Tre Ivana



Ivanella Ivanella

Sono nata a Roma nel 1943, in un quartiere chiamato Valmelaina. Quartiere per modo di dire... Erano quattro palazzoni di otto piani, e tutto prato intorno. C’era un vecchio autobus sgangherato che faceva capolinea a Porta Pia, costeggiando una discarica a cielo aperto. Noi non prendevamo quasi mai l’autobus, ma quando capitava, non essendo abituata, vomitavo dal finestrino.

I miei genitori hanno avuto sei figli: quattro femmine e due maschi. Si erano conosciuti a Roma, dove mia madre lavorava come pulitrice di treni. Era bella mia madre... Formosa, bruna, lineamenti marcati, capelli raccolti da una specie di chignon tenuto da una retina nera. Nonostante avesse fatto solo la prima elementare, sapeva districarsi in tutto. Mio padre no. Era alto, longilineo, biondo, taciturno... S’accontentava di tutto. Non l’ho mai sentito lamentarsi. Quando non c’era vino in tavola, lui allungava l’acqua con l’aceto. Lavorava alla Cisa Viscosa, uno stabilimento dove non ricordo che cosa producessero ma ho ancora nelle narici la puzza di zolfo che lui aveva addosso.

Io sono la quinta della famiglia... A dire delle mie sorelle, mia madre non mi voleva. Dopo tre femmine era arrivato il sospirato maschio... Due anni dopo, in piena guerra, nacqui io. Piccola, denutrita, piangevo sempre... La fame era tanta, e mia madre, non avendo latte, mi faceva delle pappine con le bucce dei piselli. Ero spesso malata e talmente magra che una volta, quando suonò l’allarme per andare al ricovero, mia sorella più grande mi avvolse in una coperta e corse verso il rifugio, ma giunta a destinazione si accorse che la coperta era vuota. Io, nuda, ferita, fui raccolta da un nostro vicino.

Intanto crescevo, minutina e pallida. Mia madre, di nascosto dai miei fratelli, mi dava sempre qualcosa in più da mangiare. Ero esentata dai lavori domestici, che venivano svolti a turno dalle mie sorelle più grandi. Erano loro che andavano a lavare alle fontane e a stendere la biancheria (molto scarsa...) sul terrazzo, situato all’ultimo piano.

Mi ricordo tanta solidarietà tra i vicini... Ci si prestava di tutto, dall’olio alla candela che mia madre adoperava per inamidare i fiocchi del grembiule di scuola. La spesa si faceva per mezzo della “cartina”. Era un foglio su cui i bottegai annotavano la spesa, che veniva pagata alla fine del mese. Noi eravamo sempre in ritardo nei pagamenti, ed io cominciavo a vergognarmi di quella miseria. Nonostante mia madre mi picchiasse sulle gambe con una specie di frustino per indurmi a fare la spesa, tenni duro e rifiutai sempre.

Crescevo furba, curiosa di tutto e di tutti. Sono l’unica della famiglia ad avere un diploma di scuola superiore. Studiavo su libri vecchi, prestati. Mia madre trovava stupido studiare, tanto tra qualche anno mi sarei sposata e avrei badato alla casa e ai bambini, diceva...

Il nostro cortile era pieno di giovinetti che giocavano a nascondino, alla corsa, a Uno, due tre: stella!... Malgrado la miseria, noi bambini eravamo felici. Bastava un cartoccio di castagnaccio per farci gridare di gioia. Giocavo spesso nel cortile come un maschiaccio... Un giorno corsi a casa. Forse avevo fatto la pipì addosso, nonostante avessi tredici anni. Cosa mi era accaduto? Che cos’era quella pipì così scura? Mia madre mi spiegò che era il menarca... Ero, insomma, diventata... donna. Non sapevo nulla fino ad allora, e non capii quando lei mi mise tra le gambe uno straccetto bianco tenuto attaccato alle mutandine da due vistose spille da balia. Mi spiegò che adesso non avrei potuto, dovuto, più giocare con i maschi. Anzi, per non avere guai era meglio evitarli. Curiosa come una scimmia, mi feci spiegare tutto da un’amica più grande. Rimasi scioccata quando mi rivelò da dove escono i bambini...

In famiglia c’era tanta povertà... Noi occupavamo un appartamento popolare composto da una stanza da letto e una cucina; il bagno era talmente stretto che quando veniva il grasso zio Aristide faceva fatica ad arrivare al water. Noi figli dormivamo in due in ogni lettino, e le nostre coperte erano i cappotti. Naturalmente non conoscevamo il frigorifero. D’estate passava un omino che vendeva, a pezzi, lastre di ghiaccio. Toccava sempre a me andare a prenderlo, insieme all’acqua fresca che sgorgava dalla fontanella alla fine della via.

