Liliana Un altro anno è andato...

E così anche un altro anno è passato, un altro da aggiungere ai tanti che già ho. Gli ultimi cerco di ignorarli, ma loro non ignorano me. Il tempo a volte assopisce e a volte esalta i ricordi... Sono nostalgie sottili sottili, non tanto per l’avvenuto ma per il lontano collocamento. Nella vita le scelte sono sempre casuali, gioca il destino. Non ci sono spazi per le incertezze. È la vita stessa che spinge. Ne ho sensazioni veloci di allerta inconscia, perché il tempo non riesce del tutto ad anestetizzare i ricordi e i desideri di quest’ultimo, molto più importante dell’oggetto medesimo. La convivenza diventa indispensabile, e con un pizzico di fantasia sono quasi felice. Il tempo, il mondo, la vita, il mutevole troppo veloce del tutto mi lascia a volte stordita e stanca come rincorrendo un treno che è partito troppo veloce chiudendo le porte. Io voglio raggiungere almeno il predellino, e lì rimanere attaccata per ancora andare.
La prossima volta vi parlerò dei miei confronti fra l’allora e l’oggi.
Un augurio e un abbraccio per il seguirci ancora.
Il mio affetto a tutti...

Liliana



L’ultimo baluardo

Una cosa che mi lascia sgomenta (da ex costumista teatrale e cinematografica) è la moda, perché non solo è cambiata ma non esiste più. È stata sostituita dal cattivo gusto, e un capo da tempo completamente scomparso è la sottoveste. La sottoveste, così maliziosa e un poco intrigante, un’intercapedine fra l’abito e il corpo, un piccolo baluardo di seta prima di arrivare a carezze che allora si chiamavano lascive. Caduta la sottoveste, era la resa. La resa di una dolce battaglia... Ora si mette in sostituzione dell’abito. Lei, che è sempre stata nelle retrovie, così, sbattuta in trincea a difendere il niente. Quanta nostalgia...



Roba da ricchi, roba da poveri...

Altro abbigliamento del quale non posso fare a meno sono i jeans. Portati a tutte le età: i giovani per rassomigliarsi fra di loro, gli anziani per assomigliare ai giovani. Nella variante ci sono quelli volutamente “strappati”, il cui significato mi sfugge. Con gli strappi e le toppe sdrucite per somigliare ai poveri e con questa finta indigenza far si che i poveri si sentano ricchi. Ma non è così. I poveri le toppe non le hanno più. Ora loro vestono bene. Sono eleganti, portano gli abiti smessi dei ricchi quando ancora si vestivano da tali. E dei jeans a vita bassa portati indipendentemente dal fisico, ne vogliamo parlare? Ho visto ombelichi su pance sfatte che, come un occhio di Polifemo, ammiccavano tristemente, su cui pesava un rotolo di grasso come una lunga palpebra gonfia e stanca. Orrore...

Avevo dimenticato, in quanto pantaloni, quelli che vedo in giro portati da adolescenti, che hanno il cavallo che arriva alle ginocchia e dieci centimetri di gamba. Emulano i ragazzi americani del Bronx, le cui madri rifilando ai figli i pantaloni vecchi dei padri ed essendo certamente incapaci di accorciarli da sopra, li hanno accorciati da sotto tagliandogli le gambe. Ed è subito moda. La moda del clown nano del circo vattelappesca.



Quanti zeri!

Sono psicologicamente, e solo psicologicamente, in crisi finanziaria. Non capisco più niente. Il denaro non ha più valore e contemporaneamente il valore è solo il denaro. Ho la sensazione che in Italia ci siano in corso due monete: una che incomprensibilmente si raddoppia di continuo e l’altra che retrocede fino quasi a sparire. Leggo sul giornale di cifre enormi con zeri all’infinito, fatti così, alla Speedy Gonzales. E per cercare di capirne il valore, con la fantasia vado sul surreale immaginandone il volume. Me li vedo tutti accatastati in grandi balle (come quelle del cotone), depositate in grandi magazzini. Nelle banche no. Le banche servono solo per le uscite. E lì loro attingono per le spese giornaliere. Un giorno una villa a Montecarlo, un giorno un palazzo ai Parioli, magari in via Lima, il sabato la spesa doppia... perché la domenica è chiuso, una villa in Sardegna e una a Saint Moritz, tutto senza sconti. L’importante è svuotare in fretta il magazzino delle balle, perché non so a quali politici debbano pagare il costoso affitto. Sono tutti stressati. Hanno la sindrome di Eulalia Torricelli, “un castello per mangiare, un castello per dormire, un castello per amare, per amare chi una mano gli die’”.
Ridateci la borghesia, quella vera, dove tutto era prevedibile e la richiesta aveva i suoi tempi, tempi lunghi. E loro, i borghesi, che stavano gradini più in su, non ostentavano per non sentirsi dire che il denaro è lo sterco del diavolo.

P.S.: chissà quante volte il diavolo mi è passato vicino, ma sempre in periodi di grave stitichezza. La prossima volta vi parlerò dei borghesi e di come li vedevo io con gli occhi di allora.



Tre volpi

Io che vivevo in provincia, anche se molto giovani, i borghesi li distinguevo subito per il loro modo di vestire. Gli uomini tutti col gilet, le donne non sarebbero mai uscite senza il cappello e i guanti, e la domenica avevano sulle spalle due renard (volpe argentata) e sedevano in chiesa nei primi banchi. Mia madre e le mie due zie avevano ognuna il loro renard, che mettevano solo per andare a Cuneo, il che accadeva raramente. Quando partivano tutte e tre, con le code delle volpi penzolanti sulla schiena, c’era sempre qualche cane da caccia che le rincorreva abbaiando. Prima che se ne formasse una muta, le attorcigliavano intorno al collo e le slegavano sulla corriera. Tutto questo con grande disapprovazione di mio nonno, che mise fine a questa esibizione che secondo lui avrebbe fatto aumentare le tasse. Potevano, se proprio volevano, metterle in casa la domenica chiudendo il portone a chiave. La minima forma di benessere andava occultata. La carne si mangiava in media una volta a settimana, la domenica. E tutto il paese era sotto una cappa: l’odor di brodo.
C’era anche qualcuno che poteva permettersi di andare dal macellaio con più frequenza, ma ci andava con fare circospetto per passare inosservato. Ragion per cui i macellai non erano mai sulle piazze o sulle strade principali ma sempre in piccoli vicoli, protetti alla vista. Pruderie piemontese. Il prosciutto solo nelle grandi occasioni o se in casa c’era qualcuno che stava male. Si partiva con una dose d’urto, un etto, che diminuiva o meno secondo il decorso della malattia. Noi eravamo al corrente del loro stato di salute avendo un parente proprietario di un negozio di alimentari, non essendo lui vincolato dal segreto professionale.



La fine dei cucchiaini

Pesco qua e là nei ricordi, senza un ordine cronologico. Come viene, viene. In quei pezzetti di vita accantonati nel tempo vedo una me stessa ogni volta diversa. A volte mi riconosco, a volte meno. Scarto, d’istinto, le scorie dei ricordi. Le lascio sul fondo. Sono i cucchiaini di merda che ognuno di noi nella vita, più o meno, è stato costretto a ingoiare. Ora la merda esiste ancora, ma io ho finito i cucchiaini. Li ho buttati via da un pezzo!



Una vincita... in borsa

Voglio parlarvi di un mio fatto personale accaduto nel ‘52. Allora il Totocalcio si chiamava Sisal. Io giocai una schedina. Era la prima volta e vinsi! Un milione, una grossa cifra... per me immensa. Essendo la prima giornata del campionato, uscì sul giornale con nome e cognome. Io seppi della vincita solo il pomeriggio, perché a casa nostra il giornale l’avevamo in comproprietà con un’altra famiglia a settimane alterne. Si leggeva in cucina, e della cucina ne assorbiva gli odori. Noi avevamo la cappa aspirante, loro no. E il loro menu giornaliero era quasi sempre a base di cavolo.
Nell’apprendere la vincita, feci molta difficoltà a realizzare l’accaduto. Mi stava sfuggendo la realtà e, per non perderla del tutto, per quella notte, nel timore che fosse solo un sogno misi la sveglia ogni due ore per un tuffo nel reale. Era una vecchia sveglia, quelle con la suoneria martellante appoggiata sulla testa come un cappello. Non la adoperavamo quasi mai, e quella notte, costretta a un tour de force, stressata, con le vibrazioni della suoneria che ogni volta la spostavano in avanti, per ben due volte la trovai sul bordo del comodino: meditava il suicidio.
Andai a ritirare il denaro con la borsa della spesa, che la banca mi riempì. Rimasi a letto tre giorni con la febbre prima di riportare il tutto un’altra volta in banca. Non chiedetemi cosa ne ho fatto del denaro. L’ho dimenticato.



Riconoscimento dell'ANPI a Liliana

O partigiano, portami via...

Oggi ho incontrato un mio vecchi amico partigiano, Renato Marchiaro. Lui più vecchio di me. Due vecchi con la testa ancora funzionante. Abbiamo ricordato il passato con nostalgia, con rimpianto, e soprattutto con molta rabbia. La delusione del dopo ha ucciso anche i pochi rimasti vivi. Chi l’avrebbe immaginato? Guardo il riconoscimento dell’ANPI (Associazione Nazionale Partigiani d’Italia) e mi domando: ne è valsa la pena?



Il piacere d’ammalarsi

Mi sono beccata l’influenza. Lieve, perché avevo fatto il vaccino. Mi accade tutti gli anni: sono le esercitazioni degli anticorpi. I miei sono vecchi anticorpi allenati da tempi lontani... Da quando non esistevano antidolorifici, antinfiammatori e cose del genere. C’erano solo loro, esercito funzionante di grandi professionisti dove non c’era posto per obiettori di coscienza. E vinceva alla grande contro mal di gola, mal di denti, ascessi... Alle bronchiti davano loro una mano gli impacchi di semi di lino bollenti, che lasciavano sul torace segni di scottatura che sparivano solo per lasciare il posto alle prossime. Ancora oggi, per questo tipo di patologie, non prendo medicine e lascio a loro il gusto della vittoria sul campo. Ormai ne conosco il decorso e neanche mi dispiace questo piccolo malessere che trasforma la mia capacità di sopportazione in larvato piacere che dà modo, almeno una volta all’anno, di occuparmi di me in maniera totale, includendo la minestrina, le mele cotte, il latte col miele, il vin brülé! Non mi faccio mancare niente, e festeggio la guarigione con un potente zabaglione.



Scacco al tempo

Ho tirato fuori scatoloni di foto. Sono tantissime... Da quando, giovanissima, posavo per un fotografo e rimanevano esposte per mesi nelle vetrine sotto i portici di Cuneo. Man mano tutte le altre, quelle dei viaggi (che sono stati tanti). Provo a elencarli: Brasile, compresa l’Amazzonia; Perù, compreso il lago Titicaca; Argentina, compresa la Patagonia; Venezuela, cinque volte; Cuba; Sri Lanka; Tunisia; Turchia; Siria; Sud Africa; Zimbabwe, con le cascate Vittoria; Israele; Indonesia, due mesi; Cina; Russia, due volte; America del Nord, da costa a costa (compresa Las Vegas e il Gran Canyon...).
L’Europa quasi tutta; una parte per lavoro, di cui scriverò le prossime volte. Per il resto dei viaggi (credo che i racconti sono noiosi...), realizzo solo adesso che su tutta questa valanga di foto non ho segnato date. Inconsciamente, forse, ho voluto spegnere il tempo sull’immagine. L’ho semplicemente ignorato, non volendo dare a lui la stessa importanza che purtroppo lui dà a me.



Amanti, ieri e oggi

Un ieri lontanissimo, quando una strana morale aveva un eccessivo valore e che l’inflazione della tolleranza ha oggi molto diluito... Una volta, al di fuori del matrimonio, qualcuno aveva l’amante. Di solito era un benestante, da cui la donna traeva qualche beneficio economico. Quasi sempre aveva la garçonnière, chiamata anche pied-à-terre (tutte le cose di un certo libertinaggio avevano nomi francesi...). La garçonnière, nell’immaginario, era un luogo pieno di abat-jour a luci basse e cuscini di raso rosa, uno dei quali aveva al centro la testa di un Pierrot lacrimante, tragico testimone della trasgressione. E per suggellare il tutto, dietro un paravento finto cinese, il bidet!!!
Non so se sono passati mille anni o giù di lì... Ora non servono più gli abat-jour. È tutto alla luce del sole. Se si ha il compagno, a me evoca appartenenze politiche. E non posso fare a meno di disgiungere i loro comportamenti amorosi.
L’uomo di sinistra con aperture erotiche, poco tempo fa impensabili... E lo immagino non disdegnare rapporti sadomaso, però senza catene (simbolo di schiavitù), sostituite da falce e martello. Con la falce raschia le ascelle alla partner, per un rapporto paritario, così anche lei prova piacere gioioso nel ridere per il solletico; con il martello picchietta i glutei, a mo’ di tamburo africano, insistendo con maggior rigore sulla natica di destra.
L’uomo di destra, che deve apparire molto macho ma gentile, si presenta inevitabilmente con un fascio di fiori. Solo fasci. I bouquet sono scartati perché troppo effeminati e poco simbolici. Il suo massimo è far l’amore con gli stivali. Nel caso di qualche défaillance, compensa il tutto alzando in sostituzione il braccio nel saluto fascista. Mi diverte pensare che sia così...



