco aveva chiesto al Caf i documenti giustificativi degli oneri deducibili, il Caf non aveva risposto, per cui erano stati sottoposti a tassazione tutti i predetti oneri. Dopo aver ottenuto l’annullamento della cartella in seguito alla diretta presentazione dei documenti, rivolgo al Caf le mie più che giustificate proteste. Ma il Caf mi fa avere la fotocopia della ricevuta di consegna dei documenti al fisco. E da chi è firmata la ricevuta? Dalla stessa persona che aveva proceduto all’iscrizione a ruolo.
     Intendiamoci, anche il Caf talvolta mi rema contro, come quell’anno che non aveva copiato i redditi per diritti d’autore che io avevo correttamente indicato nel mio 730. Per fortuna, se n’era accorto in tempo per presentare il 740 di rettifica, dopo avermi posto dinanzi al dilemma se pagare in ritardo e con sanzioni o far finta di niente. Naturalmente, ho pagato, anche se la sanzione, devo dire, me l’ha rimborsata il Caf.
     La prossima volta che nasco, invece che dare la caccia all’evasore, farò io stesso l’evasore. Così non sarò costretto ad incrociare sulla mia strada quel mostro orribile, ignoto alla zoologia e tuttavia vivente, che ha nome Fisco.

(Da Bollettino tributario d’informazioni n. 22 del 2008)



Evasori, in carrozza!

Caro Lettore,
     questa mattina ho avuto una visione. In una grande stazione ferroviaria, che poteva essere quella di Roma o di Milano, c’era fermo ad un binario un treno lunghissimo ma assolutamente vuoto, così come del tutto vuoto era il marciapiede che correva lungo il treno. All’altezza della locomotiva, c’era Vincenzo Visco con tanto di cappello da capostazione e paletta in mano. Aveva il viso truce, ossia “faceva ‘a faccia feroce”, come diciamo noi a Napoli. Era una scena direi felliniana, un’atmosfera immobile, rarefatta.
     Poi, improvvisamente, tutto è cambiato. Una folla di persone che, fino a quel momento, aveva sostato dietro le transenne, ha invaso il marciapiede ed ha letteralmente preso d’assalto il treno, nel mentre il capostazione salutava tutti allegramente. Ma il capostazione non era più Vincenzo Visco, era diventato Giulio Tremonti. Solo in quel momento, sono riuscito a leggere la tabella che sulla locomotiva faceva bella mostra di sé: “Treno degli evasori fiscali”.
     A questo punto mi sono stropicciato gli occhi ed ho di nuovo messo a fuoco l’immagine di un tizio che, in una trasmissione televisiva del primo mattino, annunziava che, con questo Governo, “è ripartita l’evasione fiscale”.
     Era il 1° dicembre 1949 quando, con l’ingresso nell’Accademia della Guardia di finanza, ho cominciato ad occuparmi di evasione fiscale e direi che, per un motivo o per l’altro, non ho mai smesso. Ritengo, pertanto, di avere qualche numero in più di tanti imbonitori che si presentano in televisione, o altrove, o magari scrivono sulla gazzette, e discettano di evasione fiscale. Non so se hanno già interrogato sul punto anche Alba Parietti, la tuttologa de noartri, come dicono a Roma, ma, se non l’hanno ancora fatto, di certo lo faranno.
     Io so per esperienza che c’è forse una cosa sola che si può fare in un lampo: accendere o spegnere una lampadina. Ecco, l’energia elettrica può andare e venire. Anche l’acqua del rubinetto può andare e venire, basta azionare il marchingegno. E forse ci sono anche altre cosa del genere che in questo momento non mi vengono in mente. Ma potrei mettere la mano sul fuoco che l’evasione né parte, né riparte, né si ferma, né toglie od aggiunge gettito con la prontezza con cui l’energia elettrica giunge alla lampadina o l’acqua sgorga da rubinetto.