S’aggiustava tutto, perfino i piatti. Se si rompeva di netto la grande insalatiera, c’era chi con un trapano metteva delle grappette e stuccava il tutto. Così con gli ombrelli... Non si buttava nulla.

La domenica era una festa. Mettevamo il vestito nuovo, si andava in chiesa, mentre in cortile c’era un via vai di soli uomini con in mano il sapone e l’asciugamano sulle spalle. S’apprestavano a lavarsi nell’unico bagno pubblico del rione, che con cento lire ti toglieva lo sporco di una settimana. Le donne, invece, con le teglie sulla testa, andavano nell’unico forno. Tutte in fila, aspettavano il proprio turno. Mia madre aspettava lì la cottura ultimata. Per controllare, diceva, che il fornaio non mangiasse le cosce del pollo o le patate, con la scusa di saggiarne la cottura.

Eravamo così poveri che non possedevamo neanche il secchio per l’immondizia. Mia madre adoperava una vecchia cofana da muratore, tutta arrugginita. Questa, la sera veniva messa fuori dalla porta con tutti i suoi rifiuti. Prestissimo, al mattino, passava l’uomo... il mondezzaio con il sacco di iuta, che dall’ultimo piano trascinava il sacco lasciando una fetida scia per le scale che ognuno poi, al mattino, ripuliva dal proprio piano.

Da bambina non sono mai andata in vacanza. Le mie vacanze le ho trascorse insieme ai bambini del mio palazzo, a duecento metri da casa... C’era un enorme prato pieno di papaveri e giunchiglie, e tanti alberi d’acacia. Lì i nostri sogni diventavano realtà. Io ero Jane, la donna di Tarzan, o l’odalisca del ricco califfo, o semplicemente una mamma; ora una maestra, ora una ladra inseguita dalle guardie... Ci divertivamo molto noi bambini, il tempo non ci bastava mai. Tornavamo a casa stanchi, felici di non avere nulla.

Ma ormai il tempo dei giochi volgeva al termine. Crescevo esile, non alta... e dagli sguardi e i fischi dei miei coetanei dovevo essere proprio carina. Presi il mio diploma di terza media... Voti altissimi, ero contenta di me stessa. Ora avrei cominciato a guardarmi intorno. Volevo un lavoro. Ma questi arrivò solo due anni dopo... con l’amore.

Questa è la storia di Ivanella... Così mi chiamavano, perché ero minuta. La prossima storia sarà Ivana a raccontarla, un’Ivana adolescente, alle prese col suo primo amore e il suo primo lavoro.


Ivana Ivana

Lo trovai ai magazzini Standa il mio primo lavoro. Apprendista commessa... Non mi sembrava vero: avevo un lavoro, uno stipendio, e il contatto con la gente era per me fondamentale. Di questa mia inclinazione se ne accorse il gerente, dott. Di Cola, che mi collocò all’ingresso del magazzino come propagandista. Riuscivo a vendere di tutto. La mia chiacchiera, la disponibilità, la simpatia, mi fecero conoscere e amare da tutti, clienti e compagne di lavoro. Non ho mai avuto litigi, ma guai a scambiare la mia disponibilità per debolezza. Allora veniva fuori un’Ivana tigre, pronta a far valere i suoi diritti.

In famiglia erano contenti. Ero l’unica delle mie sorelle ad avere un lavoro che non fosse fare le pulizie... Naturalmente, lo stipendio veniva dato ogni mese a mia madre. Era lei che mi passava poi una somma per l’autobus o per le calze. Mi sentivo soddisfatta, non pesavo più sul magro bilancio familiare... Ero quasi fiera di me.

Ma un giorno bussò alla porta l’amore... Bussò veramente. Mai avrei immaginato che quel giovanottone alto, robusto, sarebbe diventato l’uomo della mia vita. Andò così... In quel periodo, nel mio palazzo lavoravano gli operai per la ristrutturazione delle case popolari. Il capo della ditta era proprio quel ragazzone che bussò alla mia porta, che io avevo soprannominato Maurizio Arena per la grande somiglianza con il noto attore dell’epoca. Naturalmente, tutte le ragazzine gli ronzavano intorno. Eravamo tutte affascinate dalla motociclettona Norton 500, che lui possedeva. All’epoca non c’erano che pochi esemplari in giro...