Cinema

Il mercoledì, al cinema c’è lo sconto per i pensionati. E lo sconto si paga tutto. Appena si fa buio in sala, c’è la processione dei prostatici verso la toilette. Quando le luci sono accese la localizzano, e a luci spente partono tutti assieme. Al rientro, finita la processione urinaria, partono gli individualisti: uno qua, uno là. Vagano, fantasmi dell’uretra, in cerca della lucetta indicativa. Le donne hanno maggior capacità di tenuta. Voglio andare al cinema un giorno senza sconto, voglio pagare il biglietto intero!
Il cinema mi ha sempre appassionato... Vivendo in un piccolo centro, era per me una grandissima forma di evasione. Era a cento metri da casa mia. Mi ero abbonata e vedevo tutto. La sala era grandissima, e d’inverno faceva un freddo boia. Ma io mi premunivo con due borse d’acqua calda: una sul petto e una sulla schiena, legate fra loro con due bretelle sotto il cappotto. Nell’intervallo, che durava esattamente quattordici minuti, facevo in tempo ad andare a casa per sostituire l’acqua che mia madre teneva sul fuoco per il ricambio. Ricordo con grande nostalgia un film girato in Brasile, pieno di piante esotiche e di uccelli dai mille colori. Fuori nevicava, e io non ero lì con le mie borse d’acqua calda ma ai tropici. Emozione fortissima che non ho più provato neanche quando, molto tempo dopo, in Brasile ci sono stata davvero.
Ho nostalgia per gli attori di allora... Non si sapeva mai quale lavoro facessero. Amavano e basta. Jean Gabin non sorrideva mai. Stava sempre ad Algeri, e ogni volta una bellissima e ingioiellata dama si innamorava di lui. Al primo infuocato e glaciale sguardo... Sguardo che diceva: “Ti prendo e ti sbatto come e quando voglio”. E dopo aver fatto per amore di lei cose nefaste, finiva nella legione straniera. E io speravo che alla fine un giorno sarebbe tornato...
È finita. Non ci sono più i Jean Gabin, sostituiti da insulsi e imbambolati Di Caprio. Si continuano a fare cose nefaste, non più per le donne ma sulle donne. La legione straniera non c’è più, sostituita da infinite prescrizioni e dall’immunità parlamentare. Che tempi...



L’anima gemella

L’amore non ha età. Faccio fatica a convincermi. Man mano che si va avanti negli anni, si entra nella schiera di quelli che... si devono accontentare. Accade esattamente l’opposto: aumentano le esigenze, si impara a volersi bene e non si accettano svalutazioni. Ama il prossimo tuo come te stessa, per me a un certo punto è parso di difficile applicazione. Avrei amato troppo e non sempre ne sarebbe valsa la pena.
L’anno scorso, in un centro fisioterapico (tempo fa forse sarebbe stata la discoteca...) ho incontrato un signore. Classico generale in pensione, distinto, elegante, con il carapace in buona tenuta, lo sguardo intrigante a doppio riflesso... Un occhio lucido, vivo, frizzantino; l’altro pacato, riflessivo, un po’ mesto, in pole position per la cataratta. Un giorno mi portò un mazzo di fiori e mi invitò a cena. I fiori fanno sempre presa. Fanno parte di quegli orpelli che uno attacca alla cornice e distolgono l’attenzione dal quadro, che a volte è addirittura inesistente.
Io amo i viaggi, lui è uno stanziale. Quando va a Milano prende la melatonina... perché sente il fuso. Io amo il mangiare, e i sapori dei cibi mi danno gioia; un bicchiere di vino mi mette di buonumore. Il suo massimo sono le polpettine e la pasta in bianco, e va matto per l’idrolitina.
Avevamo in comune solo lo scricchiolio delle giunture. Ho scoperto che è anche avaro... Lui dice che è oculato, il che è anche peggio. Perché l’oculato vigila costantemente sull’avaro che è in lui, affinché non abbia mai cedimenti. Al secondo incontro in ristorante l’ho molto deluso e spaventato: ho ordinato due volte il dolce. Quando è arrivato il conto, l’ha letto con la stessa concentrazione che può avere un talebano quando legge il Corano. Gli occhi così diversi fra di loro hanno assunto un’unica espressione color militare, e dentro ognuno di loro ho visto una svastica. E così, sulla fetta di zuppa inglese, è finito il mio flirt senile.
Chiudo definitivamente. Oddio, magari non dò due mandate... Lascio la porta accostata, solo perché sono una grande ottimista.



Refrigeri estivi terza età

Ferragosto in città, per chi rimane... bestiale. Il quartiere non è più il tuo quartiere. La nuova topologia ti rifiuta. La farmacia, l’edicola e il caffè all’angolo: chiusi. Il mercato coperto, coperto veramente. Teli grigi, banchi vuoti... Una volta ho avuto l’impressione di vedere spuntare un alluce con un cartellino appeso.
Ti sposti di uno o due isolati e incontri persone come te, con lo sguardo smarrito di chi si trova improvvisamente all’estero senza passaporto. E intanto il caldo ti invade sempre più. In alternativa, grande e magnanima pensata, i supermercati... per godere dell’aria condizionata. Lì la tintarella viene al contrario: si entra arrossati e si esce color trapassato. I posti non sono numerati. Ognuno si siede secondo le preferenze.

C’è chi ama la montagna
e si siede fra i banchi della verdura.
E fra il basilico e il rosmarino
s’illude di essere sotto un pino.

I meridionali amano i colori.
Si siedono fra i banchi della frutta,
chiudono gli occhi
e vedono il Vesuvio che erutta.

Il diabetico si precipita al banco della pasticceria...
Inala odori e dimentica l’azotemia.
È più forte di lui... e già che c’è
fa fuori due bignè.

C’è il vecchio dongiovanni,
che si sente non così ma com’era.
Va nell’intimo... e sogna sopra una giarrettiera.
E fra uno slip e un reggiseno,
di ricordi ne fa il pieno.

Sceglie l’ittico a chi piace il mare,
e lì si illude di stare.
Paragona la sua postura
con quella dello stoccafisso:
si rende conto che fra loro c’è un abisso.
Lo stoccafisso dritto impalato;
lui, un po’ curvo va giù da un lato.
Per via del disco con una piccola ernia,
constata tutto ciò
sotto lo sguardo impassibile di una cernia.
Con tutto quell’odore di pesce,
si sente ritemprato e un po’ folle.
Ed ha l’approvazione di tutte le mazzancolle...

E così, tutti gelati e contenti,
escon di lì battendo i denti.

P.S.: per le vacanze invernali in città, c’era il programma di grandi riunioni nei reparti caldaie dei condomini: i party al gasolio! Ma poi non se ne fa più niente per via degli orari... troppo intermittenti.



Vacanze in riviera

E che ne dite delle vacanze estive della terza età sulla riviera romagnola? Si fanno a fine estate, perché prima fa troppo caldo. Generalmente a fine ottobre, primi di novembre... quando anche l’ultimo villeggiante è rientrato a Düsseldorf.
La pensione non è proprio vicino al mare. Troppa umidità... Si chiama Miramonti. Si paga con comode rate giornaliere. Ne è stato chiesto il vantaggio... La risposta è stata: “Non si sa mai...” Tutti hanno fatto gli scongiuri e hanno pagato in anticipo.
Ci si ritrova tutti... o quasi. Ognuno vede nell’altro il proprio invecchiamento annuale. Ci si riprende dopo un bicchiere di lambrusco, e inizia la vita alberghiera. Qualcuno si illude di essere al Ritz... La mattina ci sono signore che fanno colazione in vestaglia, rosa bordate di cigno. Un signore ha una vestaglia a righe con risvolti di raso; un certo Amilcare ha un chimono con un drago enorme sulla schiena... E la piccola sala con tutte le tovaglie bianche si trasforma in un attimo in un campo primaverile, fiorito di pasticche di mille colori. Predomina il color colesterolo; poi, a ruota, color rosa della pressione. Via via tutti gli altri...
Si socializza molto: tu dai un diuretico a me, io do un lassativo a te. C’è solo un signore, che noi chiamiamo il signor Duecento... perché ha la pressione 80/120. La sua tovaglia è immacolata, senza puntini colorati. Mangia con tale moderazione da far venire il latte alle ginocchia. Latte scremato, naturalmente...
Poi, dopo quindici giorni c’è il gran ballo di fine vacanze... Tutte le danze vengono modificate secondo le défaillance di ognuno. Per esempio, il valzer lento diventa lentissimo... Per tutti coloro perennemente stanchi: il valzer del bradipo. Il tango viene molto bene a chi soffre di cervicale... La posizione rigida del collo dà eleganza, e le nacchere vengono sostituite dal rumore dello scatto del collo quando, repentinamente, si deve girare o a destra o a sinistra. Il fox-trot viene ballato sulle punte da chi ha un po’ di gotta al calcagno, e viceversa viene ballato sul calcagno da chi ha l’alluce valgo. Il tutto prende l’aspetto di una tarantella avveniristica... Poi, gran finale, un assolo: è un signore che ha le anche al titanio. La musica parte, ma lui no. Deve coordinare mente e titanio. Poi, dopo un po’, inizia il ballo spaziale. Spaziale in quanto lo spazio che gli serve è enorme per quei giri concentrici che, per forza incontrollata di gravità eccentrica, costringono tutti gli altri appiccicati alle pareti a seguire con ansia il tutto, compresa la ballerina cui, tanto per rimanere in tema, l’occhio comincia a uscirle un tantino dall’orbita. Poi la musica finisce, ma lui no. Per la solita forza di gravità va ancora avanti, fermandosi poi di colpo dove capita, aggrappato alla dama che ogni anno si ripromette che la prossima volta ballerà solo con il collare ortopedico. E qua, fra mille battimani, finiscono le vacanze.



Ottanta voglia di crescere...

A giugno avrò l’età di Dario Fo e quella che sarebbe stata di Marilyn Monroe. Detta così mi impressiona di meno... per quanto non c’è stato nessun passaggio preparatorio nell’entrare nella terza età, in quanto la seconda (da dove di logica uno dovrebbe pervenire...) semplicemente non esiste.
Ne avete mai sentito parlare? Io credo sia quella che va dai cinquantacinque ai settanta, tra l’altro faticosissima. Si fa di tutto perché non appaia... Le forze sono concentrate nel tentativo di spingere gli anni all’indietro, verso i cinquanta, contrabbandando per autentico tutto il rifatto.
Ogni cedimento è occultato. E invece ci sono restauri di base che incominciano proprio di lì. I denti, invece di ingiallire come tutto il resto, diventano sempre più bianchi. E se uno vuole una cosa stabile, diventa un bene immobile... perché di un immobile ne ha i costi. Un giorno o l’altro si pagherà pure l’ICI. L’alternativa è la dentiera o l’IKEA. Anche l’udito incomincia a dare piccoli segnali di cedimento... Me ne accorgo dall’atteggiamento del viso di certe persone, che nell’ascoltare girano leggermente il capo privilegiando l’orecchio non compromesso e tenendo sempre la bocca un po’ socchiusa nell’illusione che il suono possa entrare anche di lì.
Ho visto una signora di quell’appartenenza rincorrere e salire trafelata su di un autobus. Di umana le era rimasta solo la borsa a tracolla. Anche i tacchi, ostinatamente altissimi, avevano collassato nel reggere le caviglie a zampogna. Un signore, mosso a pietà, voleva cederle il posto. E lei, anche così allo stremo, ha rifiutato. Alla gentile insistenza ha rivolto uno sguardo tra lo sfatto e il rabbioso, che, tradotto, voleva dire: “Non insista, ben educato che non è altro.”
Comunque, data la crescente longevità, è stata aperta un’altra età: la quarta. Ed io, con l’esperienza della terza, cerco di entrarci più o meno baldanzosa e ce la metto tutta... se non altro per vedere com’è.



Gli estremi delle estremità

C’è un altro piccolo problema da aggiungere agli inconvenienti dell’età, che tocca un po’ tutti, anche quelli che non sono entrati nella terza: sono le estremità. Me ne accorgo dalla camminata leggermente robotica che vedo per la strada.
Io ho cominciato da ragazzina, con i geloni. Vivendo al freddo del nord erano inevitabili. I miei piedi incominciavano a gonfiare a ottobre, e sotto Natale sembravano due pandori. Scarsa alimentazione (c’era la guerra...). Non capivo perché un monsignore che abitava di fronte a casa mia aveva lo stesso dolorante problema per motivi opposti: eccesso di alimentazione. Aveva la gotta... e c’era sempre la guerra.
Tutto questo ha lasciato delle conseguenze, per le quali, dopo un breve periodo di calma, ho continuato ad avere dei problemi. Ogni anno, a primavera, la stessa fioritura. Ecco perché si chiamano le piante dei piedi... perché germogliano. Le patate, le cipolle... Roba da coltivatori diretti. Per non parlare delle scarpe. L’estate, con i sandali e le dita en plein air, vado bene. L’autunno, quando devo radunare il tutto, per infilarle al chiuso ci vorrebbe un cane da pastore. Ho un mignolo no global che si rifiuta sempre di rientrare.
L’altro giorno, ai Musei Capitolini, i piedi delle statue stavano al livello dei miei occhi. Tutti bellissimi, senza protuberanze. Anzi, un certo Mercurio (non so se quello che ha inventato il termometro...) aveva ai lati dei medesimi due alucce: il massimo della provocazione...
Uno, poi, non sa neanche a che santo rivolgersi... perché non ci sono santi protettori per le estremità. Non so... Forse San Gottardo, per la gotta; e per i calli, San Callisto... Ma se si presume che anche loro hanno lo stesso problema, dal momento che devono intercedere, ora che vanno e che tornano... hai voglia ad aspettare la grazia.
Io, nel frattempo, ho trovato un piacevole rimedio fai da te. Faccio un pediluvio nel vino. Le dosi sono importantissime. Si stura una bottiglia, meglio se d’annata. Una piccola parte nella bacinella, il grosso del rimanente si beve. Il beneficio è confortevole e immediato. E per via che si annebbia leggermente la vista, loro appaiono bellissimi. E quasi quasi non ti servono più, perché incominci a volare. Lo consiglio a tutti. La prossima volta voglio provare a modificare la dose: tutto per via orale, e il pediluvio lo faccio a secco. Vi farò sapere...



