Resti tra noi



Annotazioni minori, spunti a margine, riflessioni
estemporanee, pensieri non pensati, righe in punta
di penna. Cose scritte anche molti anni fa, che sembrano
avere il sapore dell’attualità. Senza null’altro a pretendere,
avrebbe detto il mio amato Totò.


Giuseppe


Benvenuto ad un neonato

     Siamo accanto alla culla di un bambino. I passi che avvicinano ad una culla sono il più bel viaggio che mente di inviato speciale possa escogitare, perché portano dinanzi ad un mondo tutto nuovo, che la più agguerrita scienza non è riuscita ad esplorare. Ancora oggi, infatti, dopo che per millenni il miracolo della nascita si rinnova senza posa in tutti gli angoli della Terra – e, chissà, forse anche di altri pianeti – noi sappiamo il “come” di quel miracolo, ma ne ignoriamo il “perché”. Ci vengono ora in mente talune prove eseguite in laboratorio e che, tempo fa, destarono tanto scalpore. Però esse, se, da un lato, sono la prova dell’infaticabile ricerca dell’uomo verso la scoperta della verità e, quindi, di se stesso, costituiscono tuttavia la testimonianza dell’inanità degli sforzi di fronte ai più sacri misteri della natura. Probabilmente, l’intelligenza dell’uomo ha un limite ben segnato al di là del quale c’è la scoperta dell’essenza della vita. Può anche essere verosimile che questa scoperta avverrà alla vigilia della fine del mondo, vale a dire nel momento in cui l’uomo, espressione dell’umanità, avrà percorso tutto il cammino che gli è dinanzi e si sarà reso degno di congiungersi al suo Creatore. In quel momento, forse, saranno sciolti i nodi che ora l’attanagliano e gli sarà chiarito non più soltanto il “come” ma anche il “perché” del creato, del giorno e della notte, del bene e del male, della vita stessa.
     Per ora contentiamoci di rimirare l’oggetto del miracolo che si rinnova, anzi, il miracolo stesso: un nuovo uomo che, nello stesso momento in cui è venuto alla luce, ha dovuto sperimentare una delle più elementari leggi che regolano la nostra esistenza: lavorare per respirare, per mangiare, per vivere. La fatica di quest’uomo è cominciata, come quella di tutti gli uomini, con un trauma dovuto al passaggio ad una esistenza di lavoro da una di tutto riposo. Sappiamo dalla scienza che questo trauma lascerà in lui tracce indelebili e noi vorremmo che esse consistessero nella coscienza della serietà e dell’impegno della vita. Vorremmo che egli si presentasse alla ribalta del mondo non come un turista venuto a trascorrere un po’ del suo tempo tra gli uomini, ma come un essere consapevole della sua dignità e delle sue possibilità. Dignità derivante dalla presenza di un’anima, alla quale il corpo è stato dato perché potesse servire da strumento per il suo perfezionamento. Possibilità che derivano dall’armonico impiego di tutte le facoltà, per contribuire, in misura piccola o grande non importa, purché il contributo sia senza riserve, al cammino dell’umanità verso le mete assegnatele dal Creatore.
     Questi, a nostro avviso, sono i presupposti per trasformare la nostra vita da un vano alternarsi di sentimenti, occupazioni e preoccupazioni in un proficuo campo di semina; da un insieme di atti fini a se stessi in un complesso di azioni destinate a durare; da un circense sfoggio di abilità in un severo impegno di energie.
     È per questo che amiamo ricordare tali presupposti e sperare che essi si attuino in tutti gli uomini. Se ciò avvenisse, gli stessi più gravi problemi che oggi rendono inquiete le nostre genti – quello della pace e quello dei mezzi di sostentamento – potrebbero essere superati, per tacere degli altri di minore importanza che si annullerebbero nella ritrovata armonia dell’umanità, tesa al conseguimento dei suoi fini e non distratta da contingenze terrene.
     Può darsi che in questa visione ci sia un pizzico di utopia. Però noi crediamo che l’utopia sia un’invenzione degli uomini, creata apposta per fare da paravento alla loro cattiva volontà. Perciò, è proprio questa la visione che vogliamo avere per dare il benvenuto a questo novello uomo ed tutti gli altri figli di uomini. Che l’avvenire riserbi loro un mondo pulito, onesto, serio. Che essi stessi siano in grado di contribuire all’evoluzione dell’umanità.

(Da Il finanziere del 15 febbraio 1964)



Corrierino – La poesia di Pasqua

     Francesco, per gli intimi “il Checco”, è abituato a dire tutto a papà e mamma. Se Dio vuole, anche le malefatte. “Papà, mi sono buttato per terra: mi devi punire”. E la punizione arriva, mitigata dalla circostanza attenuante dell’autoaccusa. Punizione che è reintegrazione dell’ordine violato, controspinta psicologica, negazione della violazione e quindi affermazione del diritto. Tutto quello che si vuole. Ma lui, il Checco, non se ne intende di Feurbach, dello Hegel e del Ferri. Lui sa solo che le malefatte vanno punite e torna tranquillo e sereno solo dopo la sanzione. Mio Dio, è forse questo un segno che io, che ho l’impudenza di parlare tanto di diritto, sto davvero seminando bene? Sto, cioè, inculcando in mio figlio i valori morali che sono la base e la forza del diritto? Sarebbe troppo bello. Sarebbe il mio primo, vero successo. E sarebbe un risultato degno di dare un’impronta alla mia stessa vita. Staremo a vedere.
     Dunque, con la sua abitudine di dire tutto, il Checco aveva annunziato, almeno con una settimana di anticipo, di avere scritto la sua prima letterina di Pasqua. Tuttavia, proprio il giorno di Pasqua, la cosa ci era completamente passata di mente, sicché la “sorpresa” fu autentica quando, casualmente muovendo un piatto, comparve una letterina con l’indirizzo: “Ai miei cari genitori”. Era una poesiola di Pasqua, di quelle che insegnano negli asili e che hanno rime obbligate ed un po’ contorte. Ma lui l’aveva imparata con estrema diligenza ed impegno e la recitò alla perfezione. Alla fine, gli ridevano gli occhi dalla gioia. Ed io, avendogli insegnato che un uomo non piange mai, dovetti faticare non poco per non smentire me stesso.
     Non ricordo più in che cosa sia consistita la mia Pasqua di tutti gli anni trascorsi ma so per certo che la mia Pasqua di quest’anno è stata tutta lì, in quella letterina, in quella poesiola.

(Da Il finanziere del 30 aprile 1968)