Lui non mi guardava mai. Con le altre invece rideva, scherzava... Mi feci da parte. D’altronde, pensavo che fosse giusto così. Come potevo pretendere che un tale bel ragazzo si accorgesse di me? Ero magrissima, quasi senza seno, fondamentale per l’epoca, dove andavano di moda le maggiorate. Io ero il tipo opposto di donna che andava per la maggiore allora, formosa e sexy. Ma... un giorno, rientrando dal lavoro, trovai ad aspettarmi un operaio della ditta. Con mia grande sorpresa, mi invitò a nome del suo capo a ballare. Allora si ballava in casa. Si spostavano i mobili, si spandeva del borotalco per terra (per scivolare un po’...), pasticcini fatti in casa e vermut per tutti. Il cuore mi batteva a tremila, e tra un no, si, vedremo... accettai!

Quando entrai in casa sua, capii subito quanto io fossi povera. Nel salone troneggiava un grande salotto di velluto rosso, che io avevo visto solo nei film americani. Tante stanze... Ognuno aveva la sua, al contrario di noi che eravamo come i tre moschettieri: una per tutti e tutti dentro una!

Come Cenerentola, ballai con il principe... pardon, con Maurizio Arena alias Piero. In preda all’emozione devo aver detto tante sciocchezze, perché Piero si dileguò e ballò per tutta la sera con una maggiorata alla Anita Ekberg... non senza aver raccomandato al suo operaio di riaccompagnarmi a casa all’ora stabilita da mia madre.

Ero delusa, amareggiata... Sentivo che quel ragazzo mi faceva star male, anzi bene. Non so... forse mi stavo innamorando per la prima volta.

Per qualche settimana non lo vidi. Poi una sera, fuori dalla Standa... «No!», dissi, «Non può essere lui!» Ci salutammo dandoci la mano. Poi la stupida storia del passavo di qui, mi sono ricordato dove lavoravi... Salii sulla sua bellissima macchina Opel 1700, tra gli sguardi delle mie amiche incredule. Quella sera parlammo molto, fummo sinceri e quasi delicati, ma non ci fu neppure un bacio. Mia madre diceva sempre che era sconveniente dare un bacio al primo appuntamento... Ma dentro di me lo desideravo, ero curiosa di sapere che cosa avrei provato, come avrei reagito. Ci demmo appuntamento per la domenica successiva. Avremmo fatto una gita insieme a un’altra coppia... Un picnic all’EUR.

Provate a tornare indietro di circa mezzo secolo... L’EUR (anzi, E 42 si chiamava allora...) era una specie di grande distesa di prati, e i romani facevano lì i loro picnic. Misi il vestito più bello che avevo, tutto fiorato, con una sottogonna inamidata com’era di moda allora, grande cintura e sandali di cuoio. Mi sentivo Cappuccetto rosso che andava incontro al lupo, tanta era l’inesperienza, la paura, la voglia d’amare...

Ci sedemmo tutti e quattro sull’erba. La tovaglietta a quadretti rossi e bianchi distesa con ordine, i panini, le gassose portate dai ragazzi. Giocammo a palla, a carte... Poi l’altra coppia rincorse la palla... e noi rimanemmo soli. Mi prese tra le braccia, delicatamente mi strinse a sé e... posò le sue labbra aperte sulle mie. Sentivo la sua lingua dentro la mia bocca... Mi ritrassi quasi schifata. Se questo era l’agognato bacio che volevo, che avevo desiderato... beh, no, non mi era affatto piaciuto. Rimasi in silenzio per tutta la sera. Mi sentivo sporca... e non vedevo l’ora di tornare a casa.

Ci volle la pazienza di Piero, che pian piano col tempo mi insegnò tutto sull’amore. Io apprendevo presto, e presto finirono tutte le mie paure. Finché venne fuori la donna che si donava al suo uomo con amore, un amore per me così grande da ricordarlo dopo tanti anni con la stessa tenerezza e lo stesso slancio d’allora.

Ci fidanzammo per circa tre anni... Non potevo desiderare di più dalla vita. Piero era premuroso, generoso fino all’inverosimile. E io l’amavo così tanto da sentirmi quasi... una miracolata.

Una sera di dicembre mi chiese di sposarlo. Dissi subito «Si, si, si, si...», e lo baciai ripetutamente. Mia madre, alla mia felicità oppose un silenzio motivato dal fatto che non avrei dato più lo stipendio a casa. Fu così...