Vanità di gravità

Ho sentito dire che la forza di volontà e l’esperienza a volte consentono quasi di annullare le leggi biologiche. Balle! Io di esperienza ne ho tanta, e anche forza di volontà. Sono sempre riuscita a sollevarmi dalle cadute, che sono state talmente tante che ormai la cervicale e il coccige sono tutt’uno. Ma se mi guardo allo specchio (cosa che faccio il meno possibile...), noto che gli zigomi si sono spostati verso le guance, le quali non trovando più la giusta collocazione si espandono, e il collo fa da piattaforma inanellata per reggere il tutto. Nel tentativo di distogliere lo sguardo da questo bradisismo, gioco di sciarpa. Lunga, corta, annodata, di tutti i colori. Ma camuffo ben poco. E qui entra in gioco la chirurgia plastica (di cui non ho mai subito il fascino...), che sfida tutte le leggi di gravità.
Newton diceva che un corpo, quando è maturo, cade dall’alto verso il basso. Ma ora si sfida ogni legge di gravità. Si sposta tutto verso l’alto. Le guance al posto degli zigomi e gli zigomi sulle tempie, creando visi caucasici tutti uguali e privi di espressione.
Io mi domando: tutto il surplus di pelle che tolgono per il tiraggio viene ridato indietro? E se si, che se ne fanno? Foderano il divano?
I canoni della bellezza sono totalmente cambiati. La fisiognomica non è più quella di molto tempo fa, cioè quando io ero giovane. I visi allora erano regolari. Le bocche, più erano piccole e più erano apprezzate. Andavano le bocche a cuore, tant’è che le madri esortavano le figlie a mangiare la minestra con il cucchiaino nel timore che il cucchiaio le deformasse. Adesso credo che fin da piccole incomincino a mangiare la minestra con il badile. La forma del seno era perfetta se entrava in una coppa di champagne... La misura top di adesso dovrebbe entrare... in una damigiana. A quando il sedere a mongolfiera?

P.S.: Sospendo le mie riflessioni settimanali... Vado in Piemonte, torno al paese natio per l’occasione della santa Pasqua. A tutti coloro che hanno avuto la curiosità di seguirmi, offro un immaginario uovo di Pasqua grande grande, pieno di auguri, di felicità e di sogni tutti realizzabili.



Qui o altrove

Sono tornata da Boves, dove ogni volta ci vuole più tempo per l’aggancio con il passato, per sentirmi parte integrale con il richiamo e i ricordi a volte vivissimi e a volte appannati con il presente, la ricerca di conferme che non ci sono più e alle quali faccio fatica a rassegnarmi.
Ci ho vissuto trentatré anni... I miei genitori e i miei nonni sempre. La loro presenza passata la sento e la ritrovo nel dialetto locale, nella luce che in certe ore del giorno la montagna ancora innevata filtra e riflette, in certi angoli di strada che trasmettono odori stagionali che solo chi ha vissuto a lungo può sentire e ricordare, creando emozioni intatte di un vissuto solo proprio, emozioni di appartenenza delle quali mi sento soggetto, scavalcando il tempo.
Sono tornata a Roma, dove ho radici più corte... anche se ho vissuto a lungo. Sono tornata... e ricompongo, pezzetto per pezzetto, il mosaico della quotidianità.



Nessuno mi rappresenta più!

Rifletto con amarezza su ciò che è stato e ciò che è oggi la politica, una politica fatta da una classe dirigente che NON MI RAPPRESENTA PER NIENTE e che fa fatica a dirigere se stessa. Ha come unico scopo sedersi con gare trafelate, goffe e spudorate per arrivare prima alla poltrona. Tutti si vogliono sedere, anche chi ha le emorroidi e starebbe molto meglio in piedi. Quelli che sono stati seduti parecchio ci vengono riproposti con il sedere ormai piatto, e si ripresentano senza pudore (almeno estetico...) con l’aspetto della tartaruga, della quale credono di avere la stessa longevità, rivoluzionando la teoria di Darwin sull’evoluzione della specie per quanto riguarda l’homo erectus.
Politici che per anni masticano una pipa spenta, con il passaggio diretto dal ciuccio, non superando mai la fase orale; altri che pestano i piedi, e per una manciata di voti vogliono il seggiolone... minacciando di andarsene. Ma dove vanno se lì hanno addirittura un letto a due piazze? Molti ci hanno infilato mogli, parenti, conoscenti... creando piccole oligarchie familiari e aumentando i loro introiti all’infinito, così lontani dai nostri che facciamo fatica a comprenderli anche se siamo noi stessi a contribuirvi pagando le tasse.
No, non mi riconosco. Non mi rappresentano. Forse qualcuno c’è... ma si è adeguato o è stato schiacciato. Non vedo politici di spessore in nessun’area. Ne ricordo i vecchi, affabulatori forse... ma da cattedra universitaria. Ora lo sono da... fiera di paese. La cosa strana (più che strana, incomprensibile...) è che anni fa la scolarizzazione era bassa, ma c’erano personaggi attenti e pensanti; ora che sono tutti istruiti, c’è un unico pensiero: il denaro.
Ma nelle case si parla ancora di politica, che in fondo è un problema sociale, un problema di tutti? Una volta i padri trasmettevano ai figli ideologie scaturite dal proprio vissuto, che non era virtuale. A volte venivano capite e portate avanti, a volte meno... Ma se ne parlava, e ci volevano argomenti più che validi per smontare roccaforti di convinzioni. E ogni volta erano piccoli tradimenti alla propria buona fede, battaglie psicologiche di coerenza per le quali si lottava e si soffriva. Ora, in un mondo globale, dove la visuale si è allargata, il campo visivo si è ristretto... diventando una piccola fessura che lascia spazio solo alla tassa dell’I.C.I.
Si tira la catena e si sciacqua la coscienza... Ma che mondo è mai questo? Nessuno mi rappresenta più. Tanto meno i salottieri, che vanno in TV inceronati, ostentando la loro pochezza, sbiadendo sempre più i valori veri, valori per i quali molti giovani sono morti nella lotta partigiana per la libertà.
Leggo ogni giorno il giornale. Lo leggo da cima a fondo (è una vecchia abitudine, non potrei farne a meno...), e ogni volta mi amareggio sempre più e ci provo sempre meno gusto. Oggi poi, che è da poco passato il 25 aprile, e dopo aver visto lo spettacolo squallido nell’arena dell’aula per il voto alla Presidenza del Senato, dico più forte: nessuno mi rappresenta più!



Ma ca l’è?

Ho rivisto una mia vecchia amica. C’eravamo perse di vista da molti anni... Cinquanta, suppergiù. Lei vive fuori dall’Italia, e tranne gli auguri per le feste non siamo mai riuscite a incontrarci. Si chiama Macalé. Nome colonialista, imposto per caso. Quando nacque, la madre chiese all’ostetrica: “Ma ca l’è?”, che in piemontese vuol dire Com’è? Non fece in tempo a sentire la risposta... Svenne. Il marito, grande sostenitore delle guerre d’Africa, corse all’anagrafe e disse che per desiderio della partoriente doveva chiamarsi Macalé. Se fosse stato un maschio, l’avrebbero chiamato Tobruc.
Me la ricordo adolescente, con le trecce che finivano con i fiocchetti rosa; poi signorinetta, sempre un po’ svampita, con gli abiti dai colori botticelliani. Era allora convinta che Maginot fosse un sarto, anzi, come diceva lei, un couturier francese... per via della linea. E insisteva che anche il piano Marshall era uno strumento musicale, suppergiù come lo era lo Stradivari.
L’ho rivista raddoppiata, con un abito del colore di allora. Sembrava un vecchio glicine, di quelli che si vedono attaccati ai muri dei villini liberty con i quali sono nati, con il tronco rugoso e artritico che una volta all’anno riescono a nascondere con una breve fioritura coprente. Su di lei, la fioritura lasciava larghi spazi al tronco. Ci siamo riconosciute a stento, e con grande commozione ho potuto constatare come la struttura interna non cambi, anzi si consolida, a differenza di quella esterna che si sgretola.
Abbiamo parlato molto del passato... Il suo, malgrado lo conoscessi, era come sempre farcito di fantasia. Ha rievocato l’incontro con quello che sarebbe diventato poi suo marito, e che fra l’altro era presente. L’ha descritto alto, biondo, con gli occhi quasi azzurri, sceso da una lunghissima macchina per dichiararle il suo amore. La macchina era una Topolino, e il loro incontro avvenne in un ufficio dove lei faceva la dattilografa e lui il contabile. Di altezza medio-bassa, bruno, lo constatavano ancora una quarantina di capelli rimasti da un lato sopra l’orecchio, che lui con grande maestria li faceva traversare sopra al capo, fino all’altro orecchio, camuffando pateticamente la calvizie. La ascoltava con stupore, pensando (ne sono certa...): “Ma... sta parlando di me? E se parla di me, ero così? E se ero così, come ho fatto a sposare questa cretina?”
Ci siamo salutati celando la convinzione che difficilmente ci saremmo incontrati ancora... Li ho visti allontanarsi: lei perdendo qualche petalo; a lui un dispettoso colpo d’aria aveva scomposto la chioma, che ondeggiava su una guancia facendolo sembrare un vecchio bersagliere con le piume al vento ma senza il cappello.



E adesso... pubblicità!

La pubblicità si insinua ovunque, quando meno te lo aspetti. È una pubblicità inopportuna, invadente e quasi sempre cretina, fatta (secondo loro...) per un pubblico di adulti-bambini che da questi ultimi si fanno condizionare anche per l’acquisto di un’automobile, con suggerimenti da capofficina che secondo loro i padri, anziché prenderli a sberle, dovrebbero prendere in considerazione. Il tutto con vocette stridule e petulanti. Ce n’è uno che anziché l’ovetto sbattuto chiede integratori alimentari dei quali conosce a memoria i nomi di tutte le vitamine che lo compongono. Ora, un bambino così saccentemente erudito è già di per se un fenomeno preoccupante: ve lo immaginate dopo aver ingoiato le pillole a effetto Braccio di ferro, con sviluppo anziché di bicipiti di cervello? Dopo la cura, con la vocetta diventata baritonale chiederà come minimo di dirigere un ministero, magari quello della sanità.
Sto con Erode, sto dalla sua parte. Ho sempre pensato che la pubblicità si identificasse con il prodotto. Esempio: lucido per le scarpe, ammirazione per la brillantezza delle medesime; il caffè bevendone una tazzina fumante; e così via...
Ora qualunque prodotto viene esaltato e sbattuto in faccia a suon di sedere. Sembra sempre un lungo invito alla supposta. Lo stacco dal programma alla pubblicità non sempre viene annunciato, nel timore che lo spettatore si alzi e se ne vada. Si stenta a capire dove finisce uno e comincia l’altro.
Vedevo l’altro giorno un film su un naufragio di una nave... Tutti morti. Mi stavo rassegnando alla catastrofe quando, ad un certo punto, vedo uno di questi seminudo: si era salvato e lo vedevo con la forza della disperazione arrampicarsi in alto per poi buttarsi (con mia grande sorpresa...) in un’enorme scatola di tonno dove mi auguro sia veramente annegato.
Dalle proposte pubblicitarie, ho capito che siamo un popolo di stitici. La diarrea batte la stitichezza sei a zero. Non parliamo poi dei prodotti promozionali... Non ho una casa molto grande, ma in compenso ho molte scarpe. Un paio di queste non trovavano più collocazione. Influenzata dalla pubblicità, ho pensato a una scarpiera, di quelle sottili sottili, da sistemare dietro una porta. Me ne sono arrivate due, una in omaggio. Ora ditemi voi: se prima il problema era lo spazio per un paio di scarpe, adesso il problema si è... triplicato. La scarpiera in più dove la metto? Non ho soluzione: me la porto a letto.



Avanti, Savoia!

Sono stata in casa di amici... Amici di sempre, amici di anni di conversazioni quasi sempre su base politica. Conversazioni che animavano le serate rendendole... incandescenti. Ora siamo tutti invecchiati. Parliamo sempre di politica, che ci appartiene solo in parte... perché non è invecchiata con noi ma è morta. E ne viene fuori una veglia funebre.
A evocarla, ectoplasmi che non sono degni di un minimo di rilievo morale, immersi nella merda più puzzolente, difesi da personaggi i cui armadi non bastano più per contenere gli scheletri. Ormai ci vogliono gli ossari... Dov’è finito il bon ton, anche apparente, per generazioni che i cosiddetti reali hanno rappresentato? Introdotti alla loro presenza, i monarchici inchinavano la testa al livello dei loro genitali, inconsapevoli che proprio lì stava tutta la loro materia grigia.
Dare la mano al re (vedi il libro Cuore...) era un’aspirazione, e un privilegio di pochi. Ora, se dai la mano, questa deve perlomeno contenere una busta. E sono molti ad avere tale privilegio... Sono come si leggeva una volta sull’insegna di prestigiosi negozi: fornitori della real casa. Ora i fornitori sono molti, e forniscono il materiale più disparato. La gamma è vastissima: si va dalle slot-machine alla prostituzione. E su quest’ultima, con fair play regale, si tira anche sul prezzo. La merce deve essere in buonissimo stato, di primo pelo, senza difetti... il tutto con lo sconto.
Sempre comunque osannati dall’alta società, compresi alti prelati, paludati con croci e catene... quest’ultime più adatte ai polsi. E le mogli? Biscottate di origine, ma sempre altezze reali per acquisizione. Loro non esternano. L’impassibilità è di rigore (il bon ton non lo permette...). Il lifting le dà una grossa mano: non battono ciglia. Si potrebbe rompere la pelle...
A noi, invece, hanno rotto le palle. Scusate il linguaggio di alto lignaggio... Noblesse oblige...