Corrierino – La parotite

     Ora, però, vorrei chiedere «a chi di dovere» un po’ di tregua. Tra una cosa e l’altra, sono circa due mesi che finanzio – sia pure senza la partecipazione della mia volontà – la classe medica e l’industria farmaceutica nazionale, e comincio ad averne le tasche piene, anzi vuote.
     Inoltre, non mi piace avere rapporti molto frequenti con virus, batteri e roba del genere. Infine, non mi va di vedere gente malata o di esserlo io.
     Pertanto, mi arrendo.
     Era venuta la varicella per Francesco, e va bene. Poi era stata la volta per me di una pseudo tonsillite e di una sarabanda intorno ad un povero molare mezzo diroccato, e va ancora bene. Ma la parotite, ossia gli orecchioni, dico io, dove stavano annidati?
     Tutto cominciò con la mia guarigione. Francesco manifestò il sano desiderio di andare a trovare i nonni, in quel di Salerno, e, naturalmente, io non ebbi nulla da obiettare. Partirono un giovedì mattina, con l’intesa che il sabato li avrei raggiunti, per poi tornare in sede a Roma la domenica.
     E qui conviene sottolineare un particolare. Qualche minuto prima che si mettesse in moto il treno, Francesco si fece venire gli occhioni rossi: « Mi dispiace che resti solo, papà», disse. Ed io quasi ci cascavo, cioè quasi lo facevo scendere dal treno e me lo riportavo a casa.
     Ma avrei sbagliato. Come fu dimostrato la domenica mattina, quando lui se ne venne accanto al mio letto con un’aria seriosa e mi disse: «Papà, ti devo chiedere un grande piacere. Ti sarei veramente grato se tu mi lasciassi ancora una settimana a Salerno». E visto che io titubavo, aggiunse: «Ci tengo proprio tanto, papà. Ti prometto che sarò buonissimo e farò tutto quello che mi dirà la mamma senza discutere neppure. Vedrai che poi tornerò a casa più contento. Ti prego, papà, accontentami».
     Era chiaro che il suo dispiacere di lasciare papà solo era svanito di fronte agli argomenti persuasivi dei nonni. I quali argomenti persuasivi farebbero inorridire un esperto di puericultura o di psicologia, perché seguono una sola direttiva: dargliele tutte vinte.
     Come se non bastasse, a casa dei nonni esiste anche una Tata, che ormai, in famiglia, è una specie di istituzione, la quale si sentirebbe molto offesa se fosse scavalcata da qualcuno in fatto di viziare il pargolo. Così sono in tre, più lui quattro contro la madre, che risulta schiacciata da tanta forza d’urto. Può solo limitarsi a dire «lo dirò a papà», ma poi sa benissimo che, quando arriva papà, il pargolo invoca l’amnistia «perché oggi è arrivato papà ed è un giorno di festa». E così restiamo tutti «incastrati», come si dice a Roma; cioè, in parole povere, con le mani legate.
     A questo punto, chiunque comprende il motivo per il quale Francesco chiedeva di restare ancora una settimana a Salerno. Ed io, pur sapendo che tutte le volte che lui torna a casa dopo una permanenza a casa dei nonni occorre un congruo periodo di «rieducazione», di riadattamento ad un regime meno rinunciatario di quello instaurato, prima ancora che nascesse, dai suoi nonni, acconsentii.
     Trascorse una settimana, ed il sabato sera ero puntuale all’appuntamento. Baci, abbracci, effusioni. «Sei contento, Francesco? Domani torniamo a casa». Lui non diceva né sì, né no. Si limitava a guardarmi. Mi avvicinai di più a lui, lo carezzai, sentii che era troppo caldo. Gli misurai il termometro e, come se niente fosse, venne fuori un 38,2.
     In verità, mi seccai molto. E, francamente, devo confessare di non sapere se mi seccai di più per quella febbre che proprio non ci voleva, oppure perché il signorino, finalmente sorridente, mi disse con la più grande semplicità di questo mondo: «Sai, papà, io ho fatto una preghierina perché mi ammalassi, in modo da poter restare ancora un po’ a Salerno».
     Dico la verità, ero un padre sconfitto. Dall’emozione, e forse dalla commozione, del treno a quell’atmosfera di assoluta indipendenza, il passo era troppo lungo. Tanto più che io, ignaro dell’attacco che mi veniva sferrato alle spalle con la preghierina, non avevo neppure potuto ricorrere alla controffensiva accendendo, per esempio, un cero a S. Giuseppe perché il pargolo non si ammalasse. Insomma, ero stato colto di sorpresa, ed ero stato, naturalmente, sconfitto.
     La domenica mattina venne un medico: tracheite, sentenziò, o qualcosa di simile, Infatti tre giorni dopo, il bimbo aveva il gonfiore caratteristico degli orecchioni.
     Naturalmente, dico questo non per prendermela col medico, giacché tutti possiamo sbagliare, ma solo per sottolineare la facilità con cui malattie diverse possono avere gli stessi sintomi. Il che, penso io, dovrebbe spingere i medici ad essere un tantino più prudenti e a non propinare antibiotici come se si trattasse di caramelle. Gli orecchioni, infatti, ho appreso, non hanno praticamente alcuna cura; e, invece, Francesco, sin dalla domenica, aveva fatto l’antibiotico. Ditemi voi quale medico oggi, al primo accenno di raffreddore, non prescrive un antibiotico. È una specie di mania, di fissazione. «Non si sa mai», dice qualcuno. Ma non pensa agli effetti dannosi dell’antibiotico. Sarebbe un bell’affare se si dovessero prendere medicine così potenti «a scopo preventivo»: staremmo a mangiare e bere medicine dalla mattina alla sera.
     Avrete compreso, a questo punto, che ce l’ho con i medici. E lo dico senza troppi complimenti, anche se non posso, di certo, generalizzare. C’è, ad esempio, il pediatra abituale di Francesco, il quale è nemico giurato degli antibiotici: anzi, probabilmente proprio da lui ho preso questa avversione contro un farmaco che dovrebbe essere chiamato in causa solo quando è veramente necessario.
     Ma il discorso non è ancora finito. Il discorso sui medici, dico. Visto che ormai la parotite c’era, e considerato che non credo di averla avuta da bambino, sorgeva il problema dell’eventuale contagio. Dopo un’altra settimana di forzata lontananza, anche se il pargolo, ormai, non si preoccupava più per nulla di «papino che sta solo», il papino sarebbe corso a trovare il piccolo traditore: ma, e il contagio? La parotite, presa alla mia età, diventa un fatto parecchio serio.
     Voi che avreste fatto al mio posto? lo ho pensato ad alcuni amici medici ed ho fatto alcune telefonate, quattro, per l’esattezza, per chiedere consiglio.
     E, in questa storia cosparsa di errori, questo è stato un altro errore, perché mi ha offerto l’occasione di vedere quanta disparità di vedute ci sia su problemi che pure – se non altro a causa del tempo da che sono in discussione – dovrebbero essere già chiaramente risolti.
     Un medico mi ha detto di andare senz’altro, perché, anche se non ho avuto la parotite in forma acuta, certamente, da bambino, devo averla presa in qualche modo, stando a contatto con qualcuno che l’aveva.
     Un altro mi ha detto di non accostarmi nemmeno, perché non c’è malattia più infettiva della parotite, ed anzi mi ha consigliato di attendere ancora diciotto giorni dopo la scomparsa del gonfiore, prima di avvicinarmi a mio figlio.
     Un terzo è stato più possibilista: mi ha detto di andare, ma di fare conto di andare a trovare il figlio di un amico: niente baci, niente carezze, niente vicinanza (ma chi gli ha detto che i figli degli amici non si baciano?).
     Il quarto mi ha detto che, se proprio ci tenevo ad andare, avrei dovuto curarmi come se avessi anch’io, di già, la parotite.
     Come vedete, avevo ampie possibilità di scelta. O «tirare ad indovinare» pensando di avere già avuto una malattia senza neppure accorgermene; oppure, mettermi sotto una campana di vetro, o in una tuta spaziale sterilizzata; oppure, prendere, tanto per gradire, qualche buona medicina.
     Allora ho fatto di testa mia, secondo il metodo consigliato da un santone indiano per risolvere i problemi insolubili perché con troppe soluzioni. Ho preso due pezzettini di carta e ci ho scritto su «andare» e, rispettivamente, «restare». Poi ho estratto a sorte.

(Da Il finanziere del 31 marzo 1969)



Luci della ribalta

     Ricorderete un film di qualche anno fa, in cui si mostrava la “trovata” del servizio di spionaggio britannico di sostituire Montgomery con un sosia. Poiché Monty era designato a comandare le truppe da sbarco in Normandia, e naturalmente si voleva che lo sbarco avvenisse di sorpresa, si pensò di disorientare i servizi segreti tedeschi facendo apparire Monty il più lontano possibile dalla zona d’operazioni.
     Sfruttando la somiglianza di un certo Clifton James con il maresciallo britannico, il falso Monty, dopo accurata preparazione, venne fatto apparire a Gibilterra e poi ad Algeri, addirittura il giorno precedente lo sbarco. È discusso se l’espediente ebbe l’effetto desiderato sui servizi segreti tedeschi, né importa stabilirlo in questa sede. Quel che, invece, vogliamo qui sottolineare è il seguito della vicenda, per quanto riguarda James.
     Finita la sua prestazione, egli tornò alle sue occupazioni. Qualche anno dopo, gli fecero interpretare il film, nella doppia parte del vero e del falso Montgomery. Ma egli era ormai talmente “entrato” nella pelle del maresciallo, che si sentiva maresciallo pure lui. Anzi, si sentiva “il” maresciallo Montgomery. In parole povere, era impazzito, ed in tale stato morì.
     Quel che è peggio, morì senza essere neppure riconosciuto grande attore, come avrebbe vivamente desiderato quando era ancora sano di mente.

(Da Il finanziere del 31 maggio 1969)



Corrierino – La guerra

     Io vorrei sapere chi gli ha messo in mente l’idea della guerra, delle stragi della guerra, delle maledizioni della guerra. Discorsi di guerra io non gliene ho mai fatti, sua madre nemmeno. Le sue fonti d’informazione, fino ad oggi, sono una serie di fiabe sonore (quelle che hanno il libro ed il disco) e la tivù dei ragazzi. Rientra forse tra i compiti di un padre quello di sottoporre a censura fiabe e tivù? È da codeste fonti che egli ha tratto l’orrore per la guerra?
     Potrebbe essere stato il nonno materno che si gloria di aver fatto guerre a ripetizione e di esserne uscito malconcio. Ma, che io sappia, il nonno gli ha raccontato soltanto meravigliose storie di animali nella foresta, inventate di sana pianta, perciò sempre mutevoli, quindi più gradite.
     Non so davvero, dunque, da dove sia saltata fuori tutta questa storia di guerre, di gente che spara e uccide, di città distrutte.
     Fatto sta che già me ne ha parlato più volte. Una prima volta ha voluto sapere se anch’io avessi fatto la guerra e se avessi ucciso qualcuno. Gli ho spiegato che, quando c’era la guerra, ero poco più di un ragazzo ed i ragazzi non vanno in guerra.
     Un’altra volta mi ha chiesto se, scoppiando una nuova guerra, io l’avrei fatta e se mi fossi dunque trovato in condizione di uccidere qualcuno. Domanda sottile ed imbarazzante. Per aggirarla, gli ho risposto che l’Italia non farà più guerre, c’è scritto nella Costituzione.
     Tuttavia, manifestando uno scetticismo assolutamente riprovevole, stamattina, all’improvviso, mi fa:
     – Va bene che nella Costituzione c’è scritto che l’Italia non farà più guerre, ma sarà poi vero?
     Il colloquio si svolgeva nel bagno, lui sul vasino, io alle prese con la barba. Poco c’è mancato che non mi procurassi una “bistecca” con il rasoio cosiddetto di sicurezza.
     – Ma che idee ti vengono in mente? Si capisce che è vero che l’Italia non farà più guerre.
     Ma lui, sempre scettico:
     – Va bene. Ma se dovesse venire una guerra, mi prometti di non andarci e di non uccidere nessuno?
     La richiesta era paralizzante. Francesco sa che le promesse bisogna mantenerle, ad ogni costo, e deluderlo su questo argomento equivarrebbe a far crollare tutto l’edificio psicologico costruito sinora. Ora, né potevo impegnarmi a fare il disertore, né potevo mostrarmi ai suoi occhi come un potenziale assassino. Sicché, l’unica via di uscita era di insistere sul concetto che tutto il discorso era fuori posto, in quanto di guerre non ce ne sarebbero più state.
     Ma non credete che sia facile imporre un certo tipo di ragionamento ai cinque anni di Francesco. Deve aver capito che eludevo la domanda e quasi parlando a sé stesso ha concluso:
     – In ogni caso, se venisse una guerra, io la farei senza armi, per curare i feriti.
     Non credo di esagerare affermando che questi discorsi mi hanno dato un senso di angoscia. Non so se sia un bene che queste nuove generazioni aprano gli occhi, così presto, sui più gravi problemi dell’umanità, in modo da trovarsi già preparate ad affrontarli quando sarà il momento; oppure se sia un gran male che i sogni, i castelli in aria, la beata innocenza di queste creature siano ricoperti dall’immensità di questi stessi problemi.
     Fatto sta che – pur non ritenendomi un codino o un “matusa” e pur cercando di precorrere i tempi – mi trovo talvolta “scavalcato” da mio figlio, il quale mi pone dinanzi a problemi che io avrei ritenuto assolutamente prematuri per la sua età. Ciò mi sconcerta un pochino, anche perché penso che non è lontano il tempo in cui affronterà il problema stesso della vita. E se questo problema non lo hanno risolto del tutto filosofi e teologi, come potrò risolverlo io?
     È difficile il mestiere di padre! Da quando lo esercito, non conosco lavoro che richieda maggiore impegno ed applicazione.