Piero in poco più di due mesi affittò uno splendido villino nel verde, l’arredò con ciò che insieme avevamo scelto, pagò tutto, dalle bomboniere al mio abito da sposa, al pranzo, al viaggio di nozze. La mia famiglia non poté darmi nulla. Si erano sposate le altre sorelle prima di me... e quel poco era andato a loro. Mi sentivo così povera, così meschina per non aver contribuito a nulla.

Ivana Ci sposammo il ventuno di febbraio nella chiesa SS. Cosma e Damiano, ai Fori imperiali di Roma. Avevo un bellissimo abito bianco di raso, semplice, con una coroncina di fiori sulla testa e un lunghissimo velo. Ero al settimo cielo! La festa indimenticabile, gli amici, i parenti, le danze, e Piero che era diventato mio marito... Come in quella canzone di Cocciante... perché Piero adesso è mioooo!

I primi tempi, il nostro matrimonio lo vivemmo come una favola: lui al lavoro, io la brava mogliettina che gli faceva trovare tutto in ordine, tutto pulito... Cucinavo molto. Doveva essere soddisfatto di me, non avrebbe dovuto mai pentirsi di avermi sposato.

I mesi passarono... quando mi accorsi di aspettare un bambino. Non dormimmo la sera che lo dissi a mio marito... Continuava a toccarmi la pancia... Fantasticammo insieme, come fanno tutte le coppie. A chi somiglierà? Biondo o bruno? Maschio o femmina? Insomma, eravamo al settimo cielo. Piero poi telefonò a tutti, divulgando la notizia. Perfino al postino disse: «Sa, diventerò papà...». «Auguri...», rispose quasi scuro in volto il postino. Dopo seppi che aveva avuto otto figli...

Venne alla luce un maschio di quattro chilogrammi, una mattina alla fine di ottobre... Partorii in casa, come mi suggerì Piero. Perché diceva che all’ospedale spesso scambiavano i bambini... Per fortuna andò tutto per il verso giusto, e l’ostetrica fu bravissima. Bolliva i fiaschi con l’acqua, metteva i giornali sotto le lenzuola... Ora, a distanza di tempo, se ci penso mi vengono i brividi.

Il primogenito si chiama Alessandro, e per accudire lui lasciai il lavoro e feci la brava mammina... Dopo cinque anni nacque Francesco, e dopo altri quattro Iuri. Eravamo una famiglia, ma col tempo...

...cominciarono i litigi. Avevamo modi diversi nell’educazione dei bambini, che intanto crescevano. Sani, intelligenti, belli. Ho dovuto dire loro troppi no per bilanciare i troppi si di Piero, che li viziava a tal punto da permettere quasi tutto. Io ero per le regole, gli orari, i valori veri (quelli basati sull’onestà, sulla solidarietà, sulla rinuncia), il valore del denaro...; lui era un eterno Babbo Natale per i figli. Mai una ramanzina, mai un castigo... Io ero la cattiva, e lui il buono.

Tra un litigio e una rappacificazione sempre più lontana, passarono gli anni. I ragazzi crescevano senza traumi, sereni, ignari dei nostri litigi sempre più frequenti e nascosti. Finanziariamente stavamo bene. Facevamo vacanze a Capri, conoscevo i migliori ristoranti, avevo bei vestiti, una bella casa... Ma ero sola.

Spesso Piero passava le notti nelle bische, a dilapidare i suoi ingenti guadagni o a consolare qualche amico ubriaco. Quando gli rinfacciavo questo, mi rispondeva: «Cosa ti manca? Cosa vuoi comprarti?». Col tempo non mi ribellai più al suo modo di vivere. Ero stanca, delusa, amareggiata. Ciò che faceva felice lui rendeva infelice me, e viceversa. I nostri rapporti intimi si diradarono... Io avevo finti mal di testa e lui finti lavori da finire. Forse l’amavo ancora, ma non lo stimavo. La stima per me è alla base di un rapporto d’amore... Ma nonostante tutto continuammo a vivere insieme. Anche perché... dovrei sarei andata con tre figli, senza un lavoro e nessun appoggio famigliare?

Vivevo in casa come una reclusa, lavando, cucinando, rassettando... come può fare una domestica ben retribuita. Non mi lamentavo. Mi piaceva vedere tutto in ordine, e vedere i miei tre figli diventare ormai giovinetti. La sera li guardavo mentre dormivano... Erano bellissimi, diversi tra loro, e soprattutto erano buoni, educati... Non avrei potuto desiderare di più. Loro appagavano tutte le mie aspettative di madre, e io riversavo su di loro tutto l’amore che avevo dentro di me senza però soffocarli. Perché (tornando indietro con la memoria...) capivo le loro esigenze d’adolescenti, la musica a tutto volume, i loro silenzi improvvisi, il lavarsi più spesso, e lo specchio preso di mira; capivo che di lì a poco una tempesta di ormoni gli avrebbe cambiato la voce e fatto spuntare i rari peli della barba. Mi sarei trovata, ormai quarantenne, a discutere non più con bambini ma con piccoli uomini pronti a far valere le proprie esigenze.