L’amusica

La musica mi piace tutta: leggera, seria, e anche quella classica, che purtroppo capisco meno per mancanza di cultura. E me ne dispiace, perché sento che perdo qualcosa. Le canzoni attuali difficilmente vengono amalgamate con le parole, tranne alcune che poi diventano classiche. Ma sono poche, e la melodia a volte viene sostituita da percussioni che tolgono languore alle sensazioni. Le canzoni di un tempo (un tempo lontano lontano...) sono imparagonabili a quelle di oggi. Oltre alla musica c’era la narrativa: il testo era un racconto, quasi sempre tragico, a discapito delle donne, che venivano abbandonate e per il gran dolore morivano di tisi per colpa di uomini che però non venivano mai condannati. Se ne prendeva atto musicalmente, con rassegnata melodia visceralmente emotiva. Nell’ascoltarla si piangeva. Specchiavano in fondo una realtà esistente nella società d’allora... Me ne viene in mente una, di molto tempo fa... Tradotto oggi, il ritornello non potrebbe che suonare così:
Scrivimi, scrivimi, scrivimi...
non tenermi più in pena.
Una frase, un rigo appena,
calmeranno il mio dolor.

Cliccami, cliccami, cliccami...
non tenermi più in pena.
Una e-mail appena,
calmerebbe il dolor.
I giornali si leggevano poco... Le notizie erano scarse, e le canzoni le sostituivano in parte raccontando in musica fatti di cui si parlava a lungo. Quando si accantonavano, erano consumate per esaurimento di fantasia. Ora le notizie arrivano a valanga. Tante, da tutte le parti e con tutti i mezzi, ma il continente emotivo non è così capiente e la memoria non accantona più perché non ce la fa a stare al passo; cosciente di questo, non entra in gioco. La tecnologia ha totalmente cambiato il modo di essere, di sentire, di percepire. Non critico, ne prendo atto. Non posso che farlo.



Auguri estivi

Liliana, compleanno Ho compiuto gli anni il 26 giugno. Sono tantissimi... Non ho mai avuto timore di non arrivarci. Inconsciamente non l’avevo messo in conto, e continuo a fare progetti per un futuro che so benissimo che non esiste più.
Per l’avvenimento, le mie nipoti Paola e Daniela sono arrivate dal Piemonte cariche di auguri bovesani e hanno organizzato a distanza una mega-festa riunendo gran parte dei miei amici romani. Il tutto mi ha colto sorpresa e stupita. Ho anche ballato, esibendomi da sola in questo parco pieno di musica, di luci e di affetti. Stordita e felice, incapace di mostrare gratitudine, sopraffatta da tante emozioni.
Auguro a tutti una lunga vita come la mia, e aggiungo gli auguri di buone vacanze... e un arrivederci a settembre.



Stagioni

Sono finite le vacanze estive. L’estate mi piace sempre meno, anzi non mi piace più. Troppo caldo, troppa luce, troppa gente sudata, troppe zanzare. Non mi piace l’aria siberiana dei condizionatori, le pale dei ventilatori che non riescono a creare l’atmosfera di Casablanca, dove le ho sempre immaginate... Non amo più neanche i pomodori, che pur mantenendo una facciata dignitosa hanno disertato il vecchio sapore per uno nuovo che non trovo... perché non c’è. La frutta, poi!!! Le pesche, per esempio, con un colore invitante dovuto ad un lifting che nasconde sfacciatamente un’età frigorifera indefinita che ne blocca la maturazione, per cui se una volta per togliere il nocciolo bastavano le mani ora ci vogliono le tenaglie.
Leggo molto (cosa che posso fare benissimo tutto l’anno...), ma lì raddoppio il tempo... tanto per rimanere nel classico. Di conseguenza ho sempre gli occhi stanchi e le palpebre gonfie, tanto da somigliare a due fanali di una vecchia Volkswagen. Per completare la tipologia, mi hanno coinvolto nel gioco delle carte. Per questo genere di cose ho difficoltà di concentrazione. E anche se ho le mani molto lunghe, faccio fatica a contenerle. La disposizione assume sempre la forma di un enorme ventaglio, difficile da controllare. Figuriamoci se posso badare pure a quello del mio avversario...
Non amo l’estate... Prolungherei la primavera all’infinito, che per me è una stagione piena di attesa, di indefinito e di rinato... anche se si sa già che nulla arriverà mai. Mi piace l’autunno, con le luci che si attenuano e i colori che sbiadiscono... e piano piano mette un suggello all’estate.



Al passo (mancato...) con la tecnologia

Faccio un’enorme fatica ad adeguarmi, per quanto possibile, a tutto ciò che è tecnologicamente moderno. Mi sono ostiche le terminologie, rimaste per lungo tempo della mia vita... inesistenti. Allora, tutt’al più, si scivolava sul francese. Per me, conoscendolo bene, era molto più facile il significato. L’inglese, che non conosco, mi fa sentire appartenente ad epoche lontane e affetta da sordità psicologica.
Siamo in molti, noi longevi, a sentirci accantonati in angoli sempre più ristretti, circondati da suoni labiali che non ci appartengono. Tempo fa incontrai un mio vecchio amico... Non si sentiva in forma, aveva un sacco di timori... Gli dissi: “Ma perché non ti fai un check-up, così non ci pensi più?” Mi rispose: “Magari potessi, ma sono astemio (!). Anzi, andiamo al bar: te ne offro uno volentieri. Io prendo un succo di frutta.”
Mi sconvolgono anche le piccole cose di adattabilità inevitabile. Quando adopero il bancomat, mi avvicino allo sportello guardinga, con un passo di circostanza; un po’ felpato, come quello della pantera rosa (nel mio caso... grigia). E, arrivata lì davanti, mi guardo attorno con fare circospetto, sperando di non essere notata. Io non temo i ladri, perché in quel momento, completamente invasa dalla sindrome di Arsenio Lupin, la ladra sono io. L’operazione avviene in maniera accelerata, compresi i battiti cardiaci. Torno a casa, questa volta con il passo da maratoneta, e piuttosto trafelata mi abbandono su una sedia e dico a me stessa: “Anche questa volta m’è andata bene: ce l’ho fatta.”



La diffidenza corre sul filo

Per quanti sforzi faccia, non riesco a entrare in confidenza con il cellulare. È più forte di me... Mi dimentico di portarmelo dietro e lo tengo spesso spento. Non ho per lui una grande stima. Non ha fili, per cui nell’inconscio penso che invece di trasmettere le mie parole le trattenga per sé. Non mi servo mai di lui per comunicazioni più o meno serie; per queste, ne adopero uno fisso a casa. Ne ho due: uno grigio e uno nero. Prediligo quest’ultimo per le cose più importati. Il colore mi trasmette serietà. A lui, che mi sta davanti (e quindi lo posso vedere...), affido le mie parole con la certezza che il discorso non andrà perso ma a buon fine infilato in quel cordone rassicurante, un po’ liscio e un po’ elasticamente inanellato.
Vedo persone per la strada che parlano agli invisibili gesticolando ridicolmente, oppure gente in viaggio avvisare i parenti che loro sono sempre lì, sul treno... che non ha ritardo. L’alternativa quale poteva essere? O non essere partiti o essersi buttati sotto il treno.
L’altro giorno ero al bar... Vicino a me si è seduto un signore. Tipo ministeriale, sui cinquant’anni... Vestito sobriamente, con una cartella nera... molto seria pure lei. Ha ordinato un rabarbaro e il cameriere ha trasmesso l’ordine al barista, sottovoce, con tono grave. Perché un conto è strillare forte: “Un gin tonic... Un Campari... Un bitter...” Il suono onomatopeico dà per sé allegria musicale. Il rabarbaro va sussurrato, evoca gastriti e ernie iatali...
Dopo un po’ riceve sul cellulare una telefonata... e l’espressione del viso, ormai rabarbaricata, diventa cimiteriale. Qualcuno gli comunica la morte di un suo amico... L’ho capito dal contenuto unilaterale del dialogo che si è svolto pressappoco così: “Non me lo dire... Si, lo sapevo, ma non immaginavo così presto... Per me è una perdita insostituibile... Era il mio migliore amico... l’amico di una vita... No, tu non puoi capire quant’è grande il mio dolore... Non sarà mai più come prima...”
Nel frattempo, una biondona di medio bordo con un’amica sculettante si è seduta al tavolo vicino e gli ha lanciato subito uno sguardo a cometa, alla coda della quale il puntato afflitto si è subito agganciato. Lui, sempre con il cellulare all’orecchio, presumo informato dei funerali, ne ha chiesto l’ora. E messo al corrente, con un tono ormai frizzantino di chi ha appena ricevuto un invito al Billionaire, ha replicato: “Ma come potrei mancare? Ci vediamo lì alle undici... (piccola pausa...) Di sera?”
Ho immaginato la risposta... Lui si è giustificato, dicendo: “Scusa, sai, ma con questo caldo...” Difatti, con un fazzoletto candido e ben piegato si stava asciugando il sudore dalla fronte... senza perdere di vista la bellona, che nel frattempo aveva scoperto la coscia fino all’inguine.
Non so come sia finita... Sono venuta via. E continuo a non fidarmi del cellulare, invertebrato complice.



Chiudo con la politica...

...non ne voglio più parlare. La politica è stata uno dei miei nutrimenti psicologici per molti anni. Ora sono volutamente in astinenza, anche se ne soffro la crisi. Voglio spogliarmi dell’ideologia con la quale l’avevo farcita. L’indulto voluto non per fini umanitari ma per giochi di bassa politica è stata la mannaia che ha reciso ogni interesse. La bilancia della giustizia non è stata tarata, anzi l’hanno manomessa. Voglio solo sperare che prima, molto prima, il mio credere ne giustificasse la passione. Non metto in discussione nulla, per non togliere dignità ai ricordi. Seppellisco senza neanche un funerale: non se lo merita.



La noia di annoiarmi

Difficilmente ho problemi di noia... Ne ho sentore a distanza. Le avvisaglie mi permettono di evitarla. E quando, per distrazione, ci inciampo dentro, fatico a perdonarmelo. A volte, non per scelta ma per dolorosa necessità, non posso sottrarmi; non riesco a camuffarla e ne traspare tutto il disagio. Ho bisogno di appartenenze mentali... Mi annoiano e mi pesano i discorsi delle persone distanti da me, che non mi trasmettono emozioni perché non ne posseggono. Il loro massimo, per me è il minimo del nulla. Quando m’impantano in inevitabili situazioni negative, cerco di gestirle frantumandone l’ascolto e diluendolo con programmi mentali che la noiosità del momento, farcita di fantasia, rende raggiungibili. Questa mia eccessiva ribellione all’ovvio è forse per sentirmi più libera; io che già lo sono per scelta e per sorte, non voglio incanalature devianti del mio io. Ad una certa età scarseggiano le distrazioni dell’imprevisto... La vita non te le propone più e cerca, con una punta di sadismo che molti chiamano saggezza, di metterti alle corde sul ring della monotonia giornaliera. Cerco in tutti i modi di oppormi con moltissime letture e spesso con la manualità, per me molto gratificante. Mi faccio un vestito (sono molto brava...). Ne ho moltissimi, per infinite e ormai inesistenti occasioni. Non importa se forse non li metterò mai... Li ho sfoggiati tutti in luoghi fantasiosi, inesistenti nella realtà, per poi deporli nel mio straripante guardaroba dei sogni. Cerco sempre di dare un senso a tutto ciò che mi circonda e che amo. Ho dialoghi interni, cui dò ascolto e importanza se non altro per la considerazione che devo a me stessa per il mio lungo vissuto. Non mi rimangono spazi per la noia.



Condizionamenti

Con la televisione ho uno strano rapporto di anormale acquisizione. Per buona parte della mia vita lei non c’era. È nata molto tempo dopo. L’inglobamento (come molti della mia vita...) è avvenuto in fondo in maniera intrusiva. Quando ancora non c’era, io visualizzavo in un mese ciò che ora visualizzo in un giorno, modificando di conseguenza il mio contenuto mentale e dilatandolo smisuratamente. Le generazioni dopo di me, il televisore ce l’hanno incorporato. Per me è una protesi psicologica che m’illudo di gestire anche se sono certa sia lui a gestire me, condizionando le emozioni a seconda dell’umore che credo sia suo e tutto sommato diventa il mio.
Mi ha catturata subito, fin da quando ce l’aveva solo il bar sotto casa. Io andavo tutte le sere e facevo il pieno di cose mai viste prima, il cui immaginario si prolungava nella notte depositando insonnia. La saletta del bar era lunga e stretta, composta da una lunga fila di cinque sedie ognuna. I posti venivano assegnati a seconda del costo della consumazione. Io sedevo in prima fila, proprio al centro: prendevo sempre un Grog (cognac con acqua calda...). Una volta mi sentii minacciata da un signore che prese un doppio whisky... Per mantenere la posizione raddoppiai la dose, così tutti i programmi, con il mio stato d’animo leggermente alcolico, divennero una quasi realtà. Ai miei lati avevo i cappuccini. Le loro emozioni erano molto blande. Nelle due file dietro venivano i caffè e condizionavano ogni visuale con risatine nervose. Le ultime file erano sempre molto animate, con esternazioni forti, a volte anche scurrili. Erano i più, quelli che bevevano vino e allentavano di molto i freni inibitori. Tutto questo, per me era una grande evasione in un piccolo paese con limitati spazi mentali.
Questo imprinting si è incorporato diventando quasi genetico e creando in me un’anomala dipendenza. La logica dovrebbe essere che lui ti porta il mondo in casa. A me accade il contrario: sono io che vado con lui per il mondo, con voli psicotici di fantasia; passo a volte dal caldo asfissiante del deserto del Serengeti al freddo boia del deserto dei Gobi. Questo repentino sbalzo termico non mi fa per niente bene. Mi crea problemi a livello organico. Ho sempre con me vicino una sciarpa che tolgo e metto in continuazione, in attesa di paesaggi mediterranei con climi miti. Quando, malauguratamente, si rompe sono preoccupata non tanto per me quanto per lui, che anziché il tecnico mi viene istintivo di chiamare il medico. Più condizionata di così...