(Da Il finanziere del 31 maggio 1969)



Le soldatesse

     Uno o due anni fa, auspicai in queste righe l’avvento delle ausiliarie nella vita militare, almeno nella veste di dattilografe. I miei dattilografi del tempo, Roda e Bianconcini, non se la presero: capirono che non avevo assolutamente nulla contro di loro ma che ero stato spinto a quell’auspicio dal desiderio di rendere meno grigio l’ambiente dei nostri uffici.
     Mi auguro che anche Paletta e Battelli, miei attuali virtuosi della macchina da scrivere, non prendano cilindro. Di loro, avrei da fare soltanto lodi sperticate, tanto sono bravi, precisi e puntuali. Del resto, io non ho nulla da dire contro il sesso (cosiddetto) forte; però avrei molto da dire a favore del sesso (cosiddetto) debole.
     E qui, sia ben chiaro, non penso soltanto al fatto che Paletta e Battelli non si truccano, non indossano la minigonna e non hanno la voce argentina. Penso anche al fatto che loro (probabilmente) non saprebbero consigliarmi sulla scelta di una cravatta color singhiozzo-di-pesce, o sulla forma a tubo dei pantaloni, o sul taglio dei capelli. Inoltre, osservando le mie tempie brizzolate, loro certamente pensano: “quest’uomo sta invecchiando”, laddove una loro eventuale collega penserebbe “quest’uomo è alla moda”. Infatti, mi si dice, molti si fanno brizzolare i capelli dal parrucchiere.
     Insomma, è per molte ragioni che vado perorando la causa (ma senza successo) delle ausiliarie. Ed è per le stesse ragioni che vorrei inviare un biglietto di congratulazioni e di auguri alla mia concittadina Rosanna Mele, la quale ha chiesto di essere ammessa a frequentare il Collegio militare partenopeo della Nunziatella. La sua domanda è stata respinta ma il padre, professore universitario, ha annunziato che presenterà ricorso e vi confesso che sono curioso di sapere come andrà a finire.
     E qui, date le premesse, ciascuno comprende come io mi auguri che vada a finire: con il pieno riconoscimento alle donne di intraprendere, se lo credono, la carriera militare. Sarebbe fin troppo facile ricordare il contributo che le donne hanno dato e danno alla vita militare. Senza neppure andare troppo lontano (per esempio, in Israele, dove le donne combattono fianco a fianco con gli uomini), basterebbe citare la guerra partigiana e le stesse crocerossine. Ora la donna chiede di non limitarsi più a curare i feriti e gli ammalati, ma di svolgere gli stessi compiti che potrebbero essere affidati agli uomini: perché non riconoscere loro tale diritto?
     La difesa della Patria è un sacro dovere di tutti i cittadini e non esistono differenze giuridiche dovute al sesso, alla razza od alla religione.

(Da Il finanziere del 30 giugno 1969)



Storia d’amore

     Da un po’ di tempo non parliamo di cani. L’amico dell’uomo ispira tutta la nostra simpatia ma già da un pezzo non ci era capitato di sentirne parlare. Altre volte abbiamo raccontato storie dolci e commoventi. Anche questa lo è ma, a differenza delle altre, non ha un lieto fine. E questo ci dispiace davvero.
     I nomi dei protagonisti ci sfuggono ma “lui” era un lupo randagio e “lei” un pastore tedesco. Si erano incontrati casualmente. Anzi, per meglio dire, “lui” aveva cominciato a farle la corte, passando e ripassando dinanzi al cancello al di là del quale “lei” montava la guardia.
     L’idillio deve essere sbocciato così, teneramente, serenamente. E poiché il padrone di “lei” non aveva capito (e quando mai gli uomini capiscono qualcosa?) che i due innamorati avrebbero voluto andare un po’ insieme a spasso, un bel giorno “lei” salta il cancello e se ne va a fianco di “lui”.
     Sennonché, forse perché troppo presi dai propri pensieri, forse perché poco conoscitori del luogo dove si trovavano, presero una strada sbagliata e si trovarono nel centro di una grande città. Macchine che sfrecciavano, vigili che si sbracciavano, gente che correva, rumori, aria cattiva, stress. Le due bestie non ci si raccapezzano più, impazziscono. E attuano una “contestazione” piuttosto violenta: cominciano ad azzannare tutti i passanti. Succede il parapiglia, il fuggi-fuggi generale. Qualcuno, chissà perché, grida: “Sono idrofobi”. Ad un certo punto qualcuno, per sbloccare la situazione, estrae la pistola e fa fuoco.
     Le due povere bestie, uscite a spasso con le migliori intenzioni di questo mondo, cadono sotto i colpi dell’uomo. La loro storia d’amore si infrange contro l’incomprensione dell’uomo, nella giungla d’asfalto e di cemento.
     Una parola di pietà per quel “lui” e per quella “lei”. Ma anche una parola di comprensione per tutti noi, che dobbiamo vivere ogni giorno nell’atmosfera che ha fatto impazzire quelle due bestie, senza nemmeno la soddisfazione di poter azzannare qualcuno.

(Da Il finanziere del 15 luglio 1969)



Corrierino – Il coniglio Tobia

     Stavo faticosamente cercando di far decrescere la montagna di carte che schiacciava la mia scrivania, quando squillò il telefono.
     Il telefono che squilla nel mio ufficio non è un fatto né nuovo né inusitato. Tutt’altro. Anzi, a volte a squillare sono due telefoni – quello con la linea diretta e quello del centralino – e magari squillano nello stesso momento in cui la cicala della porta annunzia qualche visitatore. Così, tra l’alzare la prima cornetta, lo schiacciare il pulsante attendere e l’alzare la seconda cornetta, ho l’impressione di stare in una centrale elettronica. E poi c’è anche qualche bello spirito che si lamenta per aver trovato la linea sempre occupata.
     Dunque, agli squilli del telefono ci sono abituato. Ma quel giorno, non me li sarei proprio aspettati. Quel giorno, infatti, era giovedì santo ed un bel fonogramma aveva annunziato che l’orario d’ufficio terminava a mezzogiorno.
     Io i fonogrammi di questo genere li adoro. Infatti, quando gli scrivani godono il meritato riposo e tutti gli altri pensano che sia inutile telefonare perché, tanto, non mi troverebbero, io mi rintano in ufficio e smaltisco un po’ di arretrati. Senza lo squillo del telefono che mi costringe a mutare bruscamente l’oggetto delle mie meditazioni o senza la cicala della porta che mi annunzia un visitatore.
     Ecco perché durante la Settimana Santa, fra feste e mezze feste, memore delle «grandi pulizie pasquali» che si facevano a casa mia, e credo che ancora si facciano in tutte le case, io ho attuato la grande pulizia della scrivania. Ma quella telefonata del giovedì santo rompeva un po’ l’atmosfera, turbava i miei piani.
     Risposi, dunque, con voce un po’ seccata, ma l’interlocutore, dall’altro capo del filo, fece finta di niente ed entrò subito in argomento.
     «Senti – mi disse – potresti far preparare, per quando torniamo, una casetta per un coniglio? Dovrebbe avere il lato giorno con una reticella per prendere il sole; ed il lato notte coperto per consentirgli di dormire».
     Mi stropicciai gli occhi. Io ho i capelli bianchi, e credo di averne sentite, in vita mia, di cotte e di crude. Ma di una casetta per un coniglio, con lato giorno e lato notte, no, proprio non ne avevo mai sentito parlare. E poi quando mai ho fatto l’allevatore di conigli?
     Ma, in realtà, non si trattava di un allevamento. Le cose, pressappoco, erano andate così.
     Mercoledì sera, a scuole ormai chiuse, la gentile consorte e Francesco se ne erano andati cheti cheti a Salerno. Qui avevano trovato la Tata alle prese con un coniglio che era stato regalato non so da chi al vecchio nonno brontolone. È chiaro che l’idea del donatore era stata quella di far preparare un piatto di carne succosa per il pranzo di Pasqua. Il coniglio, che era stato regalato il mercoledì, aveva quindi ancora un paio di giorni di vita prima di finire nel tegame.
     Ma né il coniglio né il donatore avevano fatto i conti con i nuovi ospiti della famiglia. Infatti, la sera stessa di mercoledì, si era accesa una vivace disputa sull’opportunità di privare della vita un’innocente bestiola felice di vivere ed ignara del crudo destino che l’attendeva.
     La tesi di Mariolina era che il coniglio doveva vivere e prosperare a casa di suo padre e morire, quando fosse giunto il momento, di vecchiaia. La tesi della Tata era, invece, che, se è vero che gallina vecchia fa buon brodo, coniglio vecchio rompe i denti. E per lei, che di denti non ne ha molti, il problema si poneva in tutta la sua drammaticità. La tesi della nonna era che inutilmente l’Artusi avrebbe scritto il suo trattato, se poi la gente si fosse rifiutata di servirsi della carne che il buon Dio pone a sua disposizione.
     La tesi del nonno era che non gli si stessero a rompere i già lesionati timpani con tutte quelle storie, perché lui il coniglio lo voleva nel piatto e non in giro per casa.
     A questo punto la battaglia di Mariolina poteva dirsi perduta, a meno che... A meno che non avesse tirato Francesco dalla sua. Infatti, avrebbero mai i nonni e la Tata potuto assumersi la responsabilità di deludere il giovane? Giammai. E così cominciò l’opera di persuasione del pargolo, il quale, in verità, non cercava altro che di essere persuaso.
     A quest’altro punto, la battaglia poteva dirsi perduta per i nonni. I quali, però, dimostrarono una tenacia degna di miglior causa. «E va bene, che viva pure questo accidente di coniglio, ma fuori di qui».
     E così mamma e figlio avevano progettato di portare il coniglio a casa, di tenerlo sul terrazzo in una casetta tutta per lui, e – udite, udite – di portarlo a spasso con un guinzaglio intorno al collo, a mo’ di cane.
     Ed ecco da dove era scaturita la telefonata del giovedì santo. E devo dire, lealmente, che se non si fosse trattato del giovedì santo, ma, poniamo, di un giovedì qualsiasi, io qualche parolina non propriamente compresa nel Dizionario della lingua italiana l’avrei tirata giù. Ma era giovedì santo e quindi preferii rinviare il discorso al momento in cui sarei giunto a Salerno anch’io.
     Giunsi a Salerno sabato sera, e, appena entrato, sentii la consorte che mi gridava: «Attento a Tobia». «Gesù, e chi è mò ‘sto Tobia?». «Ma il coniglio, no? ». «E che, lo hai pure battezzato?». «Non fare lo sciocco, dovevo pure chiamarlo in qualche modo, no?».
     Eh, già, doveva pure chiamarlo in qualche modo. Sono io che non dovrei meravigliarmi. Qui tutto ha un nome, una catalogazione, un posto. E non si chiama forse Rosina quello striminzito pesciolino sopravvissuto a tre mariti in una vaschetta che una volta Francesco volle in dono? E non hanno ugualmente un nome i vari pupazzi con i quali il giovane si diletta? Dunque, niente di più naturale che abbia un nome anche il coniglio.
     Però, e questo è il punto, se si può allegramente mangiare un coniglio anonimo, come si fa a mangiare un Tobia? E poi non vi ho ancora detto che Tobia era diventato veramente di casa: girava da una stanza all’altra a suo piacimento; annusava i nuovi giunti, quasi a voler distinguere gli amici dai nemici; prendeva finanche le carezzine senza spaventarsi, ma soltanto da due persone: da Mariolina e da Francesco.
     Una cosa soltanto gli era vietata: entrare nello studio del nonno e rosicchiare la tenda di pizzo ricamato del balcone. Il nonno, infatti, in tali circostanze, minacciava di rompere l’armistizio e di dare una «peroccolata» in testa a Tobia.
     E devo dire che anch’io, giunto a Salerno con il fiero proposito di «mandare al patibolo» (uso un’espressione della consorte) la bestia, ho dovuto eseguire una ritirata strategica dalle mie posizioni, dicendo che poi, in fondo, potevamo anche fare a meno del coniglio nel pranzo di Pasqua. Ma su un punto sono stato irremovibile: che il coniglio venisse a casa, a vivere sul terrazzo in una casetta con lato giorno e lato notte, andando a spasso al guinzaglio.
     Cosi è andata a finire che la consorte ha convocato il donatore del coniglio – me assente, sia ben chiaro – e gli ha spiegato i motivi umani ed universali che impedivano l’uccisione della bestia. Il donatore deve essere un furbo di sette cotte perché, mi è stato riferito, ha promesso di continuare a tenere Tobia nella sua conigliera, con un fiocco al collo, per distinguerlo dagli altri conigli.
     Ignoto donatore, ovunque tu sia, rispondi a questa domanda: come lo hai mangiato Tobia, in salmì o alla cacciatora?