Avevo sempre tenuto loro nascosto il vizio di giocatore d’azzardo che aveva il padre... Non volevo che la loro stima e il loro affetto venissero meno. Non spettava a loro giudicare. A loro non aveva fatto mancare nulla. Non volevo che fossero delusi...

Ma... una notte a Roma ci fu il terremoto. Piccole scosse, ma impauriti scendemmo tutti in strada. E quella notte Piero non c’era...


Terremoto

T’ho aspettato fino a tardi ieri sera,
nun me so’ manco spojata.
Poi... nun so, me so anninnata
e nun t’ho penzato più.

Sto a sogna’! Ma che succede?
Sento move’ forte er letto,
come se qualcuno sotto
lo volesse tira’ su.

Apro l’occhi, imbambolata,
guardo, e vedo er lampadario
che sembrava fosse in moto.
Mamma mia!... Er teremoto!

Sarto sverta giù da’ letto,
chiamo poi li regazzini
che dormivano vicini...
come tre Bambin Gesù.

«Scappa!»,
dico ar più granne.

«A ma’, t’aiuto?... Come fai?»

«Scappa, nun me crea’ guai,
‘n te ce mette’ puro tu!
Va’ a vede’ do’ sta tu’ nonno.
Po’ro vecchio, nun ce vede...
Io sto là, t’aspetto a sede’
a quer prato che sai tu.»

Quanno poi trovai mi padre,
s’abbracciò li regazzini
e s’accorse che ero sola,
con un nodo rotto in gola:

«Quer zozzone dove sta?
Come ar solito, a gioca’
in quarche bisca clandestina!
Spero che rinzavirà.
Ma ‘n t’ ‘a devi sta’ a pija’...
Qui c’è sempre ‘sto vecchietto
che te v’ole tanto bene,
anche se tu, le pene,
nun gne v’oi mai racconta’.»


La paura era passata...
Semo tornati tutti a casa,
e tornasti puro tu.

Sei tornato,
e te sei sbracato ar letto,
senza scuse né rispetto,
senza un po’ de dignità.

«Chiudi tutto, che so’ stanco.
Vo’io famme ‘na dormita...
E sve’iame sortanto
quanno è ora de magna’.»

Me sve’iai puntuale
pe’ vede’ er teleggiornale.

«Che c’è stato? Er teremoto?!
Aò, mica l’ho sentito!
Ero appiccicato ar gioco,
stavo fora de città.

Guarda quella come piagne!
Quella co’ li regazzini,
quella che se copre tutta,
che nun vo’ fasse inquadra’.»


Io versavo la minestra,
e l’augurio più sentito,
puro se sei mi’ marito...:
te potessi poi strozza’!!!

No. Piero quella notte, come tante altre, non c’era. I ragazzi non mi fecero domande, ma dai loro sguardi intuii che sapevano... e tacevano per esorcizzare un dolore mai palesato.

Alessandro, mio figlio più grande, avrebbe dovuto diplomarsi in agraria... Ciò avvenne dopo qualche mese, con risultati... sufficienti.

Si andava avanti a fatica. Io nascondevo il mio malessere di donna delusa, frustrata; Piero le sue perdite al gioco. I figlioli, ormai consapevoli della situazione, rimanevano neutrali e apparentemente sereni.

Ma la tempesta non tardò ad arrivare. Non capivo gli strani comportamenti di Piero, i suoi discorsi senza senso, le sue manie diventate quasi ossessive... Quando riuscimmo a portarlo da un dottore, analisi, visite, piccoli ricoveri... gli fu diagnosticato un tumore maligno al cervello. Purtroppo, inoperabile. Passammo da un medico all’altro, da un ospedale all’altro, tra speranze, paure, preghiere. Ma tutto questo finì in un freddo giorno di febbraio del 1986... Piero morì.

Di quel giorno non ricordo quasi nulla... solo parenti mai visti. E al cimitero, l’intera scuola di mio figlio. Ero rimasta sola. Avevo quarantadue anni, tre figli adolescenti, senza denaro, senza lavoro, e... senza voglia di vivere.