Una “piccola” svista...

Non posseggo più la macchina... Con lei avevo un rapporto di pura necessità. Non provavo per lei eccessive simpatie, e anche lei non ha mai fatto nessuno sforzo per venirmi incontro. Anzi, era piuttosto portata... allo scontro, tant’è che approfittando dei momenti di lieve distrazione me ne ha provocato più d’uno.
Non avendo garage ero costretta a lasciarla per strada, a volte anche distante dal mio portone. E questo a lei non andava giù (avrebbe voluto un garage tutto per lei, con le macchine benestanti...). Lei se lo legava al dito, anzi alla batteria. E mi puniva non volendo partire, specie d’inverno. Se la lasciavo ferma per un po’ di giorni, mi faceva il muso, anzi mi faceva il cofano... imbronciato. Si bloccava e non reagiva ai comandi, tanto che alla fine mi toccava, una volta al giorno, farle fare due o tre volte il giro dell’isolato. E solo allora muoveva la coda...
Il tutto diventava faticoso, e ho dovuto liberarmene. Soffrendo un po’, perché io comunque mi affeziono alle cose che mi appartengono. Trovato l’acquirente, la sapevo in buone mani e la volevo presentare al meglio. Sono scesa per strada con la spugna, il secchio e i detersivi abbellenti. Ho cominciato a lavarla a partire dalle parti intime: il parabrezza, i vetri... Mentre facevo questo maquillage, ho notato che dall’altra parte della strada c’era un signore che mi guardava con insistenza mista a stupore. Poi si è avvicinato. E molto cautamente mi ha chiesto il perché di tanto zelo nel pulire la macchina. Gli ho risposto che la macchina era in vendita. E lui mi ha sussurrato che temeva la cosa non fattibile. Ho capito subito che aveva dei problemi... Per finirla lì ho rimandato la pulizia dell’interno. E mentre rientravo nel portone, ho visto il signore che con uno scatto da fedain entrava nella mia macchina, metteva in moto e partiva.
Ho inseguito il ladro di corsa per qualche metro, con rabbia e il cuore in gola. Tornando indietro, ho visto con stupore la mia macchina sporca e avvilita che mi guardava con fare compassionevole. La macchina che avevo lavato non era la mia!!!



Signorsì

Torno indietro di anni, molti, quando nell’infanzia l’obbedienza era la base che reggeva l’educazione di ogni famiglia. Sui muri, allora c’era la scritta: “Credere, obbedire, combattere”. In casa mia (che poi era una casa abbastanza permissiva...) si diceva: “Del motto, togli l’inizio e la fine. La parola di mezzo no. Quella non va sottovalutata.” Ora, a distanza, capisco che in fondo era vero. Sarebbe servita poi come allenamento alla ribellione. Accantonata nell’inconscio e ben gestita, in seguito sarebbe servita nella vita perché a volte, se non è fine a se stessa, può essere produttiva.
Ora l’obbedienza è sparita, soprattutto nei bambini. È il permissivismo ad oltranza a togliere anche il gusto della trasgressione, della quale, non conoscendone i limiti, si frantumano tutte le emozioni a dispetto di inesistenti censure.
Si sente a volte l’inammissibile desiderio di obbedienza che tolga a noi il peso di quelle responsabilità che ci toccano su decisioni che vorremmo imposte per non sentirne il peso dopo. Da non confondere con il consiglio. Il consiglio lo accettiamo solo se convalida ciò che abbiamo deciso e crea sconcerto perché comunque le conseguenze non saranno divise. Paradossalmente, l’obbedienza ogni tanto è riposante... se conosci chi te la impone. L’assurdo è che in fondo in fondo tutti obbediscono a qualcuno ma non sanno chi sia.



Disturbi di pansa

L’altra sera mi si è stretta un po’ l’aorta:
ho visto Porta a porta.
Ospite il revisionista Pansa...
e nella mia, all’interno, tutta una danza.

Il fegato ingrossato
si è spostato qui di lato...
un po’ più giù, verso sinistra,
dove trovò incavolata anche la milza.
E la bile, testimone di tanto sballo,
tingeva il tutto color di giallo.

Sorvolo sulle parti basse...
che con il cuore stanno in asse.
Per quelle non c’è sfumatura:
è semplicemente... una rottura.
Così che tutte le mie frattaglie
ormai sono in gramaglie.

Non mi resta che spegnere il televisore
su quella pipa spenta che non emana più calore
e che, riempiendogli la bocca,
gli impedì di dire che la Resistenza non si tocca.



Gli animali e la politica


Se ne andava un dì una moffetta,
passeggiando in città piano piano, senza fretta.
Passò per caso davanti al Parlamento
e incuriosita pensò di entrare dentro.

Fra ori, stucchi e grandi specchi
sentì i dibattiti dei Grandi Vecchi.
Parlavano, parlavano... soprattutto di soldi.
Frasi gia sentite, ma da grossi manigoldi.
Insulti di qua e di la,
tutti concentrati sulla scarsa liquidità.

Disse fra sé e sé: «Qui c’è qualcuno che sbaglia.
Vuoi vedere che tocca a me salvar l’Italia?»


Non adottò la solita politica dello struzzo:
alzò la coda e inondò tutti di... liquidità
con un grande puzzolente spruzzo.



I sedimenti sulle anticaglie

Nelle riviste di arredamento moderno firmate da grandi designer minimalisti, la visione asettica e rigida mi sconvolge.
Per me, lì nulla è deduttivo. La loro rigidità non permette riflessioni e confidenze. Li posso concepire solo in camere d’albergo, e quando te ne vai ti porti via insieme alla valigia anche i pensieri che lì per caso son caduti, mobili dove non c’è traccia di passato... E lo devi riempire tu con il tuo presente, che è troppo piccolo per avere la forza di impregnare.
Oggi si accumula a fatica. Le emozioni si elaborano in fretta. Sono incalzanti, non hanno il tempo di lasciare impronte di ricordi incisivi. Senza la testimonianza silente di un passato che parla, senza il rimando, ci sentiamo soli. Il nulla fa paura, e il vuoto non è mai confortante.
Io dormo nel letto che fu di mia nonna. È un letto di legno fatto a barca, su cui navigano i miei sonni. La mia biancheria è deposta sul suo comò, che lei o qualcuno prima di lei chissà quante volte aprì, pensando a chissà che. E del loro pensare, qualcosa è rimasto... perché io lo sento. E qualcosa del mio vissuto si aggiungerà a qualcosa che già c’è.
Ho sempre creduto di essere moderna, ad oltranza. No, non lo sono.



Lampi di genio

Ci sono persone che emanano stupidità... e stupidi quasi sempre lo sono. Dai loro sguardi non esce niente che non faccia pensare ad un elettroencefalogramma appena appena ondulato. Altri emanano intelligenza, e difficilmente ci deludono.
Uno di questi, che ho conosciuto molto tempo fa, fu Orson Welles. Me lo presentò sua moglie Paola... Io allora mi occupavo di moda... Avevo una sartoria. Lei venne da me per degli abiti. Diventammo amiche. Era una donna bellissima, appartenente alla buona borghesia, molto sofisticata, altera ma in fondo molto fragile. Aveva bisogno di una figura dominante, e lui lo era.
Ne parlo al passato perché non ci sono più. Lei morì a Los Angeles in un incidente stradale, pochi anni fa, e lui un po’ prima in Spagna (si erano già separati...).
Ebbi con lui lunghe conversazioni, un po’ in italiano e un po’ in francese. Era talmente affascinante che non avrei smesso mai di ascoltare. I suoi occhi lampeggiavano sempre genialità. A volte era presente anche la figlia, sua e di Rita Hayworth... Dalla madre aveva ereditato solo i capelli: tanti, ramati e bellissimi; tutto il resto era del padre, e lei ne era cosciente. Ricordo che si mangiava le unghie in continuazione, con avidità.
Un giorno mi trovavo a Fregene, dove i genitori di Paola avevano una villa. Lui stava montando nel garage la pellicola di un film che era, se ben ricordo, Il processo. Era reduce da una colica epatica, dovuta a un numero eccessivo di uova sode che aveva mangiato in una sola volta. Doveva, di conseguenza, fare delle iniezioni. Gliele feci io. Era vestito solo di un chimono di seta giapponese. Se lo tolse, e io mi trovai davanti un enorme sedere a due piazze. Infilai l’ago con la sensazione di aver bucato l’intelligenza... che a parer mio arrivava fin lì.