(Da Il finanziere del 30 aprile 1971)



Il padre, questo sconosciuto

     Si parla tanto, nella letteratura, della madre, ed indubbiamente con ragioni da vendere. E se ne parla quasi sempre con accenti di grande affetto, di venerazione, talvolta di idolatria. Nulla da eccepire. Ma piacerebbe che qualche volta si parlasse negli stessi termini del padre, il quale, invece, quando compare in qualche romanzo o in qualche testo teatrale, fa sempre la figura del burbero, del fuori posto, del tiranno eccetera eccetera.
     Eppure, i padri avrebbero la loro parola da esprimere e meriterebbero, almeno una volta tanto, un esplicito riconoscimento. Vero è che hanno poco tempo da dedicare ai figli e, probabilmente per mancanza di esercizio, non sanno bene come impiegarlo. La mamma, invece, almeno quella che non lavora fuori casa, è sempre accanto alle sue creature. Forse proprio per questo, quando i figli si fanno grandi e diventano romanzieri o drammaturghi, si ricordano della mamma e non del papà.
     Il discorso porterebbe lontano ma sarà sufficiente sintetizzarlo in questo episodio, tratto dalla vita reale.
     Un giovane viene accusato di una rapina, che ha effettivamente commesso. Il padre, pur di salvarlo dalla galera, si costituisce e si dichiara autore del reato. Ma la polizia ha già le prove della colpevolezza del figlio e, di fronte all’insistenza del genitore, non può fare altro che spedire al carcere anche lui, sotto l’imputazione di autocalunnia.
     Occorre augurarsi che i magistrati giudicanti, padri anch’essi, siano clementi con lo sfortunato padre.

(Da Fiamme gialle n. 10 del 2007)



Pensierino notturno

     Forse tra un secolo, forse tra due secoli, gli storici e i sociologi che esamineranno il nostro tempo riusciranno a dare risposte a tanti interrogativi che ora ci poniamo ma ai quali non sappiamo dare risposta soddisfacente.
     Si possono ipotizzare due modi di guardare alla vita: con gli occhi del proprio ambito ristretto, personale o familiare che sia, e con quelli della comunità nazionale ed internazionale nella quale si svolge la nostra esistenza. L’influenza reciproca dei diversi, ma non opposti, punti di vista, non ha bisogno di essere dimostrata: è un assioma. Ma sarebbe interessante riuscire a sapere se, almeno in qualche caso, l’uno prevalga sull’altro. Ad esempio, questi giovani di cui tanto si parla, si comportano in una certa maniera perché sono fatti diversamente o perché subiscono l’influenza del caos della comunità nella quale vivono? Il ritmo frenetico che ha assunto la nostra vita dipende da un maggiore dinamismo di ciascuno di noi o deriva dalla paura di non arrivare in tempo, di giungere troppo tardi? E la “mania di grandezza” della quale sembriamo pervasi e l’esaltazione dei desideri del fanciullo che, avuto il monopattino, vuole il triciclo e poi la bicicletta e poi l’automobile è l’evoluzione del nostro senso di civiltà? Oppure è la fretta di avere tutto e subito perché domani potrebbe essere troppo tardi?
     Chissà. Forse siamo ad una delle solite “svolte” nel cammino dell’umanità: ma che cosa c’è dietro l’angolo? Il buio o una nuova luce? E, ammesso che ci sia la luce, ne resteremo abbagliati, vedremo in un modo diverso le cose o tutto continuerà ad andare come prima?
     Forse sono solo i fatti criminosi dei quali siamo testimoni a renderci inquieti. Forse è la facilità con la quale si muore, si uccide o ci si uccide. Oppure la disinvoltura con la quale si ruba e si va in galera. Sul giornale di oggi c’era la fotografia di un giovane arrestato per omicidio che ride al fotografo. Che cos’è che ha cambiato ed incattivito l’animo umano?

(Da Fiamme gialle n. 10 del 2007)