     Potrei addurre molti esempi ma mi limito, per brevità, ad uno solo. Una ditta romana che operava nel campo della compravendita di autoveicoli aveva creato in Italia uno stabilimento per assemblare parti staccate di autovetture di una fabbrica straniera che muoveva i primi passi nel nostro Paese. Ma la fabbrica aveva imposto di procedere essa stessa, nella sua sede, all’assemblaggio del motore che di un’autovettura costituisce, è ovvio, la parte principale. Per la vendita delle parti staccate la casa automobilistica aveva emesso quattro serie di fatture riferibili al “gruppo motore”, alla “carrozzeria”, agli “accessori”, all’“assistenza tecnica”. Tale ultima serie si riferiva all’assemblaggio del motore. In dogana, però, l’importatrice aveva esibito soltanto le prime tre serie di fatture sul cui importo complessivo venivano calcolati i tributi. A mio parere, invece, in dogana doveva essere presentata anche la quarta serie, in quanto la legge allora vigente tassava il “valore in dogana” e non c’è dubbio che a tale valore contribuisse anche la quarta serie di fatture. La questione finì ovviamente dinanzi ai giudici ma la Cassazione accolse la tesi della polizia tributaria ed accertò l’esistenza della contravvenzione. Il verbale era del 13 aprile 1965, la sentenza della Cassazione del 24 febbraio 1967. Che cosa significa? Che ci vollero due anni circa per far cessare l’evasione. Due anni coi i tempi di allora, oggi ne occorrerebbero molti di più.
     Si potrebbe osservare che non tutte le contestazioni sono così complicate da richiedere tre gradi di giurisdizione ma non è così, perché – essendosi diffusa la convinzione, dovuta a tutta la legislazione premiale, che è meglio non pagare oggi ciò che si può non pagare domani – si muovono contestazioni anche per le bazzecole, il che significa che i soldi verranno incassati se e quando Dio vorrà.
     Ma, in aggiunta a queste considerazioni di carattere tecnico, ve n’è una di carattere generale. A costo di ripetermi, devo riferire ciò che ha scritto Luigi Einaudi dopo aver fatto visita ad un suo amico. Da una grande casa posta al di qua del confine elvetico egli mostrò una piccola casa posta al di là e disse allo statista: “Per questa grande casa, io pago in Italia poche tasse, nel mentre per quella piccola casa ne pago molte di più. Ma sono contento di pagarle, perché lì vedo l’uso che si fa dei miei soldi, a differenza di ciò che avviene qui”. È cambiato qualcosa da allora? Direi proprio di no.
     E, senza ambasce, bisogna dire anche un’altra cosa. La demagogia della quale negli ultimi anni si è fatto uso ed abuso, non ha certo migliorato il quadro. La verifica della quale ho sopra riassunto i risultati durò un ben lungo periodo di tempo, perché furono necessari accertamenti presso spedizionieri ed altri operatori economici in mezz’Italia. Sarebbe possibile una procedura del genere oggi, con la demagogica limitazione della durata della verifica e con tutti gli altri lacci e lacciuoli che sono stati imposti ai verificatori? E, ancora, è stata veramente curata come si converrebbe la professionalità dei verificatori, con adeguati approntamenti didattici e sussidi culturali, assolutamente indispensabili per un’attività di alta specializzazione? La mia personale convinzione è che oggi ci si affidi troppo alle macchine, intendo ai computer, e molto poco all’uomo.
     E, allora, per quanti sforzi si faccia, non si riesce a prendere sul serio tutti coloro che pensano che la lotta all’evasione sia come aprire il rubinetto dell’acqua o girare l’interruttore della luce. La verità la disse già una volta Bruno Visentini, che era una persona seria: “Il partito degli evasori è da sempre il partito del dilettantismo e dell’improvvisazione”. Queste parole vennero scritte nel 1979. Trent’anni non sono stati sufficienti per far rinsavire gli imbonitori.