(Anche) Le mie montagne

Ho letto l’ultimo libro di Giorgio Bocca... Mi ha dato una spinta all’indietro, nel mio vissuto di allora. C’ero anch’io su quelle montagne. Sono di Boves. Facevo la staffetta... Ci siamo forse incontrati. Non so... Non ricordo. Ricordo invece buona parte dei molti da lui menzionati e con i quali avevo allora, seppure giovanissima, rapporti ideologici per me embrionali.
Ricordo Vian, il comandante Vian... che del comandante aveva la tempra, ucciso dai fascisti. E poi Dunchi, lo scultore-poeta che credevo allora un idealista impavido (era sempre pieno di bombe...). L’ho rivisto poco tempo fa, reduce da una vita trascorsa a Parigi... da scultore. Abbiamo parlato a lungo, ripescando nei ricordi. Del presente non è presente: lo ignora politicamente, e ho capito che è sempre stato un anarchico e che lo è tuttora. Mi ha scritto, in seguito, una lettera su questo nostro ultimo incontro avvenuto a Boves... Lettera tardiva di sessant’anni. Vive a Forte dei Marmi. Continua a scolpire malgrado l’età (ottantasei anni...), costruendo monumenti commemorativi. Uno di questi ultimi, nella Francia del nord, in onore di tutti i poeti del mondo, l’ha dedicato a me... che ricorda con nostalgia. Ne sono lusingata. La conservo. La pubblicherò la prossima volta (forse... non so...)...
Ho conosciuto molto bene anche il personaggio, avvolto in un mistero militar-politico francese, giunto in Italia a guerra finita. Io gli piacevo. Veniva sempre a Boves, a ballare in un locale romantico e bellissimo. Si chiamava il Bisalta Park, dove suonavano orchestre famose (venne, una volta, anche l’Orchestra Angelini... che allora era il massimo).
Mi lusingava la sua attenzione, che aveva il fascino del mistero. Divenne comandante della caserma di Cuneo, e lì mi invitò una mattina per visitarla. La visita si ridusse al suo studio. Aveva avvisato il piantone, che guardandomi incuriosito (ero e sono alta uno e settantasei, avevo diciannove anni...) mi condusse nel suo ufficio, seguita da sguardi che non avevano nulla di militaresco. Mi ricevette in un ufficio molto grande. Sturò una bottiglia di champagne (erano le dieci del mattino... pensai ad un’usanza francese). Ne rimanemmo un po’ storditi. C’era in un angolo un divano dell’Ottocento... uguale a quello che io avevo a casa, nel soggiorno. Quella presenza troppo familiare la sentivo giudicante e per niente approvante (si sarebbe saputo... e lui non era libero). Il timore ruppe l’incanto invasivo che lo champagne a digiuno aveva provocato.
Ballammo altre volte, complici misteriosi di desideri non vissuti e sublimati, e proprio perché tali, privi delle delusioni del poi. Lo rividi casualmente a Roma, dove già vivevo da qualche anno. Era diventato Capo di Stato Maggiore, pieno di medaglie e stellette. E tutto quel paludamento fece da estintore sul ricordo ormai lontano, lasciando intatto e irrisolto il mistero della sua missione in Francia in tempo di guerra.
Molti altri menzionati nel libro di Bocca, e che anch’io conoscevo, se ne sono andati. Un po’ allora e un po’ dopo. Siamo rimasti in pochi a ricordare, con la fatica sterile e impensabile di raccontare ora, e ancor più impensabilmente a coloro che non vogliono più sentire; ora che ci sono i rinnegati revisionari (revisionisti visionari...) che lucrano senza pudore per togliere dignità alla memoria, perdendo così la loro di dignità.
Boves dista da Cuneo neanche sette chilometri... E per le distanze di quei tempi era un po’ la provincia della provincia. L’andarvi con i mezzi di allora dava l’emozione di un viaggio. Il dialetto uguale di base, ma con un suono e qualche parola diversa.
Io ho parlato in dialetto fino a trentacinque anni. Si parlava in casa... Mio nonno lo esigeva, in quanto lo parlava anche il re. “Cribbio!” Cribbio è un’esclamazione che prende significato a seconda del tono con cui si pronuncia (molto usata in casa Savoia...). Al bevuma ‘na volta di Giorgio Bocca, noi aggiungevamo sempre stupuma ‘na buta (meno limitante). Il rumore del tappo che veniva via dava già per sé allegria, tant’è che anche adesso, ogni qual volta sento quel piccolo sbuffo reso stonato dai tappi di plastica, per riflesso condizionato ne provo gioia. Allora le bottiglie si sturavano coi cavatappi semplici, senza le ali. Ci si metteva la forza, la bottiglia in mezzo alle gambe, e si tirava. Le donne, invece (perché erano loro che servivano nelle osterie...), con un gesto quasi gentile accomodavano la bottiglia sulla coscia sinistra, assumendo la posizione di chi si accinge alla danza, e dopo aver avvitato il cavatappi, con un sorriso che mascherava lo sforzo, tiravano e il tappo veniva via. Poi, con la mano callosa, che in quel gesto sembrava una farfalla, lo svitavano e lo riponevano nella tasca del grembiule.
Le trattorie avevano nomi ora scomparsi: Il gallo nero, Il gallo d’oro, Il cavallo bianco... La trattoria dei miei nonni si chiamava Lo scudo di Francia. Nel ‘36 già non era più loro, cambiò nome e divenne Adua. C’erano simboli visibili per la gente che non sapeva leggere. Ricordo vecchie e piccole insegne vicino ai portoni di osterie e locande. Alloggio con stallaggio... Dicitura rimasta anche quando i cavalli non c’erano ormai più. Sono scomparsi anche gli odori tipici di tutte le trattorie... Odori di alici al verde, di cotechino e di bollito, e di tomini maturati al punto giusto, appena un po’ prima della comparsa di piccolissimi vermetti con gli occhi neri, che a volte il pepe ne sollecitava la nascita prematura, provocandone un balletto saltellante. Ora i tomini si trovano ancora, ma sono diventati tutti sterili... o prendono la pillola. Perché da nessuno di loro nascono più vermetti con gli occhi neri... per la felicità di amatori buongustai. E su tutto si diffondeva, in queste osterie, un profumo di Barbera che impregnava gli abiti... quasi a ricordarti che eri stato lì. E poi il martedì, giorno di mercato, le piole (le vecchie osterie rustiche e a buon mercato...) al mattino servivano, d’inverno, una minestra fitta di trippa calda, dentro ciotole bianche con fiori blu, spesse un dito per mantenere calde le pietanze. E tutto questo sarebbe sostituibile con i fast food? Ma fatemi il piacere!!!
Mi ricordo di una Cuneo di allora... La corriera si fermava vicino al Comune, dove iniziavano i portici bassi della Cuneo vecchia, avari di luce. Quelli di destra con i negozi generazionali, che davano fiducia. Li ricordo quasi tutti, ma uno in particolare: Cavaglion. Vendevano tessuti di ottima qualità, ed erano di una gentilezza estrema. Lì comprai, giovanissima, il primo abito da sola. Mi aiutarono nella scelta e mi fecero sentire importantissima. Non lo dimenticherò mai. Poi si andava avanti, si attraversava la piazza, ci si fermava da Arione, pasticceria tuttora esistente, che ti accoglieva con quell’odore di bignole piccolissime (i cuneesi sarebbero venuti dopo...). Nel pomeriggio, le signore si davano appuntamento lì, fra gli specchi dorati, sedute su sedie imbottite di velluto rosso che facevano tanto Torino... che a sua volta faceva tanto Parigi. I portici continuavano nella Cuneo nuova, ma erano troppo alti e poco protettivi, privi di passato... e difficilmente ci si avventurava. Si faceva il giro e si passava dall’alta parte, dove invece delle compere ci si metteva in vista passeggiando tra i vari caffè, per poi riprendere la corriera e tornare a Boves.
Si parla di globalizzazione... Io ci credo... ma non aderisco del tutto. Scopro un’appartenenza al luogo che non è solo mia. Frequento, a Roma, gente della provincia di Cuneo, e scopro che abbiamo un’ironia che è solo nostra, non condivisibile con chi non vi è nato. Le sfumature di una parola dialettale sono per noi ironia pura, inspiegabile agli altri, con i quali ridiamo... ma in maniera diversa.
Bocca fa un elogio al vino... Noi lo producevamo, per la famiglia. Avevamo le vigne, delle quali ricordo l’accudimento faticoso di potature, spruzzi di verderame, e il togliere l’erba, filare per filare, dove c’erano i peschi selvatici che solo su quel terreno potevano vivere e i cui frutti avevano un sapore unico... mandorlato. Avevamo anche il torchio, e dall’ultima spremitura veniva fuori un vino da tavola dissetante e un po’ frizzantino, a seconda dell’annata... Tutto il paese era coperto dall’odore di mosto, di mele e d’autunno. Per me il bicchiere di vino è legato a tutto ciò. È un suggellante di eventi lieti, placa e diluisce le tensioni. L’euforia che ne deriva non è mai d’urto. Si insinua e si diffonde con garbo e se ne va sfumando.
Ogni anno vado per un periodo in Venezuela, e lì divento astemia. Il loro è un bere super alcolico, che entra in circolo con prepotenza, alla Cassius Clay, con due pugni nello stomaco, e ti lascia stordita e incapace di capire quando sei entrata in euforia e perché ne sei uscita ammaccata.
Bocca parla di vini piemontesi, i cui nomi non conosco. Vini costosi, da cento euro al litro. Non riesco a immaginarne il sapore... Penso che dovrei berne più bicchieri per riuscire a dissociare il gusto dal costo. E in questo caso dovrei ricorrere a una finanziaria...
Mi basterebbe bere con lui una buta di Dolcetto, per ancora scavare nel passato cercando di ignorare il presente. Non credo che accadrà... Lo immagino un po’ scorbutico, e non mi azzarderei mai a proporglielo.
Continuerò a leggere i suoi articoli sui giornali, come faccio da sempre. Qualcuno lo ha definito uno sconfitto... Non è vero, non lo è. È un deluso, e sarebbe deludente se non lo fosse. Siamo in molti con sensazioni come le sue, solo che noi anziani abbiamo avuto più tempo per accumulare speranze faticose, ora naviganti in un marcio ostentato che non ci appartiene.



Hollywood amarcord...

Quando ero molto giovane, il mio ideale di divo cinematografico era Gary Cooper. Cary Grant, per i miei gusti di allora, era troppo spumeggiante e poco affidabile. James Stuart era troppo lento nell’agire e nell’esprimersi. Di Charles Boyer mi piaceva solo lo sguardo... era troppo basso. Clark Gable aveva l’aria immatura e poco affidabile. Gregory Peck, troppo nevrotico. Gary Cooper perfetto, sia a cavallo che in piedi. Vedevo tutti i suoi film.
Venni a Roma, credo nel ’56... Ero ospite di una mia amica che faceva la vendeuse in un negozio importante di via Condotti. Le altre si chiamavano commesse. Le vendeuse dovevano conoscere le lingue. E lei, caso raro allora, parlava molto bene l’inglese.
Un giorno mi disse che un attore che veniva dall’America sarebbe andato nel negozio dove lei lavorava. Aveva ordinato delle camicie, e gli dovevano prendere le misure. Avevano però un problema: lui era molto alto, e loro avevano una camiciaia molto bassa. L’attore era Gary Cooper... Mi proposi di sostituirla. Sono alta uno e settantasei... Non avrebbero trovato di meglio.
L’emozione era enorme, un po’ come se a un credente (non voglio essere blasfema...) gli dicessero di venire un attimo in sagrestia che c’è l’arcangelo Gabriele e gli devi aggiustare l’aureola...
Lui sarebbe venuto verso l’una... Io a mezzogiorno ero lì. E via Condotti era piena di fans... Un po’ come ora si fa per Tom Cruise (anche se lui è alto uno e sessanta e ha l’espressione di uno al quale non hanno mai tolto le adenoidi...).
Quando entrò nel negozio, per me fu come se io entrassi nello schermo. Bellissimo!!! Con il centimetro in mano, ne feci il calco. Una TAC esterna, una risonanza magnifica... Gli misurai il polso, il braccio, il giromanica, le spalle, il torace e anche la vita. Il collo, due volte... E per giustificare la seconda, dissi alla mia amica che traduceva e mi guardava sbalordita di pregarlo di sorridere... perché in quel caso il collo si sarebbe leggermente dilatato, e io dovevo calcolarlo per la comodità del colletto.
Mi illusi che quel sorriso fosse per me, che in quel momento ero Grace Kelly in Mezzogiorno di fuoco. Mi lasciò un autografo, ringraziandomi ed elogiando la mia grandissima professionalità.



Arriva un altro Natale!

E così è un’altra volta Natale... Ormai, come da diversi anni, sono Natali piatti a cui il consumismo ha tolto il mistero e l’atmosfera del passato, quando si pensava che fosse localizzato solo dove uno viveva, o tutt’al più a Betlemme. La magia del presepe con il muschio vero che si trovava sotto la neve, con le pecore grandi due volte il pastore (che per le dimensioni sembrava condurre un gregge di dinosauri...), con il Bambin Gesù enorme che sembrava nato dopo una gestazione di tre anni, tant’era grande a confronto con il bue e l’asinello... Ma era tutto talmente in buona fede che gli errori di proporzione neanche si coglievano.
Per noi, in Piemonte, in occasione di queste festività, come dolce si montava la panna, da mangiare poi (poco addolcita e con un cucchiaio di caffè macinato un po’ grosso...) con il panettone. La montatura della panna avveniva sbattendo all’infinito, con due bacchette di bambù, la crema di latte. E mia nonna era addetta a questa operazione, che svolgeva in giardino in quanto non avevamo il frigorifero (e solo con il freddo la panna sarebbe montata...). A volte l’operazione durava anche un’ora, e a metà sbattitura mia nonna rientrava in casa per prendere fiato. Uscivamo allora mio fratello ed io a fare la guardia, perché una volta un paio di gatti festeggiarono il Santo Natale alla grande, alla faccia nostra. Poi, a montatura avvenuta, si rientrava in casa per consumarla alla svelta, prima che si smontasse. E ogni anno capitava la solita tragedia: mia nonna, alla quale toccava la prima cucchiaiata per rispetto all’età e alla fatica, riemerso il cucchiaio dal recipiente, per forza d’inerzia seguitava ad assecondare con il braccio il movimento della sbattitura, e tutti noi attorno al tavolo ne rimanevamo... imbiancati. La costringevamo, quindi, a mettere la mano destra in tasca e a mangiare con la sinistra.
Di un altro Natale mi ricordo... La guerra era appena finita, ma la fame c’era ancora. Venne da noi un mio amico che allora si preparava per la carriera politica (sarebbe poi diventato Presidente della Regione Piemonte...). Lui era di Morozzo (lo stesso paese della senatrice Livia Turco...), luogo in cui si trovano i migliori capponi della provincia di Cuneo. Ce ne diede due... Uno dovevamo consegnarlo a un giornalista de “La Stampa” di Torino, la moglie del quale era una mia amica. Ora, i due capponi non erano uguali: uno era molto grande, l’altro palesemente più piccolo. Quest’ultimo destinato a noi, che fingemmo di non vedere la differenza. Tutti d’accordo sull’uguaglianza del peso, scegliemmo il più grande e mettemmo l’altro al fresco sul balcone, in attesa della consegna che sarebbe avvenuta il giorno dopo. Ma il freddo della notte appiccicò le penne, e il povero cappone si rimpicciolì ancora. Facemmo una riunione di famiglia: bisognava trovare un rimedio. Darle l’altro non era più possibile, l’avevamo già spennato; comprarne uno, impensabile. Giungemmo alla conclusione che era solo una questione di estetica. Mi feci prestare un phon e gli arruffai le piume contropelo. L’operazione di maquillage durò quasi un’ora... Quando lo consegnammo, era pronto per una sfilata di bellezza. E la mia amica, sentendolo tiepido, disse che lo avrebbe fatto frollare un po’!!!
E tanti, tanti altri Natali ancora... Ma per quest’ultimo, tanti auguri a tutti voi.



Mille luci

Soffrendo di insonnia, ho il televisore in camera da letto... consapevole che lui ne alimenta la causa. E tutto è cominciato da lì. Anche spento, ha accesa una lucetta rossa. Sotto di lui c’è un videoregistratore che segna l’ora con una lucetta verde. E sotto ancora, ho una cassetta Sky che ha un’altra lucetta rossa.
Di fianco al mio letto, ho appeso alla parete un salvavita che seguendo un certo meccanismo interviene in caso di richiesta d’aiuto. E lui di lucette ne ha due, verdi, che si riflettono nello specchio che ho di fronte sul comò, raddoppiandole. Paradossalmente, se volessi stare veramente al buio dovrei accendere la luce... così si evidenzierebbero di meno.
Ho anche un condizionatore, dove a seconda della velocità si accendono due lucette verdi. Lo adopero pochissimo... Ma quando lo faccio, devo prendere un calmante. Perché oltre le luci e un lieve rumore di fondo, ha ai lati due alette che si aprono. E lì ho l’impressione di essere a Cape Canaveral in attesa del lancio, in preda a un attacco di panico dell’astronauta claustrofobo. Vado allora a dormire in salotto, perché non voglio svegliarmi sulla Luna...