Iva Iva

«Per lenire il dolore, ci vuole tempo...», diceva mia madre. «Il tempo è il migliore dei medici.» Aveva ragione. Ma per quanto mi riguarda sono stati i miei figli a darmi questa forza.

Ero il padre e la madre, ero io sola il punto di riferimento, l’esempio. Eravamo noi quattro la nostra famiglia... Gli amici, i parenti, si erano quasi tutti dileguati. Bisognava cercare un lavoro... Ma io sapevo solo fare la commessa. Quando mi presentavo, per i datori di lavoro ero troppo vecchia... e avevo troppi figli. Poi, ripensandoci, come avrei potuto gestire gli orari di negozio? E la scuola dei ragazzi, il pranzo...? Così, quando mi si presentò l’occasione di fare la donna delle pulizie in un asilo gestito da suore accettai.

L’orario mi permetteva di portare i figli a scuola: entravo alle dieci del mattino e uscivo alle diciassette. I ragazzi più piccoli mangiavano alla mensa scolastica, il più grande (ormai diciottenne...) aveva il compito di andare a prendere a scuola il più piccolo, e nei ritagli di tempo sbrigare piccole faccende che non riuscivo a sbrigare io.

Alessandro trovò un lavoro part-time, distribuiva pasti nelle scuole. Francesco, dopo la terza media, non volle più saperne di studiare. Forse, dei tre, era quello che sentiva le responsabilità. Gli consigliai di imparare un mestiere che gli piacesse... E tramite mia cognata trovai una grande officina che aveva bisogno di un apprendista meccanico. Andammo a parlare con il proprietario, un uomo rozzo, ignorante, che subito mise in chiaro le sue regole: «Qui, se vuoi, imparerai un mestiere. Voglio puntualità, obbedienza... Ma sia ben chiaro: niente soldi!» Avrei voluto dare un calcio ben assestato a quel brutto ceffo, una specie di negriero. Ma mio figlio rispose: «Per me va bene.»

Al ritorno, parlammo molto io e Francesco... Gli spiegai che col tempo le cose sarebbero cambiate, gli dissi di rubare il mestiere con gli occhi, di tenere duro... perché purtroppo la vita non ci regala nulla. Per indorare la pillola, fantasticai con lui: «...tra qualche anno, forse avrai una tua officina. E vedrai che i giorni bui saranno soltanto un ricordo lontano.»

Furono anni durissimi... Lavoravamo in tre, ma lo stipendio era uno. Mettevamo tutti i soldi insieme e decidevamo le spese più urgenti. Per guadagnare qualcosa in più, qualche volta facevo la baby-sitter... dopo il lavoro. Le mamme dell’asilo conoscevano la mia storia e cercavano di darmi una mano...

Quando la sera, finita la giornata che era fatta di quindici o sedici ore, mi mettevo a pensare alla mia vita... Quale vita? Vivevo tutto il giorno in convento, e le feste a fare cose che durante la settimana non riuscivo a fare. Avevo tanti capelli bianchi... Stavo invecchiando, e non avrei voluto. Così cominciai a tingerli, come volessi tornare indietro per riappropriarmi di quella gioventù che non avevo vissuto.

Ma il destino era contro di me. E un giorno arrivò lo sfratto da casa... Ero tranquilla. Avevo un reddito basso, vedova, due figli minori... No, non avrebbero potuto farlo. Eppure lo fecero...

Il fabbro arrivò con la forza pubblica e cambiò la serratura, senza darmi il tempo di prendere il necessario. Non riuscivo più a parlare. Mi misi seduta sulle scale, stringendo fra le mani le vecchie chiavi di casa ormai inservibili, mentre Iuri urlava: «Un giorno vi ucciderò tutti, tutti!» Poi mi abbracciò e scoppiammo a piangere, senza ritegno.

Non sapevo dove andare, cosa fare... I parenti, avvertiti della situazione dai condomini del mio palazzo, vennero per darmi consigli. Ma nessuno mi invitò a casa.

Andai al lavoro. In convento raccontai ciò che mi era capitato... Le suore acconsentirono ad ospitarmi con i miei tre figli.