Fritz

     Ha scritto Arthur Schopenhauer: “Soltanto chi non ha mai avuto un cane, non sa cosa significhi essere veramente amato”. Il grande filosofo tedesco aveva un barboncino, col quale faceva quotidiane passeggiate. Io sto sperimentando la veridicità della sua affermazione con un pastore tedesco il cui nome ufficiale è Bayron del Caiatino ma al quale ho imposto il nome meno aristocratico e più familiare di Fritz.
     Sono quasi due anni che io e Fritz conviviamo sotto lo stesso tetto. Lo andai a prendere dall’allevatore che aveva appena superato i trenta giorni di vita. La mamma aveva avuto un parto lungo e travagliato e aveva cominciato a mangiarsi gli ultimi nati, cosicché l’allevatore aveva salvato alcuni cuccioli. Ne aveva tre, quando, con mia moglie, ci recammo nell’allevamento. Un cucciolo era femmina e lo scartammo, scegliendo uno degli altri due. Era così piccolo che copriva a stento il mio avambraccio.
     Io sono stato da sempre amante dei cani ma non ne avevo mai posseduto uno. Alla tenenza di Resia c’era un cane pastore, genialmente chiamato “Lupo”, il quale usciva con le pattuglie di finanzieri che si recavano in montagna per le abituali perlustrazioni. Gli dicevano: “A posto” e lui si metteva tra i due finanzieri. Se, al ritorno di una pattuglia, ne usciva un’altra, Lupo si metteva nuovamente al centro e continuava la perlustrazione. I cani poliziotto erano ancora di là da venire, così come il centro di Castiglione del Lago, ma Lupo faceva già il suo dovere. Gli mancavano solo le fiamme gialle.
     Un’altra esperienza con un pastore la ebbi nei primi anni ottanta. Al piano interrato della mia abitazione di allora, c’era un garage, il cui titolare, Franco, teneva sempre legato con la catena il suo cane. Alla catena mangiava, alla catena faceva i suoi bisogni, alla catena dormiva. Un giorno chiesi a Franco di portare a passeggiare il suo cane. Non disponendo neppure di un guinzaglio, mi dette una catena. Appena fuori dal garage, il cane cominciò a tirare, impaurito da tutto, sicché tornai con un polso mezzo slogato. Mi munii di un guinzaglio e gradualmente Kocis, questo era il suo nome, si addomesticò. Quando comparivo sulla porta del garage, Kocis faceva i salti di gioia e, appena il padrone lo liberava dalla catena, mi faceva delle feste incredibili. Andavamo al Parco della Rimembranza – uno dei più bei posti di Napoli, con vista sui golfi di Napoli e di Pozzuoli – e gli lanciavo le pigne che cadevano dai pini. Lui me le riportava ed era contento delle mie carezze. Un giorno andai nel garage ed il padrone mi disse che Kocis era fuggito. Ho sempre pensato che, dopo avere assaporata la libertà, ossia un modo di vivere diverso dallo stare sempre alla catena, l’aveva scelta. È accaduto a Kocis, è accaduto anche ai popoli.
     Con questi ricordi, allorquando mia moglie si mise in testa di volere un cane, la soluzione più a portata di mano sarebbe stata quella di chiederlo alla Guardia di finanza, visto che per me non esistono altri cani all’infuori dei pastori tedeschi. Ma il Corpo li cede dopo un anno di vita ed io invece volevo che il cane imprimesse nella sua memoria noi come primi ed unici padroni. Così venne Fritz, che ora costituisce il terzo membro della famiglia. Mio figlio, forse con un pizzico di malcelata gelosia, dice che, da quando ho Fritz, non parlo d’altro. Ma, appunto, è solo gelosia.
     Fritz è nato il 1° aprile 2006 e quindi ha quasi due anni e mezzo, oramai è considerato adulto ma io continuo a vedere in lui quel cosino che portai a casa sull’avambraccio. Non avendo mai allevato un cane, pensai di dovermi documentare e così ora ho allineati sugli scaffali almeno una dozzina di libri, che però non mi sono serviti a molto. Incredibile ma vero, anche sull’educazione dei cani ci sono le teorie. Non quelle dell’Oetz-Stubai e del Manganese, con le quali ci divertivamo in Accademia, ma ci sono i sostenitori delle maniere forti ed i sostenitori della dolcezza. Sembra che all’Università ci sia una facoltà di psicologia canina. Io il cane che va dallo psicologo proprio non me lo so immaginare, ma se ci sono studenti che si applicano su questa materia devo pensare di essere io in errore. Sia però ben chiaro che, così come non ho mai pensato di potermi stendere sul sofà dello psicanalista o di uno psicologo o di uno psicoterapeuta o di qualsivoglia altro “psi” – pur avendo molto rispetto per le rispettive professioni – non mi passerebbe mai per la mente di portare Fritz dallo psicologo canino.
     Anche perché non mi pare proprio che ne abbia bisogno, visto che ci comprendiamo perfettamente. Lui sa che la mattina, dopo i miei rituali, usciamo insieme. Bene, quando mi alzo, lui se ne sta buono e mi segue mentre prendo il caffè, mi aspetta fuori della porta del bagno, mi assiste mentre mi rado. Quando vede che mi metto il dopobarba, comincia ad agitarsi, sa che sto per vestirmi e che quindi usciremo. Durante il giorno, sta sempre accucciato accanto a me ma se vede che mi preparo per uscire, comincia a saltare perché sa che, in linea di massima, lo porto con me. Ho fatto installare una rete metallica apposita tra il bagagliaio e l’interno dell’auto proprio per consentirmi di averlo sempre vicino. Qualche volta, però, non posso farlo venire con me. Allora gli dico: “Fritz, papà deve uscire ma non ti può portare con sé. Devi aspettarmi”. Lui capisce, si allontana e si arrotola per terra. Quando esco, si mette dietro la porta e non si muove più finché torno. Lo tengo in allenamento col gioco del pallone. O, meglio, io gli lancio i palloni e lui corre per raggiungerli. All’inizio, impiegava tre-quattro minuti per forarli, ora sì e no dieci secondi, sicché devo tenere in uso almeno cinque o sei palloni, perché, altrimenti, dovrei correre troppo anch’io che, non essendo un cane giovane, non ho alcuna voglia di correre. Abbiamo la possibilità di giocare nel cortile di casa, che è anche recintato, il che induce gli altri abitanti del palazzo ad osservare ogni volta: “ma quanti palloni ha Fritz”. Dopo oltre due anni, tutti lo conoscono e c’è qualcuno che si diverte ad osservare il vecchio con i capelli bianchi che gioca col cane. Un’anziana Signora, che abita al terzo piano, un giorno mi disse che, avendomi osservato più volte, aveva tratto la convinzione che io trattassi Fritz “come un figlio”.
     Ed è a questo punto che occorre aprire un capitolo un po’ triste. Quando Fritz venne in casa, io gli dissi: “Tu sei un pastore tedesco ed io farò di te un soldato della Wehrmacht” e cominciai ad usare le maniere forti. Ma un giorno, mentre eravamo nella Villa comunale di Napoli, per precauzione decisi di allontanarmi da una zona dove c’erano ragazzini scatenati su go-kart. Gli dissi: “Andiamo”. Era domenica e dovevamo attraversare un viale che di solito nei giorni festivi diventa isola pedonale. Quel giorno non lo era e Fritz, che era legato con un guinzaglio allungabile, si allontanò da me ed urtò con il lato destro un’automobile che sopraggiungeva. Mi misi letteralmente le mani nei capelli, sentendo i suoi lamenti, e forse sarei rimasto impietrito se una giovane coppia non mi avesse assistito. Anche l’automobilista si era fermato e tutti insieme andammo in un ambulatorio aperto, per fortuna, in giorno festivo. Sembrava una cosa da nulla e, invece, si era fratturato il collo del femore. Abbiamo avuto la fortuna di essere indirizzati ad un veterinario specialista in ortopedia il quale, nella impossibilità di installare una protesi, visto che il cane sarebbe cresciuto, fece una pulizia del femore così accurata che le ottanta probabilità di riuscita su cento che egli ci aveva annunziato sono diventate cento per cento. La natura ha riempito lo spazio che il chirurgo aveva eliminato ed oggi non v’è traccia di nulla in lui.
     In me, sì, c’è un ricordo indelebile, che si accompagna al rimprovero di non essere stato sufficientemente attento. Ed anche al ricordo della sua convalescenza, quando non aveva la forza di alzarsi sulle quattro zampe ed io dovevo aiutarlo. Una cosa straziante, che non riesco a dimenticare neppure constatando, ogni giorno, che i salti che fa – per fortuna di gioia, quando dobbiamo uscire – sono la più evidente dimostrazione di una guarigione perfetta.
     Cortesissima Signora del piano di sopra, questo non è un figlio, è anche di più.

(Da Fiamme gialle n. 10 del 2008)



El Alamein

     Il 5 novembre ricorre l’anniversario, il 66°, della battaglia di El Alamein, che era iniziata il 23 ottobre 1942. Quelli della terza età di oggi, che oramai hanno raggiunto, o dovrebbero aver raggiunto, una completa maturità, ed hanno quindi capito tante cose, erano soltanto dei ragazzi. Per loro, le adunate del sabato ed il passo romano di parata, erano roba di ordinaria amministrazione, come l’ora di ginnastica o la lezione di religione. Se uno, quando comincia a capire, a ragionare con la propria testa, trova che certe cose si fanno, non si chiede nemmeno il perché: le fa, e basta.
     Oggi, dopo oltre mezzo secolo, è facile parlare di retorica, di baionette di cartone, di guerra che non si poteva vincere. Sfido: con tutto quel che s’è visto, con le nuove lenti che ci ha offerto il progresso, con tutto quel che c’è capitato addosso, è anche troppo facile fare i conti sulla carta. Ma, allora, le “quadrate legioni” erano le quadrate legioni, la “quarta sponda” non si capiva perché stesse in mani straniere, e gli Inglesi erano soltanto i “perfidi figli di Albione”, eredi dei pirati dei mari.
     È stata questione di qualche anno. Avessimo avuto quattro o cinque anni in più, avrebbero mandato la cartolina precetto anche a noi, oggi in terza età. E noi saremmo partiti o per dare la “pugnalata alla schiena” alla Grecia, credendo di fare una cosa santa, o per riprenderci la quarta sponda e quel che segue, credendo di fare una cosa giusta. Del resto, i destini “immarcescibili” che si irradiavano dai “colli fatali” di Roma, non potevano che garantirci una vittoria fulmine, a noi, eredi degli eroici romani.
     Oggi vien quasi da ridere a pensare a come abbiamo mai potuto credere a tanta insipienza. Ma è un riso che si gela sul volto, al pensiero che altri ragazzi, che avevano il solo torto di avere quei tre o quattro anni in più che a noi mancavano, e che come noi si erano svegliati alla vita sentendo suonare le note di “Faccetta nera”, e che perciò credevano in tutto quel che avevano sentito, se non altro per mancanza di termini di paragone; si gela il riso, dicevamo, al pensiero che molti di quei ragazzi sono partiti e non sono più tornati.
     Oggi avrebbero più o meno la nostra età e ce li saremmo trovati al fianco, in occupazioni pacifiche. Invece, l’esser nati qualche anno prima, in piena campagna demografica, è stato per loro fatale, e noi quasi ci vergogniamo di essere qui, a parlare di loro, dopo aver capito l’inutilità del loro sacrificio. Ma è il meno che possiamo fare. Ricordare che un giorno partirono con l’entusiasmo della giovinezza e dissero “arrivederci” qualcuno: alla mamma, alla fidanzata, all’amico. Era un arrivederci perché credevano alla vittoria fulminea, alla santità della causa. Credevano che avevamo i mezzi per combattere una guerra, e non quelli per fare solo una tragica rappresentazione della guerra.
     Se ne accorsero quando furono laggiù, nelle sabbie infuocate, e il rancio non arrivava, e la benzina non arrivava, e le munizioni scarseggiavano e tutto era un inferno, nient’altro che un inferno. E lì, d’un tratto, dovettero diventare uomini, vedere, capire. Ma fu proprio nel momento in cui maturarono che divennero tutti eroi. Indietro non si torna, mai, nella vita; e tanto meno si può tornare, volontariamente, dal fronte. Ma c’è modo e modo di fare una guerra. Quando si comprende che tutto è perduto, quando si capisce l’abisso di potenza che ci separa dal nemico, quando ci si rende conto che è stato tutto un tragico “bluff”, ci possono essere tante scappatoie per non fare la fine del topo. Ma quei ragazzi, quei nostri quasi coetanei, fecero una scelta importante. Dopo aver capito tutto, decisero di combattere come se fossero stati loro i più forti, i più addestrati, i meglio riforniti.
     Dicono le cronache che, tra piccole avanzate e piccole ritirate, non si capiva più da che parte stesse il nemico e si rischiava di andare all’assalto dove c’erano le proprie posizioni o di distendersi accanto ad un soldato nemico. La baionetta, l’arma bianca, si sostituiva al piombo, ai cannoni, ai carri armati. Ma non sempre. Il più spesso, si doveva tenere la testa nella sabbia, per evitare che le schegge facessero stragi e, non appena il cannone taceva per un po’, si cercava di andare avanti.
     I nostri ragazzi fecero miracoli, ma con i miracoli non si vince una guerra. I nostri ragazzi offrirono il loro petto ma l’amor di patria che lo gonfiava non poteva creare uno scudo sufficiente per il piombo.
     Quando venne l’ordine della ritirata era troppo tardi. C’erano cinquanta chilometri tra l’inferno di sabbia ed il mare ed erano cinquanta chilometri da percorrere a piedi, combattendo, come diceva l’ordine di ritirata. Una cosa assurda, pazzesca, inverosimile. Ma lo diciamo noi oggi, con le cartine dinanzi che ci mostrano gli opposti schieramenti e ci dicono, con la fredda evidenza dei grafici, l’impossibilità di vincere. Ma loro non si fecero tante domande, non ne ebbero nemmeno il tempo. Vedevano gli alleati germanici ritirarsi su ruote e loro dovevano coprire quella ritirata. E obbedirono, ancora, stoicamente, senza porsi domande.
     I bollettini di guerra portavano nelle nostre case soltanto una pallida eco di quanto succedeva laggiù. Ma la verità la conoscevano loro, perché la vivevano, la vedevano con i propri occhi. E noi palpitavamo per loro, e non sapevamo, non potevamo sapere, che era già tutto perduto.
     El Alamein. Un nome tra i tanti che la guerra ha impresso nella nostra memoria. Ma un nome particolare perché segnò davvero una svolta decisiva nelle operazioni militari. “Mancò la fortuna, non il valore”, dice una lapide eretta laggiù. Ma mancò, forse, tutto ciò che costituisce la logica premessa di una vittoria militare.
     Rimane il valore. E se noi oggi ricordiamo quei nostri quasi coetanei che s’immolarono nella “Brescia”, nella “Pavia”, nell’“Ariete” e, soprattutto, nella “Folgore”, è per rendere doverosa testimonianza a quel valore, per implorare che sulle loro tombe, così come su quella di tutti gli altri morti in guerra, da qualsiasi parte abbiano combattuto, non si imbastiscano indegne speculazioni di carattere politico.