La guerra dentro

Leggo ciò che scrivono le persone anziane, per curiosità e comunione di ricordi periodici. Mi insinuo nelle fessure rievocative, in un percorso interiore, e ritrovo emozioni intatte che creano sul mio presente ponti sempre più lunghi sulla cui gettata devo aggiungere pilastri per la portata di un sempre più breve domani.
Ho visto in televisione l’intervista a uno scrittore anziano... La sua dolcezza evocativa mi ha intenerito e ne ho comprato il libro. Il titolo è Il sergente nella neve, di Mario Rigoni Stern. È un diario postumo del suo periodo militare in Russia durante la guerra, e ne snoda l’allucinante periodo rendendo quasi visibile il suo psicologico mutare giornaliero. L’orrore che non riesce a renderti cattivo erode piano piano la sensibilità del momento, e ciò che è peggio è che il proprio essere in vita sembra avvenuto a discapito di tutti gli altri che non ce l’hanno fatta. È la testimonianza di un assurdo passato di guerra e di inutili morti che ha lasciato atroci incisioni sui pochi sopravvissuti, i quali fanno fatica a raccontare perché la credibilità è sempre inferiore all’accaduto, e con il passare del tempo si indebolisce e perde forza, scolorisce, diventa afasico.
Io me la ricordo quella gioventù costretta a partire per una guerra che non capiva, in una terra di cui pochi di loro conoscevano la posizione geografica. A loro non importava diventare eroi. Volevano solo vivere. Volevano tornare a casa. Pochissimi tornarono. Morirono in molti, senza capire il perché. Le guerre sarebbero dovute finire lì, per sempre. E invece no.
Sfugge a ogni senso di logica umana... In tempo di pace, la vita seppure di un solo individuo malato diventa talmente sacra che anche se è lui a deciderne la fine, comunque inevitabile, crea dibattiti infiniti. E il medico che l’aiuta viene perseguito. In tempo di guerra non esiste più sacralità. Anzi, si chiama in causa Dio come giustificante, inventandosi l’avallo, e lo si erge a difesa di macellai con la coscienza medaglista e benedetta al merito se ne sono i vincitori.
Nulla è cambiato dai tempi della clava. Solo i mezzi per uccidere. E nulla cambierà. Troppi grossi interessi economici, neanche più camuffati da ideologie. O forse, chissà, un giorno lontano, lontano, lontano, quando il mondo sarà laico e nessuna religione potrà più accomodare le coscienze e varranno solo quelle vere, senza fanatismo, quelle interiori e non manifeste. Se Dio esiste (ed io lo spero...), è un essere superiore, giudicante, non ha bisogno di incensamenti pubblici e battimani ai quali non si abbasserebbe mai, se non altro per non confondersi con i mortali esibizionisti e coprenti peccatori.



Tempus fugit...

Il mondo corre, non mi aspetta più. È diventato troppo veloce, e io ho il fiatone. Prima, molto prima, era molto più lento, ed io con la forza e l’illusione di stare al passo, a volte di arrivare anche prima. Questa accelerazione non l’avevo messa in conto... La constatazione mi svuota, e mi invento una forza che mi illudo ancora di avere per non fermarmi. Forse tutti quelli che arriveranno alla mia età proveranno sensazioni del genere. Io ve le ho anticipate.
Il computer che avvicina al mondo, per me l’allontana. Me ne arrivano pezzettini per riflesso, che fatico a riconoscere e che inesorabilmente mi segnano il tempo. Mi piacciono le scoperte lente... Ora sono scoperte che non stupiscono, più scontate. La curiosità ne ha tolto lo stupore.
Sono riflessioni amare di una giornata d’inverno anomalo, pure lui. Spogliato dal freddo, sembra una primavera malata nata da un’anomala gestazione autunnale. Un eccesso di futuro che ha fucilato il passato, senza il quale la convivenza con la vita diventa spoglia. Il gusto del vivere si nutre di ieri e di domani. Solo così si può creare l’equilibrio di esistere.



Fermata d’autobus

Oggi, aspettando l’autobus per ben quaranta minuti, mi è venuta in mente un’attesa ancora più lunga di anni fa. Non so quanti... Non mi interessa. A prevalere è il ricordo dell’attesa, in una mattina primaverile che non finiva mai.
Ero l’unica passeggera ad aspettare, quando si fermò una macchina vecchia e scassata con dentro un tipo abbastanza trucido che mi disse a bruciapelo: “Vuoi salire? Cinquemila.” Lo shock della valutazione superò quello della proposta. Sperai che il proponente avesse almeno molte diottrie, mentre facevo mentalmente l’equivalente di quanto avrei potuto comprare con tale cifra... che era suppergiù sei etti di bollito.
Nel frattempo si avvicinò una donna di mezz’età, piccola e grassa, con due borse piene di spesa e le gambe gonfie piene di varici. Ripassò la stessa macchina... Si fermò, e il conducente trucido rifece la proposta modificandola: “Cinquemila tutt’e due.”
Il mio sdegno superò i limiti, tanto da sperare che nella spartizione quattromila toccassero a me e mille alla signora con le varici, la quale, pronta, rispose: “Ma cerca d’andartene. Fra cinque minuti finisce lo sciopero e prendiamo l’autobus.”
Mi sentii rinascere, ma non del tutto, tanto che la sera, per bisogno d’equilibrio compensativo accettai l’invito di un mio amico, mieloso e complimentoso all’eccesso, che cercavo ogni volta di evitare perché un po’ mi nauseava. Quel giorno no. Ne avevo bisogno. Dovevo rifare il lifting al mio ego, preso a schiaffi anche se per sbaglio.



Gli odori smarriti

Dove sono finiti gli odori di un tempo che fu? Quando ero giovane, ogni cosa aveva un suo odore. Prima di tutto le persone. Vivendo in un paese, ci si conosceva un po’ tutti. Ed io, a occhi bendati, avrei capito chi mi stava vicino, il componente di quale famiglia. Era un odore di appartenenza, odore di gruppo famigliare che si tramandava assieme ai tratti somatici. Forse qualcosa di ancestrale rimasto negli animali, che per riconoscersi si annusano. E non era l’odore della cucina, di cui si impregnavano gli abiti mangiando suppergiù tutti le solite minestre stagionali. Erano odori individuali, debellati ora dai vari deodoranti usati come diserbanti che si sentono ovunque, in ascensore, per strada... e un po’ meno sugli autobus.
Io sentivo l’odore della neve già prima che cadesse, e allora era tanta. Sentivo anche il silenzio che precedeva lo spartineve tirato dai cavalli sudati e fumanti. Ammucchiata sui lati delle strade, diventava una muraglia. Camminando al centro, dove ne era rimasto uno strato, la sentivo scricchiolare.
Io vivevo in una casa molto grande, che apparteneva ai miei nonni. Una casa a due piani... Ma l’unico ambiente riscaldato era la cucina, che si trovava a pianterreno e dove si viveva di più. Era molto grande, vi erano anche due divani che la sera si riempivano di gente, i vicini che ci venivano a trovare. E parlavamo della guerra d’Africa, seguendone sulla carta geografica, con spille e bandierine, l’avanzata o l’arretramento delle nostre truppe. Non essendoci la televisione, si parlava molto. Si andava poi a letto nelle camere gelide, preceduti da bottiglie d’acqua calda. Lo spogliarsi era fulmineo. E nello specchio di fronte vedevo, prima di mettermi la camicia da notte, un’aureola di fumo... un po’ come quella dei cavalli che tiravano lo spartineve.
La mattina tutti i vetri erano gelati. Appoggiavo un dito sopra... Il calore formava un piccolo buco nella brina. Di lì guardavo fuori com’era il tempo, fra quelle bellissime tendine ghiacciatamente arabescate. Ci si vestiva in fretta e ci si lavava con l’acqua nella bouillotte, che era di rame e la manteneva tiepida. La biancheria intima era tutta di lana, fatta a mano... antistupro.
Vicino a noi abitava una signora sulla quarantina... Due volte a settimana, il martedì e il venerdì, giorni di mercato, andava a Cuneo con la corriera. Non era del luogo, e tutti ci chiedevamo che lavoro facesse. Lei dava risposte vaghe. Diceva che faceva lavori... umanitari. Capimmo quale umanità ne beneficiava quando, nel mese di gennaio, con un freddo boia, stese sul balcone ad asciugare un paio di mutandine di seta rosa!!!



E noi li abbiamo votati...

Non volevo più parlare di politica, ma è più forte di me. Invasa dallo sdegno, rompo la promessa. I politici che noi abbiamo votato stanno dando spettacoli di incoerenza impensabile, anche se temuti, dove le squadre si scontrano a suon di colpi bassi, con la leggerezza che solo i lottatori di sumo posseggono. E così rintronati e prede di sindromi di potenza, componenti di una stessa squadra si combattono fra di loro. Saltate tutte le regole, qualcuno cerca di reggere con unguenti ideologici scaduti da un pezzo, ignorando del tutto gli ingaggiatori... che siamo noi che li abbiamo votati.
Li vedo spesso a turno al Bagaglino... Fanno a gara in esibizioni di canti e balli pietosi, da guitti. E noi li abbiamo votati... Ai nani e alle ballerine di un tempo si sono aggiunti i clown, e sono tanti, troppi, incapaci di strappare una risata se non di pietà. I pochissimi politici veri, quelli che più o meno hanno imparato il mestiere, hanno l’abito del domatore a brandelli. E noi li abbiamo votati...
Ognuno di loro si sente dire in televisione che non è preoccupato... Dichiarazione di sfacciata incoscienza. Sono al tappeto. Gli occhi pesti e la mascella rotta, ma continuano a tirare pugni a vuoto. E noi li abbiamo votati...
Avrei molto altro da dire, ma voglio mantenere la promessa almeno a metà.



Un americano... di Cuneo

Riesumando i ricordi e pescando a caso, mi vengono in mente piccoli episodi di una certa importanza emotiva. Uno di questi ve lo voglio raccontare.
Non ricordo in quale circostanza, conobbi un funzionario della Casa Bianca che si trovava a Roma reduce da un viaggio nel Laos per tentare di far fronte, con il governo locale, al problema del traffico di droga dovuto alle piantagioni di papaveri, convertendole in altri tipi di coltivazioni. Mi invitò a cena esprimendo il desiderio di portarmi a Trastevere, che gli avevano riferito (a suo dire...) essere una zona di Roma caratteristica. L’appuntamento era alle venti sotto casa mia. Io, che stavo alla finestra, lo vidi arrivare con una macchina del Corpo Diplomatico, dalla quale scese mandandola via con l’autista. Mi venne il dubbio che ci fosse stata qualche incomprensione... in quanto io non parlo inglese e ci capivamo con il francese, parlato da lui stentatamente.
In quel periodo era mia ospite una signora piemontese che svernava da me... Scesi precipitosamente le scale, pregandola di chiamare un taxi non appena avessi spiegato che per andare a Trastevere non vi era altro mezzo. Chiarita la cosa, citofonai. E prima che potessi parlare, sentii la voce della signora dire: “Taxi, subito”.
Dopo due minuti il taxi arrivò. Con grande stupore del mio amico, il quale commentò che in Italia, in quanto a servizi, eravamo all’avanguardia. E che era certo che quando avrebbe raccontato in America che ogni palazzo era collegato direttamente con una stazione di taxi, avrebbero stentato a credergli. Di questo ne ero certa! Tacqui senza essere generosa di spiegazioni che sarebbero risultate... difficoltose.
La serata fu piuttosto interessante, fra le incrociate curiosità sulle diverse società. Le mie, viste dal basso, dell’Italia; le sue, data la posizione, dall’alto, dell’America. A cena conclusa, verso le undici, mi invitò ad andare a un party che si teneva sulla terrazza dell’Hilton, con il resto dei componenti. Mi avrebbe poi fatto accompagnare a casa dall’autista...
All’ultimo piano dell’Hilton vi erano molti agenti... Tutti con il distintivo al risvolto della giacca, con relativa foto. Mi sembrò, in quel momento, una cosa eccessiva e un po’ hollywoodiana... Al mio amico chiesero informazioni su di me. Lui si fece garante ed entrammo senza difficoltà.
Sul terrazzo, a questo mega party, ci saranno state più o meno una trentina di persone che bevevano, ballavano e ridevano sulle note di un’orchestra. Qualcuna mi venne presentata... Come accade in queste circostanze, i nomi non si capiscono mai. Fra queste, un signore alto, biondiccio e leggermente alticcio, che mi invitò a ballare. Non mi parve una faccia nuova... tanto che gli chiesi se ci fossimo già conosciuti e se per caso non fosse originario di Cuneo. Glielo chiesi in italiano. Non capì. Si fece una risata al whisky, piena di denti... che mi parvero enormi.
Verso le due, la macchina del Corpo Diplomatico mi riaccompagnò a casa... e salutai il mio amico, con il quale rimasi in sporadica corrispondenza per un po’ di tempo.
Il giorno dopo, leggendo il giornale, vidi la sua foto mentre a Ciampino saliva sull’aereo assieme a tutta l’équipe della quale faceva parte Ted Kennedy, che era il signore con il quale la sera prima avevo ballato... e che secondo me era di Cuneo. Mi ero persa un’emozione...



Per-denti

Mi sono sottoposta all’impianto di due denti che, invecchiati con me, mostravano segni di usura. In attesa del lavoro ultimato, mi sono state messe due capsule provvisorie. La sera, mangiando una mela affacciata al balcone che dà sul cortile interno, le capsule sono saltate, cadendo nel cortile condominiale. Io abito al nono piano...
Il mattino successivo, fatto giorno, sono scesa sperando in un recupero. Al portiere, che mi guardava incuriosito, ho detto che stavo cercando un orecchino... Mi ha consigliato di stare molto attenta perché la moglie, qualche minuto prima, schifata, aveva trovato due denti... e quindi avrei potuto trovare anche il teschio cui appartenevano... naturalmente mancante di due denti!!!