(Da Bollettino tributario d’informazioni n. 6 del 2009)



Fiscal story

Caro Lettore,
     Lei la ricorda l’I.S.I.? Imposta straordinaria sugli immobili, uno di quei tanti balzelli partoriti da un fisco tanto famelico quanto fantasioso. In quell’occasione, però, ci fu un fatto positivo. A tutti i proprietari di immobili pervenne un documento ufficiale con l’indicazione della rendita catastale e l’importo da versare. Io adoperai tale rendita catastale per calcolare irpef ed ici dovute da mia moglie su una casetta in quel di Massa Lubrense, un ridente paesino della penisola sorrentina. Dopo qualche anno, venne recapitato un avviso di accertamento del comune, per insufficiente pagamento dell’ici. La questione fu presto chiarita, perché il comune non aveva conteggiato il secondo versamento per quell’anno, che viceversa era stato regolarmente e tempestivamente effettuato. Ma, nell’occasione, mi accorsi di un’altra cosa. Il comune indicava un ammontare di imposta, per l’intero anno, inferiore a quello che io avevo versato anche negli anni precedenti. Naturalmente, cercai di chiarire la stranezza, e così venni a sapere che, a seguito di opposizione fatta dal comune, le rendite catastali di tutto il territorio comunale erano state ridotte. Sorgeva, dunque, il diritto al rimborso sia dell’ici sia dell’irpef pagate in più.
     Rimaste senza esito le istanze di rimborso ritualmente presentate, fu giocoforza rivolgersi agli organi giurisdizionali da operetta, ossia alle commissioni tributarie. Il comune, appena appreso del ricorso cosiddetto giurisdizionale, trovò i soldi che il suo tesoriere aveva ripetutamente affermato di non avere e la questione si chiuse lì.
     Ben diverso percorso ebbe il ricorso per il rimborso irpef. Alla cosiddetta udienza, esposi il caso, peraltro semplicissimo e i commissari annuirono. Uno, che evidentemente non aveva nemmeno letto le carte, mi chiese se ci fossero gli estremi per la difesa personale, ossia senza patrocinio di un professionista. Venni quindi licenziato. Grande fu naturalmente la mia sorpresa quando lessi nella decisione (mi rifiuto categoricamente di chiamarla sentenza, al massimo potrei ritenerla un lodo arbitrale) che il ricorso era respinto perché non avevo dato la prova di aver pagato l’irpef.
     Ora, non voglio qui scomodare concetti alati come lo Statuto del contribuente, i poteri istruttori degli organi da operetta et similia. Nemmeno intendo discettare sulla necessità di produrre documenti che sono già in possesso della controparte. E nemmeno voglio insistere sul fatto che, non essendosi costituita l’Agenzia delle entrate, l’organo predetto ha assunto d’ufficio la supposta carenza di prova. Mi limito a considerare che sarebbe stato sufficiente rinviare l’udienza dicendomi di andare, alla successiva, munito delle dichiarazioni. D’altra parte, si può ipotizzare un imbecille che chiede il rimborso di un tributo che non ha pagato? Ma l’organetto (diminutivo di organo) non andò per il sottile e respinse il ricorso.
     Quindi, dovetti ricominciare tutto daccapo: scrivere un nuovo ricorso, stigmatizzare l’operato dell’organetto, notificare, spendere comunque soldi e fatica. L’organo superiore (diciamo, l’organone), bontà sua, accolse il ricorso e condannò il fisco al rimborso più interessi. Decisione alla mano, vado all’Agenzia delle entrate e dico: mi date ‘sti soldi? Non ci sono fondi, è la risposta. A questo punto devo decidere: notificare la decisione o attendere che diventi inoppugnabile per il decorso del tempo? Decido per questa seconda soluzione, per evitare ulteriori fastidi. Divenuta definitiva la decisione, “metto in mora” l’amministrazione ma è come parlare al vento.
     In casi del genere, per smuovere le acque, bisogna instaurare un nuovo giudizio, che si chiama “di ottemperanza” e si attua presso gli stessi organini (diminutivo di organi) giurisdizionali da operetta. Ossia, occorre provocare l’emissione di un altro documento che ordini all’amministrazione di “ottemperare” al primo. Bizantinismi? Certo, ma o ti mangi questa minestra o ti butti dalla finestra.
     Andiamo alla riunione, impropriamente chiamata udienza, del giudizio di ottemperanza. I commissari dicono: ma come, il fisco non si è fatto vivo? Nossignori, il fisco non si è fatto vivo. Bene, dice il presidente, notifichiamo al fisco un’ordinanza e diamogli sessanta giorni, anzi no novanta giorni, per provvedere.
     Ma il fisco non provvede, sicché, alla riunione successiva, il presidente vuole limitarsi a dichiarare l’esecutività del provvedimento di secondo grado. Ma come, dico io, perché non nomina un commissario ad acta? Senza commissario, dovrei io accollarmi una serie di adempimenti ma mi bastano quelli già sopportati. Così il presidente si convince e nomina il commissario in persona del direttore regionale (lui diceva direttore generale) delle entrate. Poi quantifica anche il debito per rimborso irpef, interessi ed aggiunge 200 euro per spese. Penso che se il presidente chiamasse a casa sua un falegname, o un idraulico, o un elettricista, forse pagherebbe anche il “diritto di chiamata”. Vedo che la mia attività svolta nel corso di anni “vale” 200 euro, ma mi sta bene. Come diceva Mina? L’importante è finire.
     Ma non era finita, perché oggi è giunta la comunicazione dell’Agenzia delle entrate: bisogna andare all’esattoria per riscuotere irpef ed interessi. Delle spese non v’é traccia. Di certo, non mi impegnerò in un’ altra impresa per pretendere le spese.
     In casi come questi, mi torna alla mente un episodio di tanti anni fa. Viaggiavo su un rapido Napoli-Roma. Oggi il rapido non c’è più, sostituito dall’eurostar e poi dalla (cosiddetta) alta velocità. Insomma, era un treno che non doveva fare nessuna fermata intermedia ma che invece si fermò in aperta campagna. Alcuni viaggiatori impazienti, tra i quali il sottoscritto, si riunirono nella piattaforma della carrozza per cercare di avere notizie dal capotreno. Ma, essendo i telefonini di là da venire, nemmeno il capotreno sapeva nulla. Così cominciammo a parlar male di questo e di quello, perché materia del contendere ce n’è sempre stata. Un signore, però, non partecipava al chiacchiericcio, se ne stava silenzioso, appoggiato alla parete. Io pensavo tra me e me: chissà quali giudizi negativi su noi ciarlieri questo qui starà tranciando e un po’ mi sentivo mortificato di partecipare a quel canto corale di critiche. Ad un certo punto, però, il signore silenzioso dette chiari segni di voler parlare. Allora noi tutti ci facemmo silenziosi e lo ascoltammo sillabare le seguenti testuali parole: “Questo è un paese di merda”.