(Da Fiamme gialle n. 10 del 2008)



Supersenior / 1

Caro Lettore,
     Le scrivo da Castel San Pietro, una frazione di Poggio Mirteto, in provincia di Rieti, e vorrei spiegarLe il perché ed il percome.
     Una sera di luglio ero intento, con mia moglie, a vedere uno spettacolo televisivo su Rai Tre, evento piuttosto insolito perché, come Lei sa, non sono un teledipendente. In sovrimpressione, passa una scritta che diceva più o meno così: “Se hai compiuto 60 anni e non sai cosa farai da grande partecipa al nostro spettacolo”. Seguivano un numero di telefono ed uno di fax. Quasi istintivamente, mi sentii interessato all’invito che mi richiamava ai tempi della fanciullezza e della prima giovinezza, quando avevo recitato sia al Carro di Tespi sia in una filodrammatica parrocchiale. Il Carro di Tespi era una splendida iniziativa di un’argentina, che scriveva testi e musiche e poi curava anche la regia. Si chiamava Ester Valdes e cantava anche alla radio.
     L’iniziativa di Ester Valdes riceveva il supporto economico della GIL (Gioventù Italiana del Littorio) di Napoli. Ogni anno andava in scena una nuova Rivista musicale. Recitavamo nei principali teatri partenopei, sempre stracolmi non solo di ragazzi ma anche di adulti. Gli spettacoli della Valdes, infatti, erano semplicemente deliziosi, le musiche orecchiabili, i minuscoli attori bravissimi. Ricordo, per esempio, Massimo Cecere, un viperino di sette od otto anni, che possedeva una comicità naturale, innata, che trascinava la platea in fragorose risate. Ma Ester Valdes alternava momenti sentimentali, storici e, naturalmente, patriottici. Io ho recitato nel Carro di Tespi dal 1938 al 1943, dunque anche durante il periodo bellico, per cui nelle riviste scritte e rappresentate dopo il 1940 non mancavano mai “quadri” riflettenti lo stato di guerra, i soldati al fronte, le mamme rimaste lontano a pensare ai loro figli. Gli spettatori, quindi, passavano da stati d’animo gioiosi ad altri pensosi e magari tristi, ma erano sempre vivamente interessati a ciò che accadeva sulla scena. Tra le mie cose più care, nel cassetto “Amarcord”, conservo ancora alcuni copioni delle riviste interpretate e non Le nascondo che, qualche volta, canticchio ancora quegli ineguagliabili motivi.
     Poi, dopo la guerra, mi sono trovato a recitare in una filodrammatica parrocchiale. Ricordo la mia interpretazione di “Ali spezzate”, un dramma nel quale ricoprivo il ruolo del “cattivo” che, nella scena finale, impazzisce e rientra nelle quinte con una risata nevrotica.
     Ma c’è anche un altro episodio che vorrei raccontarLe. Quand’ero ancora al Carro di Tespi, Sergio Tofano – ben noto ai lettori del “Corriere dei piccoli” come “papà” di Bonaventura – mi scelse per interpretare “Il piccolo scrivano fiorentino”, tratto dal libro “Cuore”. Erano i primi mesi del 1943 e mio padre attendeva la convocazione a Roma per la firma del contratto, quando successe il finimondo (caduta del fascismo, 8 settembre) per cui tutto andò a monte.
     Nel 1949 entrai nell’Accademia della Guardia di finanza ed ebbe così termine la mia esperienza artistica.
     Ecco perché quando quella sera di luglio ho letto l’invito di Rai Tre, ho segnato i numeri di telefono e di fax. Il giorno dopo ho provato a telefonare, trovando però sempre occupato. Ho allora inviato un fax. Non avendo ricevuto alcun riscontro dopo una decina di giorni, pensai che la cosa fosse archiviata. Invece mi giunse una telefonata di un addetto ai lavori, il quale mi fece una lunga e dettagliata intervista. Due giorni dopo, fui invitato presso uno studio di Napoli per una intervista dinanzi alle telecamere. La settimana successiva venni invitato a Roma per una ulteriore, più dettagliata intervista, sempre registrata dalle telecamere e la settimana successiva la mia casa fu invasa da tecnici che registrarono tutto il registrabile. Due giorni dopo, venni invitato a recarmi nel luogo dal quale Le scrivo e restarci cento giorni, in compagnia di cinque maschietti e sei femminucce. Ma per fare cosa?
     Il “compitino” che noi dodici ci siamo accollati è costituito dalla scrittura e poi dalla recita di un testo teatrale, di nostra libera scelta. La rappresentazione dovrebbe avvenire in un teatro di Roma e mandata in onda, sempre su Rai Tre. Per fare tutto questo, non è previsto alcun compenso, anzi abbiamo sottoscritto una “liberatoria” per la quale la Rai può fare ciò che vuole delle registrazioni della nostra vita quotidiana. Un “Grande fratello” per nonni, come qualche male infornato ha scritto? Nemmeno per idea, se di ciò si fosse trattato, nessuno di noi avrebbe aderito alla proposta. Entriamo ed usciamo dalla bella residenza nelle vicinanze di Roma che ci è stata assegnata, telefoniamo e riceviamo visite di amici e parenti.
     Non Le ho ancora raccontato, però, perché mi sia deciso ad una simile esperienza ma è presto detto. Lei sa che ho dedicato una vita al diritto tributario, dapprima come appartenente all’Amministrazione finanziaria, poi, dopo il congedo dalla Guardia di finanza, come divulgatore di “cose” tributarie. Piano piano, però, negli ultimi anni, la legislazione tributaria si è andata sempre di più allontanando dagli schemi scientifici del diritto, per rifugiarsi in una sorta di labirintica costruzione di regole e regolette, concernenti la “casella” da barrare, il “rigo” (chissà perché non “la” riga), sul moduletto da riempire. Che cosa sia rimasto di Benvenuto Griziotti o di Antonio Berliri (per citare a caso tra i padri del diritto tributario) è veramente arduo dire. Né posso trascurare quelle autentiche cannonate contro la “dignità del diritto” (ma fors’anche contro la dignità senza specificazioni) costituite dalla serie di condoni che consentono di affermare che, in questo Paese, guadagna sempre di più chi se ne frega delle regole: tanto, si troverà sempre una motivazione sufficiente (o ritenuta tale) per far “digerire” il successivo condono a chi – per ingenuità o per paura – non aveva violato.
     Ebbene, tutto questo ha finito col darmi la nausea. Quando ho letto la soprascritta di Rai Tre, ero in uno stato di astenia tributaria. Non seguivo più nulla, perché ogni lettura “tecnica” mi provocava il voltastomaco. Così ho deciso di voltare totalmente pagina e di affidarmi ad un’esperienza del tutto diversa da quella maturata negli ultimi cinquant’anni. Se in questi cento giorni riuscirò a guarire dalla mia astenia, bene. Altrimenti avrò chiuso definitivamente non solo con la labirintica tributaria ma col diritto tributario in genere. Per gli altri, non sarà un gran male. Ma certamente farà bene alla mia salute.

(Da Bollettino tributario d’informazioni n. 18 del 2003)