Dormivamo tutti in un magazzino. Ai lati, scatoloni; nel mezzo, quattro reti di fortuna. Non avevo lavatrice, né frigorifero, né televisore. Così i ragazzi passavano più tempo con gli amici che con me. Poi avevamo l’orario di rientro alle ventuno... Alessandro, qualche volta, essendo in ritardo, scavalcava il cancello di soppiatto. Ma fu visto da una signora dirimpettaia, che si affrettò a chiamare i carabinieri... perché, diceva, un ladro si era introdotto nel convento. Ci volle del tempo per spiegare, sia alle suore, sia ai carabinieri, che cosa fosse successo. Eravamo come prigionieri... Io a disposizione delle suore dall’alba al tramonto, e i miei figli cominciavano a sentire il peso di non avere una casa né spazi per loro.

Tutto questo durò un anno, circa... Presa dalla disperazione, scrissi al Presidente della Repubblica. Avevo sentito dire dalle suore che era stato un caro compagno della nostra Superiora... Non ci pensai due volte, e mentendo spudoratamente chiesi a nome della Superiora di avere una casa per una famiglia ospite del convento... in nome della nostra vecchia amicizia. Dopo circa quindi giorni fui chiamata da una suora: «C’è un carabiniere in motocicletta che chiede di te, Ivana.» Mi prese il panico. Avevano scoperto che ero io la latrice della lettera, mi avrebbero arrestata... Ero colpevole di millantato credito... I pensieri, nel raggiungere l’ingresso, si accavallavano. Ma non mi dispiaceva andare in prigione. Mi sarei riposata nel corpo e nella mente... Arrivata al cancello, quel carabiniere mi sembrava enorme. Mi sentivo come Pinocchio al cospetto di Mangiafuoco... Invece fu gentilissimo, e mi consegnò un invito al Quirinale. Le suore sapevano tutto, e la Superiora mi perdonò.

La settimana prossima andrò al Quirinale... Io a colloquio con il Presidente... Dovevo preparare un discorso, e soprattutto dovevo stare attenta al mio dialetto romanesco, che veniva fuori nei momenti di rabbia e in quelli dominati da forti emozioni. Come mi sarei vestita? Per notti intere non dormii... Poi arrivò quel giorno!

Ero in anticipo sull’orario, così feci quattro giri del palazzo. Poi presi coraggio e mi presentai all’ingresso. Due corazzieri, dopo aver controllato il documento, mi appuntarono sul petto un pass. Io li guardavo come si guarda un grattacielo. La testa arrivava al loro punto vita... Emozionata, mi avviai per un corridoio lungo e stretto, pieno di porte e porticine. Finalmente mi trovai al cospetto di un signore occhialuto e gentilissimo: era l’addetto alla segreteria presidenziale. Parlammo molto della mia situazione, e alla fine del nostro quasi amichevole colloquio mi consegnò un foglio... Mi era stata assegnata una casa!!! Ero talmente euforica che non riuscivo a trovare l’uscita, finché un usciere venne in mio aiuto. Ora avevo una casa. Mi sentivo forte, felice... Avrei affrontato qualsiasi cosa.

Gli anni passarono in fretta... Alessandro, dopo un concorso, è diventato ispettore sanitario alla ASL; Pierfrancesco ha una sua officina meccanica; Iuri è un guidatore di tram e bus. Si sono sposati tutti. Sono tre uomini con famiglia, e io sono diventata nonna. Non posso chiedere di più... I miei figli mi adorano, sono sempre presenti, le nuore semplicemente adorabili, i nipoti bellissimi.

Ora nella casa tanto desiderata vivo da sola. Ho avuto tanto dalla vita, ho amato molto, ho sofferto, ho gioito... Non c’è felicità se non hai conosciuto il dolore. La sofferenza ti rafforza e irrobustisce il tuo carattere. Vivo da pensionata, senza scosse, tra figli, nipoti e i documentari in TV di Piero Angela.

Ma un giorno, mentre guardavo un documentario sulla balenottera azzurra... passò in sovrimpressione questa scritta: «Avete sessant’anni? Vi piace recitare? Telefonate al numero...» Sarà la solita fregatura, pensai. Non credevo a quelli che dicevano... per caso, mi è successo per caso! Ero scettica, ma telefonai. Tanto, mi dissi, non avrebbero certo preso me.

Invece fui convocata per un provino. Pregai mia sorella di accompagnarmi, che lo fece a malincuore. Arrivate sul posto... sembrava di essere all’INPS nel giorno del ritiro della pensione. Mamma mia, la gente! Che belle signore, alcune ritoccate dal chirurgo plastico, altre molto volgari... Gli uomini, poi... Certi vestiti come ventenni... Ora vado via. Si, vado via!