(Da Bollettino tributario d’informazioni n. 12 del 2009)



Il Comandante generale della Guardia di finanza

     A norma dell’art. 4 della legge 23 aprile 1959, n, 189, “il comandante generale della Guardia di finanza è scelto tra i generali di corpo d’armata dell’esercito”.
     Sarà bene ricordare che la Guardia di finanza, nata circa due secoli fa più o meno come guardia di confine, ha visto via via estesa la sua competenza a settori e forme di intervento che richiedono specializzazione e preparazione professionale sempre più vasta e selettiva ad un tempo.
     Uguale specializzazione e selettività richiede, ma in un campo completamente diverso, la guerra moderna o, meglio, l’addestramento alla guerra moderna.
     Costituisce allora un mistero la via attraverso la quale un uomo, il quale ha dedicato tutta la sua vita a specializzarsi in un settore, possa, dalla sera alla mattina, trasformarsi nel capo di un organismo del quale non conosce nulla.
     Tutti si guarderebbero bene dall’affidare ad un bravo ingegnere un’operazione di appendicite ma nessuno si meraviglia che sia chiamato ad interessarsi di polizia tributaria, di polizia giudiziaria, di polizia valutaria eccetera, una persona fino a quel momento esperta di impiego di bersaglieri o carri armati o di guerra in montagna.
     Affiorano alcuni interrogativi. Perché comandante generale del Corpo non potrebbe essere un ammiraglio o un generale di aviazione? Dopotutto, la Guardia di finanza ha una robusta flottiglia sia navale sia aerea. E perché capo di stato maggiore dell’esercito non potrebbe essere un generale della Guardia di finanza?
     Altro interrogativo. Quando capita alle Finanze (o se dovesse capitarci) un ministro designato non per la sua competenza ma in applicazione del manuale Cencelli ed al quale, pertanto, occorre spiegare la differenza tra imposte (tributi) ed imposte (chiusure di porte e finestre), quali argomenti di conversazione avrà questo ministro con il generale dell’esercito capo della Guardia di finanza? Vero è che, traendo partito dal fatto che il Corpo deve interessarsi anche, sia pure in via accessoria, delle leggi sulla caccia e sulla pesca, i due potrebbero pur sempre discutere di fagiano arrosto o di anguille al cartoccio. Ma in quale angolino andrebbero a nascondersi la “professionalità” della quale si fa un gran parlare?
     Lo stesso art. 4 della legge sopra indicata statuisce che “il comandante generale è coadiuvato nell’esercizio delle sue funzioni ed è sostituito, in caso di assenza o d’impedimento, dal comandante in seconda, che attende, anche, in particolare, alla trattazione degli affari che gli vengono delegati dal comandante generale. Assume la carica di comandante in seconda il generale di divisione più anziano della Guardia di finanza”.
     La fumosità del dettato legislativo è palese. “Coadiuvare” significa tutto e niente, soprattutto quando il coadiutore deve poi occuparsi di “affari delegati”. E se un giorno o l’altro capita un comandante generale che non delega un bel niente? Vero è che il comandante in seconda potrebbe pur sempre dedicarsi alla caccia o alla pesca (ovviamente, nel senso di diventare cacciatore o pescatore, visto che, per ipotesi, nemmeno le relative funzioni gli sarebbero state delegate). Ma in tal modo, nel mentre un novizio diverrebbe capo della polizia tributaria, il più anziano e, si presume, il più esperto ufficiale di polizia tributaria verrebbe, di fatto, mandato a spasso. In base alla legge.

(Dalla Prefazione all’opera “Violazioni e sanzioni delle leggi tributarie”, Giuffrè editore, Milano 1981)

P.S. – Per effetto della legge 3 giugno 2010, n. 79, attuale Comandante generale della Guardia di finanza è un generale del Corpo e non più dell’Esercito.



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