Supersenior / 2

Caro Lettore,
     la mia permanenza a Castel San Pietro volge al termine, se Dio vuole, perché ogni bel gioco dura poco. Ed io, di questo gioco, mi sono un po’ scocciato. Come Le ho detto in precedenti occasioni, noi dodici (cosiddetti) super senior siamo stati scelti in base a criteri a noi non noti. Comunque, forse non a caso, era stato incluso un personaggio, Aldo, che aveva esperienze pregresse in campo teatrale, come drammaturgo, regista ed attore. Un giorno tutti noi, all’unanimità, abbiamo votato Aldo come regista dello spettacolo. Poi Aldo è stato contestato come regista, per essere poi ripristinato successivamente, e così per tre o quattro volte. Probabilmente, il motivo di questi alti e bassi è dovuto al fatto che, come qualcuno di noi si ostina a ripetere, siamo tutti “primus inter pares” ed è allora evidente come, quando ci sono tanti galli a cantare, non possa spuntare mai giorno.
     Bisogna anche aggiungere che, in mezzo a noi, ci sono personaggi che spiccano per creatività, che sono autori di testi (poesie e canzoni) molto belli e che, forse, sotto sotto, aspiravano alla funzione di regia. Non so. Io, di teatro, non capisco nulla se non nella veste di spettatore e quindi non mi sono certo mai messo in competizione per diventare regista. Fatto sta che Aldo, il regista vero che aveva tutti i numeri per esserlo anche del nostro spettacolo, è stato contestato al punto che abbiamo dovuto chiedere l’intervento di un regista esterno che si è materializzato nelle vesti di Fabio Lionello, uno dei quattro (o cinque?) figli di Oreste Lionello, quello del “Bagaglino”, l’inimitabile imitatore di Giulio Andreotti e di Saddam Hussein.
     Questa “sostituzione” del regista è avvenuta a tre settimane dal debutto in teatro del nostro spettacolo. Come è già accaduto nel film “Prova d’orchestra”, del grande Federico Fellini, quando tutti gli orchestrali fino a quel momento ribelli si erano improvvisamente messi d’accordo sotto l’incombere di un pericolo esterno (che, nel nostro caso, era costituito dal non andare in scena), tutti i miei “soci” hanno ritrovato l’armonia, hanno smesso di competere, ed ora accettano da Fabio Lionello tutti i tagli, le correzioni e le modifiche che non avevano accettato da Aldo, il “primus inter pares”.
     Devo dire che questo Lionello si sta dimostrando, come regista, molto in gamba, perché escogita e suggerisce soluzioni sceniche molto originali, come Lei stesso potrà constatare, se avrà la pazienza di vedere il nostro spettacolo su Rai Tre il 26 e 27 dicembre di quest’anno e poi il 2, 3 e 4 gennaio del prossimo anno, in prima serata, credo alle 20:10.
     A tal proposito, varrà anche la pena di ricordare che la trasmissione “Supersenior”, mandata in onda in un primo momento la domenica alle 21:00, è stata spostata al mercoledì notte, alle 23:45, per insufficienza di “audience”. La “audience” è il mostro televisivo che dispone il successo o l’insuccesso di un programma, indipendentemente dalla sua qualità. Io, per delega dei miei “soci”, ho predisposto una rassegna stampa dalla quale risulta, senza ombra di dubbio, che la nostra trasmissione ha ricevuto critiche solo positive. Ma forse era troppo “intelligente” per allignare presso un pubblico che, in linea di massima, predilige telenovelas, fiction e quant’altro. Vero è che uno dei pochi divieti ai quali dobbiamo sottostare è quello di non vedere la televisione, per cui non sappiamo che cosa il regista manda in onda delle ore ed ore di registrazione che vengono quotidianamente effettuate. Potrebbe allora essere anche colpa della regia televisiva se in onda viene mandato il peggio, e non il meglio, di quanto registrato dalle telecamere.
     Dunque, la nostra permanenza a Castel San Pietro volge al termine ed io, senza nulla rinnegare della mia scelta estiva, essendo soddisfatto di questa esperienza del tutto nuova ed impensabile, non vedo tuttavia l’ora di concluderla. È stato interessante conoscere tante persone così diverse da me – per estrazione sociale, formazione e modo di proporsi – ma ora basta. Ciascuno torni alle proprie occupazioni. Forse qualcuno si era proposto chissà quali “ritorni” dalla partecipazione a questa trasmissione. Forse qualcuno sperava (o spera) di essere “ingaggiato” come attore, regista, interprete, autore o cos’altro, da televisioni pubbliche o private. Io che, come Le ho detto in una precedente lettera, volevo solo allontanarmi per un po’ da quella schifezza che è diventata la pratica tributaria, sono già soddisfatto dei risultati raggiunti. Mi sento abbastanza disintossicato, anche se non so se, negli altri cinquant’anni che mi restano da vivere, vorrò continuare ad occuparmi di cose tributarie. Si vedrà.

(Da Bollettino tributario d’informazioni n. 22 del 2003)



Sopra le righe

     Da bambino, ho abitato per alcuni anni a Casoria, una cittadina alla periferia di Napoli, oggi fortemente industrializzata ma allora con una chiara connotazione agricola. Per di più, la nostra casa, una bella villetta nel cui cortile io scorrazzavo con un’automobilina a pedali, era al limite del paese, quindi vicino alla campagna. Provvedeva alle faccende domestiche una contadinella, di nome Giulia, analfabeta, alla quale mia madre insegnò a leggere e scrivere. Poi Giulia volle che mia madre le facesse da madrina di Cresima e così diventò “commarella”, restando sempre in contatto con noi, anche quando cambiammo residenza e quindi casa. Quando mia madre morì, Giulia, naturalmente, fu informata e si precipitò a casa nostra dove cominciò ad urlare, a dimenarsi, a schiaffeggiarsi ed a strapparsi i capelli. In tal modo, manifestava il suo dolore, certamente sincero, con un rituale di campagna (quello di un tempo, ora credo che le cose siano cambiate anche lì) che io definirei “sopra le righe”. Qualcuno le fece notare, con la discrezione necessaria, che quel rituale non usava in città, lei capì e la situazione si normalizzò.
     Questo lontano episodio mi torna alla mente allorquando leggo le dotte dispute che si svolgono intorno al tema della omosessualità.
     Per non essere frainteso – come, purtroppo, capita quando si affrontano temi scottanti – vorrei fare una premessa. Da quando ho l’età della ragione, mi sono sempre dichiarato disposto a qualsiasi esperienza, con due eccezioni: la droga e la omosessualità. Questa mia solida determinazione non mi ha però impedito di cercare di capire – lasciando stare la droga, che meriterebbe un discorso a parte – le ragioni dei “diversi”. E qui devo riandare ad un altro ricordo.
     Allorquando avevo più o meno otto anni, la mia casa era frequentata da una giovane donna amica di mia madre, avvenente, e, per di più, fasciata in abiti che ne facevano risaltare le forme. Veniva a casa, sedeva sul divano, accavallava le gambe, sicché la gonna le scivolava sopra le ginocchia. A quel punto, io venivo sistematicamente assalito dal desiderio di giocare, ma sdraiato per terra, ai suoi piedi, in modo da poterne osservare non solo le gambe ma anche le cosce. Così ho scoperto la mia sessualità e su quella strada – anche se, ovviamente, con “modi” diversi – sono andato avanti.
          Ecco, io mi chiedo se la mia sessualità, invece che dalle gambe della signorina amica di famiglia, fosse stata attirata da parti anatomiche di un maschio, oggi dovrei vergognarmi? Insomma, se invece di essere un eterosessuale senza se e senza ma, io fossi stato un omosessuale od anche uno così e così, che cosa dovrei fare? Suicidarmi? Ma neanche per sogno.
     Perciò, a me sembra che l’unica cosa da fare di fronte alla realtà sia di prenderne atto: il terzo sesso esiste, punto e basta. È decretato dalla natura, al pari del colore della pelle, della struttura corporea eccetera.
     L’esistenza del terzo sesso comporta taluni risvolti umani e sociali di non facile soluzione. Per esempio, una coppia omosex (di due uomini o di due donne) potrebbe avvertire il bisogno della paternità o della maternità. Dovrebbe essere ammessa l’adozione? Secondo me, sì, anche se sono facilmente prevedibili le obbiezioni, la più intuitiva delle quali è che si rischierebbe di danneggiare l’adottato che ha in mente la figura genitoriale fatta di un uomo e di una donna, nel mentre si troverebbe a crescere o con due uomini o con due donne. Ma si potrebbe ribattere che sono tanti i motivi per i quali un bambino può crescere con la mancanza di uno dei due genitori: dalla morte prematura alla carcerazione eccetera.
     Altra questione è quella economica. Se due omosex hanno condiviso una vita intera, è giusto che la morte di uno dei due privi l’altro dei mezzi di sussistenza? Secondo me, no, e quindi la legge dovrebbe trovare il modo di non condannare all’accattonaggio quello dei due che sopravvive, per ipotesi privo di mezzi propri.
     È tempo di cercare di tirare le fila di questo lungo discorso. Quando si espongono queste questioni, il discorso è “nelle righe”, ossia ciascuno può partecipare con le proprie idee, di consenso o di dissenso non importa, ma in modo civile e controllato. È quando queste questioni vengono esasperate che si va “sopra le righe” e si rischia di conseguire effetti opposti a quelli che ci si prefiggeva. Proprio come capitò alla “commarella” Giulia.
     Un rischio del genere si corre tutte le volte in cui la pubblicità o gli articoli di giornale o addirittura le dimostrazioni di piazza ci parlano di “orgoglio gay”. Ma quale orgoglio? Si sono mai visti gli eterosessuali fare dimostrazioni per il loro “orgoglio”? E chi nasce in modo “diverso” dalla media (per esempio, più intelligente o più cretino, più bello o più brutto, più alto o più basso e via elencando) si è mai sognato di manifestare il proprio “orgoglio”? Uno stato di natura va accettato e vissuto per quel che è, altrimenti si va “sopra le righe”, dimostrando una visione dei problemi rozza, incivile e controproducente.

(Da Fiamme gialle n. 4 del 2009)