«Signora, tocca a lei.», gridò l’addetta ai provini. Così entrai. Una lampada da interrogatorio di terzo grado a momenti m’accecò. Mi misero un numero sul petto, tipo maratona di primavera... Poi un signore che aveva l’aria di essere il capo incominciò a fare le domande:
- Quanti anni ha?
- Sessanta compiuti.
- Ha mai recitato?
- Ho interpretato Cenerentola, all’asilo dove lavoravo...
- Sa ballare, cantare...?
- Niente di tutto questo. So scrivere... per me soltanto. Poesie in dialetto romanesco...
- Vuole dircene una?
- Si...
- Grazie, le faremo sapere.

Dopo pochi giorni fui contattata... Ero una delle dodici persone che cercavano. Telefonai ai miei figli per sapere che cosa ne pensassero... Volevo la loro approvazione (anche se poi avrei fatto di testa mia, come sempre...). Furono tutti entusiasti e d’accordo per farmi provare questa esperienza televisiva. Dovevo andare in un castello della Sabina con altri undici compagni, sei uomini e cinque donne. Avremmo dovuto preparare uno spettacolo con le nostre esperienze vere, senza trucchi né inganni. Nessuno di noi sapeva nulla di teatro, di recitazione... Ci saremmo comunque divertiti.

Il sei settembre preparai la valigia. Giù in strada ero attesa... Accipicchia, ragazzi, che lusso!!! Sotto casa, una Mercedes con l’autista mi aspetta per portarmi al castello... Devo dire che sono emozionata! Dopo tanto grigiore nella mia vita, ho fatto questa pazzia. Voglio trasformare, per questo periodo, il grigio in rosso fuoco, per godere appieno di certe opportunità che non speravo toccassero anche a me.

Arrivata al castello, la musica di una banda. Ma... cribbio: è me che festeggiano! Due ali di folla mi accompagnano, sembro una star! Tra telecamere e applausi, entro nel castello. Evviva!... Che bello! Solo nei film ho visto certe dimore... Ora sono io la castellana, e devo dire che mi sento perfettamente a mio agio.

Conosco tutti i Super Senior che divideranno con me questi tre mesi. Siamo sei uomini e sei donne. A dire la verità, mi aspettavo di meglio... per gli uomini. Ma col passare del tempo ho dovuto ricredermi... per la bontà di Aldo, la simpatia di Francesco, la saggezza di Salvo, il self-control di Attilio, e così per tutti gli altri. Le donne hanno una parte importante nel gruppo. Io sono la meno istruita... Quasi tutti sono laureati, o pseudo-contadini acculturati... Parlano di politica, di jazz, di Mozart... Io arrivo, invece, al massimo a parlare di Gianni Morandi... Sono curiosa come una scimmia e rivolgo domande su domande, ma non mi sento certo fuori dal gruppo. Qualche volta, come in tutte le famiglie, si litiga... specie per la cucina: «Chi fa da mangiare?». Così stabiliamo due turni, non senza i mugugni di quelli incaricati di scrivere il copione. Neanche dovessero riscrivere La Divina Commedia...

La pace torna in fretta, è tutto stabilito, e io mi sento così coccolata... specie dalla troupe di Super Senior, pronta a soddisfare ogni esigenza con discrezione e celerità. Per questo, grazie a tutti!

Passo un periodo sereno, senza scosse. Mangio bene, gli amici sono simpatici, gli abitanti del paese semplicemente adorabili. Faccio teatro per la prima volta in sessant’anni, vivo in un castello che è una via di mezzo tra Camelot e un centro di benessere Mességué... Ditemi voi, posso chiedere di più?

No, non chiederò di più di quello che ho. Sono in ottima salute, ho una splendida famiglia, un tetto, mangio tutti i giorni, sono serena con me stessa e con gli altri. Non aspiro a gioielli e vestiti griffati... Adoro il mio prossimo...

Credo di aver vissuto tre vite... Ivanella, ragazzina spensierata e ingenua; Ivana, donna responsabile nei suoi doveri di madre; Iva, donna consapevole dei suoi diritti a vivere.

Ho provato a condensare in poche pagine tre vite in una, come accade in quei giochi in cui si chiede di ripercorrere una vita intera in un solo minuto... Ci sarò riuscita? Avrò tralasciato niente di importante?

Ciò che sfugge farà parte di un altro gioco, con altre regole... Si lascerà agguantare al momento propizio, come accade quando ci si può permettere il lusso di vivere davvero.

Vorrei raccontarvi ancora del rapporto con i miei figli... Soprattutto gag spassose, quelle che capitano senza volerlo... Accadrà altrove, su altre pagine... in una nuova storia.

Che i giochi continuino... finché non saranno fatti.

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