Quote rosa

     “A me le donne alte o basse, magre o grasse, bionde o brune, belle o brutte, piaccion tutte”. Non so più quale sia la fonte di questa frase che sta nella mia memoria, ma è certo che essa ha influenzato non poco la mia vita. Nel senso buono, si capisce, ossia nel senso di dedicare alla donna sempre un’attenzione particolare. Esempio. Nei periodi o nei giorni in cui, per un motivo o per l’altro, manca in casa l’aiuto domestico, io non ci penso su due volte a darmi da fare, anche se i lavori domestici non sono certamente la mia passione. Altro esempio. Io sono piuttosto irascibile e la guida in una città come Napoli mi offre occasioni frequenti per mettere a dura prova il mio fegato, in difesa del quale, seguendo i suggerimenti degli psicologi, emetto qualche moccolo. Ma se poi mi accorgo che la persona che sta alla guida dell’auto o del motociclo che mi ha messo in crisi, è di sesso femminile, il moccolo si spegne in gola ed io sorrido.
     “Già, tu sorridi perché, ritenendo la donna un essere inferiore, pensi che sia naturale che non guidi bene”. Questa è la risposta che qualche femminista arrabbiata (ne conosco parecchie) mi dà quando le racconto quanto sopra. Ma giuro che non è vero. Io sorrido soltanto perché se la donna è un dolce, come io la immagino, come potrebbe farmi arrabbiare una fetta di cassata siciliana o di pastiera?
     E poi io non considero affatto la donna un essere inferiore. Quando, negli anni verdi, fui redattore capo de “Il finanziere”, ricevetti una lettera di una ragazza proprio napoletana, la quale mi chiedeva se mi pareva giusto che alle donne fosse preclusa la carriera militare. Le risposi di no, che non lo ritenevo affatto giusto e che sarebbe stata solo questione di tempo: prima o poi anche le donne avrebbero avuto libero accesso a tutte le carriere, anche militari. Come è puntualmente avvenuto, anche se è avvenuto dopo che avevo dismesso le stellette, per cui, ahimè, mi sono dovuto accontentare di avere come collaboratori soltanto maschietti. Ne ricordo uno, bravissimo dattilografo (il computer era ancora da inventare) al quale dicevo: “Tu sei bravissimo ma vuoi mettere se al tuo posto ci fosse una bella guagliona?”. Ma quello, per la verità, non apprezzava, perché era un “maschilista fottuto” e riteneva che il giorno in cui le donne fossero entrate in caserma sarebbero stati guai.
     Non avendo esperienza diretta di caserme con donne, non posso dire che cosa sia in realtà accaduto. Ma posso dire che nelle scuole di ogni ordine e grado, nelle pubbliche amministrazioni, nelle aziende private, la presenza delle donne è stata sempre efficace e produttiva. Mia madre, tanto per dire, insegnava ed io ho conosciuto non so quante persone che avevano con lei un rapporto di familiarità, direi di devozione. Certo, la donna che lavora qualche problema all’andamento della famiglia lo crea ma questo non è un argomento per negarle la possibilità di lavorare. Volendo essere concreti, bisogna riconoscere che la famiglia patriarcale di una volta – nella quale l’uomo aveva il compito di procurare i quattrini e la donna quello di educare la prole e dirigere la baracca – non è che fosse un modello del tutto negativo, anche perché le donne che avevano veramente qualcosa da dire, lo dicevano eccome: Matilde Serao, Madame Curie, George Sand, sono nomi citati a caso tra i tanti di donne che si sono imposte anche in “altri tempi”, così come nei nostri si sono imposte una Rita Levi Montalcini o una Margherita Hack. Ma i tempi cambiano, la mentalità evolve e se la donna si propone, a torto o a ragione, come lavoratrice senza barriere non è che gli uomini debbano “riconoscere” questa possibilità, giacché non è un loro diritto dare o non dare: essi devono semplicemente limitarsi a prendere atto della mutata situazione, punto e basta.
     Tutto ciò stabilito, occorre però aggiungere che esistono anche in questo campo comportamenti “sopra le righe”. E, a mio avviso, si verificano tutte le volte in cui qualcuno vuole imporre le “quote rosa”, ossia un numero prestabilito di donne da includere, per esempio, nelle liste elettorali. Una volta ci fu una proposta che obbligava a candidare una donna ogni tre uomini, come se la ricerca delle capacità fosse da attribuire al caso. Angela Merkel, cancelliera tedesca, è emersa non in virtù di “quote rosa” e lo stesso dicasi per Margareth Thatcher, che ha superato gli ottanta, dopo aver dato una raddrizzatina al mondo intero.
     Per dirla fuori dai denti, questa storia delle “quote rosa” ha il sapore di un tardo-maschilismo che, sconfitto su un terreno sul quale si era dissennatamente arroccato, ora vuol farsi perdonare i trascorsi ma eccedendo. E gli eccessi sono da evitare, perché possono provocare il ridicolo.

(Da Fiamme gialle n. 4 del 2009)



Psicologia domestica

     C’è stata un po’ di maretta, questa mattina. Veramente la faccenda cominciò già da ieri, quando, dopo pranzo, nel momento cruciale dell’inizio dei compiti di scuola, Francesco mi confessò il suo irrefrenabile desiderio di giocare una partita a dama con me. Eravamo intenti a fare a mangia e soffia, quando spunta un raggio di sole.
     Un raggio di sole, di questi tempi, è una cosa assai rara. Rara e temporanea. Per cui, se uno si azzarda a mettere il naso fuori dell’uscio, rischia di tornare a casa inzuppato, perché al raggio di sole fa invariabilmente seguito un consistente scroscio di pioggia.
     Ad ogni modo, il raggio di sole venne fuori ed il giovane fu subito pronto a cogliere la palla al balzo: non so se in virtù del raggio o della possibilità di procrastinare ulteriormente l’inizio dei compiti. Papà, saranno almeno due mesi che non facciamo una passeggiatina nella villa. E va bene, accetto. Anche perché, essendo stato chino sulle carte fino alle due del pomeriggio, e con la prospettiva di starci ancora per ore, penso faccia bene anche a me respirare un po’ d’aria per una mezz’ora.
     Andiamo dunque in villa e prendiamo dal bagagliaio la bicicletta diventata ormai troppo piccola per lui. Ma le ruote sono sgonfie, ed il gonfietto che una volta avevamo non si sa bene dove sia andato a finire. Allora risaliamo in macchina, andiamo da un distributore di benzina e preghiamo l’omino di gonfiare le ruote. Ma le ruote della bicicletta non sono come quelle delle auto, quindi occorre cercare di adottare qualche espediente per far passare l’aria. Ma tutti gli espedienti si rivelano inutili. L’omino allora si dirige con calma verso il box e ne viene fuori con un aggeggino fatto apposta per gonfiare ruote di biciclette. Eravamo stati un quarto d’ora a cercare di utilizzare il tubo dell’aria per auto, ed ora occorrono pochi secondi per portare a termine tutta l’operazione. Non riesco a capire perché l’omino non abbia preso subito il gonfietto per biciclette, ma fa lo stesso.
     Torniamo in villa, ma, intanto, un buon quarto d’ora è già passato della mezz’ora preventivata. Mentre il giovane si esibisce in minicorse ciclistiche, io faccio esercizi di respirazione: dicono che servano a placare anche il sistema nervoso.
     Torniamo a casa e, mentre io me ne vado a smaltire i soliti dieci chili di carte giornalieri, lui penso che debba venire a nuovi patti con la madre. Dico «penso», perché perdo il filo del discorso che riallaccio soltanto questa mattina.
     Questa mattina è domenica, ed io, come tutte le domeniche, mi faccio il solito augurio {sistematicamente destinato a non essere esaudito) di poltrire mezz’ora a letto. Stamattina, infatti, mi sveglio con i suoni di una vivace contestazione. La mamma sta facendo una ramanzina al giovane. Gli dice che non rispettare i patti è segno di immaturità, che trovare scuse ad un proprio comportamento negativo non è cosa lecita eccetera, eccetera. Dato il linguaggio rigorosamente scientifico col quale queste cose vengono dette, io, tra veglia e sonno, non capisco chi sia l’interlocutore di Mariolina, ma immagino che debba avere almeno l’età del liceo. Così mi alzo e vado di là a vedere. Ma che liceo, qui è solo la terza elementare, la quale, però, a dire il vero, mostra di essere all’altezza della situazione.
     E lo mostra a tal punto, che, quando andiamo sotto la doccia, mi sembra di avvertire qualche lacrima. Ma, per averne la conferma, devo attendere che il giovane sia sotto l’azione dell’aggeggio che asciuga i capelli. Allora, in sintonia col ronzio del motorino, cadono, lente, le lacrime.
     Ed anche qui bisogna che rilevi la differenza tra queste lacrime e quelle talvolta procurate da me. Queste lacrime sono figlie della psicologia dell’età evolutiva, che la gentile signora studia coscienziosamente ed applica nei confronti dei figlio. Le lacrime che procuro io sono conseguenza diretta di qualche tempestiva sculacciata, figlia non di una materia scientifica, ma del popolare detto: mazze e panelle fanno i figli belli, panelle senza mazze fanno i figli pazzi.
     Perché, miei cari amici, questa è la situazione. Io sono un empirico e, pur ponendomi, a volte, come voi del resto sapete, problemi a lunga scadenza per quel che concerne il pargolo, risolvo quelli immediati empiricamente. La consorte, invece, pretende di dare a tutto un assetto scientifico ed allora i conversari si sprecano. Ma non solo i conversari.
     Infatti, dopo un po’ il giovane si mette alla scrivania e studia. Io mi trovo ad andare di là e che ti vedo? Le lacrime che si erano asciugate sul volto di Francesco, sono ora comparse su quello della madre.
     A questo punto, io potrei soltanto arrabbiarmi, perché certamente la gentile signora starà sottoponendo a critica serrata, e naturalmente scientifica, i suoi rapporti con il figlio. Ed io non dico che una madre non faccia bene a meditare sui suoi rapporti con la prole. Dico soltanto che a tutto c’è un limite.
     Lei dice che il bambino è psichicamente bene avviato e che anche se ora ha delle frustrazioni – dice proprio «frustrazioni» – tanto meglio perché non le avrà a vent’anni. E forse sarà anche vero, o almeno me lo auguro. Ma penso anche che se le mamme che hanno quattro o cinque figli volessero risolvere i loro problemi sempre dal punto di vista scientifico, starebbero davvero fresche! Non solo. Ammesso che avessero il tempo di dedicarsi a tanto e che i figli avessero la voglia di ascoltarle, sia pure a sette anni di età, non rischierebbero di trovarsi sommersi, mamme e figli, sotto un diluvio di parole?
     Ora il guaio è, con i tempi che corrono, e con la paura della contestazione che i genitori si ritrovano, le altre mamme che casualmente discorrono con la mia consorte di questi problemi, si trovano subito d’accordo con lei e si inducono ad adottare gli stessi metodi con i loro figli. E poiché potrebbe darsi che questi figli fossero anche vostri, sappiate che il sottoscritto non c’entra per niente con quei metodi. Anche perché questi metodi prima o poi finiranno con l’essere adoperati, sia pure con diversa etichetta, anche per voi mariti, ed io non vorrei essere mandato al diavolo proprio da voi.
     Sia dunque chiaro che io dissocio le mie responsabilità da quelle della consorte. Anzi, se lo volete, vi dò un consiglio. Non dico di fregarvene della psicologia, questo no: ma, quando vi capita e ce n’è il motivo, non private i vostri figli di una robusta sculacciata.
     Non so perché, le botte sul «popò» hanno il sapore delle cose sane ed antiche. Sanno di polli allevati col granturco e non con i mangimi chimici, di vino spremuto dall’uva e non distillato nelle provette, di frutta colta dall’albero e non maturata nei frigoriferi.

(Da Il finanziere del 15 aprile 1971)



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