Una settimana di passione

Ricordo riti lontani del mio paese, quando la televisione ancora non c’era e lo spettacolare era solo locale e aveva un misterioso fascino ristretto. Il giovedì, appena buio, c’era la processione. Faceva il giro per le strade del paese, suppergiù due chilometri. La gente delle frazioni scendeva a valle per fare la via crucis, soffermandosi in tutte le chiese. E tutto passava sotto casa nostra, che era al centro e si trovava nella strada più larga, tanto che (data la fantasia dei piemontesi...) veniva chiamata la via grande.
Dal balcone di casa, io ne aspettavo l’arrivo. Era preceduta da tristi rumori di catene con le quali erano legati i piedi di un Gesù vestito di rosso e incappucciato che portava una grossa croce, flagellato da uomini anche loro incappucciati ma vestiti di bianco. Io ragazzina, dominata da paure inquisitorie, mi sentivo un minimo protetta solo perché stavo sul balcone.
Ora, chi portava la croce sulle spalle e chi aiutava a sorreggere la parte finale facendo tutto il tragitto chinato erano due penitenti, l’ultimo di questi chiamato il cireneo, che venivano scelti dai loro confessori e simbolicamente ne espiavano le colpe. Nessuno conosceva i loro nomi. Ma siccome erano scalzi, ognuno cercava di immaginare la loro identità dalla forma dei piedi e, mistero nel mistero, qualcuno li riconosceva dal numero dei calli e dalle sporgenze. Un anno corse voce che si trattasse di un tale (che aveva fama di dongiovanni...)... per via del dito mignolo accavallato. Ed era per sentito dire, perché la constatazione in prima persona, avallando la sua fama, le avrebbe coinvolte. Allora le pedicure non esistevano!
Il venerdì un’altra processione, dove il Cristo morto giaceva su un catafalco posato su un grande carro nero trainato da cavalli anch’essi neri, al tempo di tamburi che scandivano colpi macabri e che oltre ai brividi portavano a galla peccati inesistenti di cui sentivamo un’enorme e ingiustificata responsabilità. Il sabato finalmente si scioglievano le campane, e tutti correvano verso la fontana più vicina a sciacquarsi gli occhi come per dissipare il tutto.



Verso una nuova fisionomica...

Sto leggendo su tutti i giornali gli scandali di questi giorni su Vallettopoli. Non riesco neanche a commentare... Io che ho seguito con grande convinzione e interesse le rivendicazioni femministe portate a volte all’eccesso per farle sentire, a distanza di anni (e neanche molti...) vedo capovolto tutto ciò per il quale si è combattuto.
Ragazze giovani, belle e tutte uguali, tanto che è difficilissimo distinguerle perché ancora non siamo abituati alla fisionomica del sedere. Riconosciamo gli asiatici per gli occhi a mandorla, i peruviani per il naso con le narici scoperte, e così via... Ci dobbiamo abituare ai tratti somatici di vallette e vallettine a seconda delle forme dei loro glutei. Ormai hanno sostituito la faccia al sedere, e su quello puntano. Tutto il resto è inesistente. Nessuna di loro ha doti particolari, e per coprire il nulla tutto viene spinto verso il basso... il sedere, appunto. Ognuna di loro è convinta che il proprio sia il più espressivo. Qualcuna, con grossi appoggi, politici e non, forse ce la fa. A far che, non si sa. E anche qui... è sempre questione di culo!



Lettere mai spedite

"Lettere da Iwo Jima", locandina Sono andata al cinema. Ne sono una patita... Generalmente vedo due film a settimana. Difficilmente ne rimango delusa, in quanto scelgo sempre film il cui soggetto mi interessa e dei quali leggo le critiche che a volte sono discordanti non appena c’è anche solo un lieve orientamento politico.
Il giudizio del pubblico, che sotto Natale sale alle stelle per i film dei Vanzina, lo ignoro. Questa volta, tranne il pubblico, i giudizi erano tutti favorevoli e vi ho aggiunto anche il mio con il massimo della convinzione.
Il titolo del film è Lettere da Iwo Jima, praticamente l’ultimo conflitto mondiale, visto dalla parte dei vinti, nella guerra del Pacifico. I perdenti sono i giapponesi e il film è sottotitolato, per cui la loro lingua originale già di per sé ha un suono di violenza alle nostre orecchie, abituate a toni latini più dolci.
Ogni loro alzata di tono è un gutturale e ringhioso attacco. Loro, i giapponesi, devono difendere a tutti i costi un’isoletta di limitata importanza strategica, sapendo sin dall’inizio che non sarà possibile e che comunque ciò comporterà la morte di tutti. Ma l’obbedienza all’Imperatore (eletto loro dio) comporterà questo sacrificio.
Il film ci fa capire come tutto ciò sia in contrasto con i loro sentimenti, sentimenti che individualmente, per quanto forti e umani, non riescono a prevalere, tutti come sempre indottrinati nell’idolatria che chi comanda ha sempre ragione, anche se psicopaticamente gioca con le loro vite salvaguardando sempre la propria. Sono tutti giovani, e come è giusto hanno paura, paura che trapela mal camuffata dalle lettere che loro scrivono a casa, dove, trasportati dalla fantasia momentanea, vivono nella fantasia la vita che vorrebbero vivere.
Le lettere non saranno mai spedite, e a massacro avvenute vengono trovate dai nemici (ovvero dagli americani), i quali, leggendole, sorpresi e stupiti, ritroveranno le stesse frasi sentimentali che anche loro scrivono a casa ai loro cari. E lì maggiormente si capisce l’assurdità della guerra che, per giustificarne l’esistenza, deve per forza creare dei nemici. Ma perché tutto ciò?



Bunda

Non ho mai avuto un gatto tutto mio... C’erano i gatti di casa, ma la casa allora era grande e i gatti erano della famiglia, cioè di tutti. Ora ho una gatta, anche questa in comproprietà con la mia giovane vicina di casa con la quale ho il terrazzo dell’attico comunicante. Ne è la padrona, e dal terrazzo la gatta è arrivata scegliendosi una seconda casa dove non dorme, non mangia, ma viene a far salotto. Non ama star sola. Quando la sua padrona va a lavorare, passa quindi buona parte della giornata da me.
Ho avuto dei cani... e ora ne faccio il confronto. Il cane dorme dove uno gli sceglie la cuccia. Ne prende possesso con ubbidienza. Il gatto no. Ho provato con un cesto pieno di cuscini. C’è stato una volta, per rara compiacenza, per poi spostarsi in posti diversi: sopra una sedia, sopra un armadio, o dentro un cassetto lasciato aperto. Decisioni momentanee e autonome.
I sensi di colpa che ti trasmette il cane sono facoltativi, secondo lo sguardo, sempre perdonante. Il gatto te li impone con lo sguardo a fessura che non lascia scampo, come quando guarda fisso nel vuoto, che è vuoto per me ma non per lui, che modula la visione a obiettivo pensante che solo Socrate poteva avere.
Il cane l’affetto te lo dà sempre, e ti convince che lo avrai sempre. Il gatto lo vuole, e il suo lo sa ben dosare. Si sa vendere. Quando salta sulle ginocchia e si lascia attraversare con un ronzio di gradimento, sa perfettamente che questa concessione, per te, vale due Tavor. Il cane, con la coda, comunica la sua emozione e il suo umore, con le varie velocità della medesima, tranne quando la nasconde fra le zampe... perché vorrebbe che con lei sparissero tutte le emozioni negative del momento. Il gatto la agita a mo’ di frusta se è nervoso, la acciambella quando è solo e la tiene dritta e imperativa quando si lascia accarezzare come per porre un limite e dirti che è inutile andare oltre... perché dopo lui non c’è più.
Fra un mese la mia vicina cambierà casa e se ne andrà portando via la gatta, che si chiama Bunda. So già fin d’ora che la mia parte oblatrice subirà una grossa carenza collocativa.
Ne sentirò un gran vuoto.
Che posso fare?
L’andrò a trovare.
Mi comprerò una moto...



Un regalo mai ricambiato

Nell’arco di pochissimo tempo sono finiti i mestieri, e con loro molti artigiani la cui potenza artisticamente individuale era infinita, tanto da trasmetterla ai figli per generazioni, i quali ne arricchivano il potenziale usufruendo di tecniche moderne che aggiunte all’esperienza acquisita dai padri faceva sì che a volte nascessero capolavori. Ogni artigiano metteva a frutto la propria creatività, che il concorrente vicendevolmente aiutava nel cimentarsi al massimo.
Prima che ci trasferissimo in Francia, mio padre seguì un corso da ebanista... In seguito aprì una falegnameria dove si lavoravano legni pregiati. Lo ricordo con una lunga matita rettangolare disegnare su un foglio a quadretti, personalizzare il mobile, persuadere il cliente su una voluta decorativa sopra un cassetto che ne esaltasse esteticamente la chiave... Tutti i lavoranti più giovani di lui (che aveva allora ventisei anni...) si sentivano partecipi perché nella collaborazione vi era la certezza di una responsabilità della quale anche loro ne erano gli artefici. Ho ricordi nitidi dell’odore del legno, che sapeva ancora di vita e di intemperie dopo che la sega elettrica ne aveva fatto l’autopsia in attesa di una trasformazione che sarebbe poi durata per generazioni.
Sono passati molti anni, e ogni volta che torno a Boves qualcuno mi fa vedere qualche mobile creato da mio padre; mobile diventato componente della famiglia proprietaria, consapevole, quando se ne decise la nascita, che con loro avrebbe vissuto a lungo, anzi a loro sarebbe sopravvissuto.
Mio padre morì a trentadue anni... Io ne avevo sei. I miei ricordi sono nitidi, collimano con quelli di una bambina che non capì mai il perché.
Da una statistica fatta tempo fa, sembra che i bambini figli di artigiani siano più svegli nell’apprendere... per la semplice ragione che i padri, parlando con entusiasmo a casa del loro lavoro mai ripetitivo, ne stimolano l’entusiasmo e la curiosità. L’impiegato trasmette noia, l’operaio stanchezza, e così via... Devo a lui la mia fantasia e la mia creatività, anche se la trasmissione è stata ingiustamente breve.



Conservare il vantaggio

È strana la percezione del tempo e il significato che ognuno gli dà, a parte quello mutevole che arriva con il passare degli anni e ne capovolge il soggetto, tanto da farci rendere conto quanto all’inizio sottovalutato ne diventi poi dominante. Quando ero ragazzina, allocato in quel periodo, l’importanza che gli si dava era relativa. Poche persone possedevano un orologio, in casa nostra come in tutte le altre. Nella nostra, l’unico ad averne uno era mio nonno. Lo teneva in un taschino, attaccato a una catena d’oro agganciata ad un occhiello della giacca. Era un tipo chiuso, taciturno, metodico. Nessuno osava chiedere a lui che ora fosse, dal momento che non capiva la necessità di una tale esigenza. Noi sapevamo che erano le sedici e le diciannove esatte quando usciva per andare nella stalla a vedere la cavalla che si chiamava Gina e che la domenica attaccava al calesse per fare un giro nelle campagne: tre ore esatte!
Il campanile era il grande orologio di tutti, distributore affidabile di tempo. Suonava le ore e le ribatteva con i quarti, esortandone la puntualità che, memorizzata, mi è rimasta.
Quando ero giovane correvo dietro al tempo, con l’inconscia certezza che nella sua circolarità non mi avrebbe raggiunto mai. Ora è lui che, come un forsennato, corre dietro di me... A volte ho la sensazione che mi spintoni, in modo indecente. Fingo di non sentire, per non cedergli il passo. Il suo incalzare mi dà fastidio. Io ce la metto tutta... Lo ignoro.



Bunda va via...

Oggi Bunda se ne è andata... La sua giovane padrona l’ha portata nella sua nuova casa. Non avrei mai immaginato che una cosa così piccola piccola lasciasse un vuoto così grande grande. Mi sono rimaste le sue palline di gomma, che mi portava al mattino quando arrivava, sottolineate da un sussurrato miagolio per farmi notare il dono, ed un cuscino rosso da lei preferito, pieno di peli. Non so quando lo spazzolerò. Forse mai.



La confidenza

Non so per quale motivo sono da sempre sottoposta a sfoghi e confidenze emozionali, soprattutto di donne che per il solo fatto di parlarne sentono alleggeriti i loro problemi. Gli uomini li espongono solo a chi può materialmente risolverli, altrimenti si illudono di non averne. Sono molto poche le persone pienamente soddisfatte del loro vissuto, generalmente lo sono nel momento in cui lo vivono, illudendosi di fissarlo nel tempo. E dal momento che non è quasi mai così, se ne fanno responsabili di tutti gli insuccessi del dopo, con paragoni ormai arrugginiti. Tutti vorrebbero essere felici in una società che ne detta le regole, ignorando le individualità di ognuno. Persone conosciute occasionalmente, con un bisogno disperato di ascolto cui non sono più abituata. Si sentono meno morte, se parlano di sé... Tempo fa ho stretto leggermente il braccio di una confidente nell’intenzione di farle capire che ormai avevo inquadrato il problema. Eravamo già nella zona dell’ovvio... Quel piccolo contatto ha sortito l’effetto opposto: sono stata sommersa da una valanga ripetitiva e ridondante. Credo che, in un certo senso, si sia sentita adottata...
Nessuna domanda con un minimo di interesse viene rivolta a me. L’importante è il mio interessamento all’ascolto, accresciuto peraltro da una mia curiosità di fondo. Può sembrare assurdo, ma credo che a stimolare la confidenza giochi un po’ anche il fisico... Essendo molto alta, si presume che io non abbia problemi in quanto la statura incorpora una buona difesa. Una persona minuta invita meno allo sfogo, perché si immagina di ugual misura la capienza di ascolto. Non ne sono certa. Immagino...



L’addio al bel canto

Conobbi Pavarotti a Vienna, anni fa... Lui debuttava al Teatro dell’Opera con un ballo in maschera, ed io ero lì per conto di una sartoria teatrale. Per una settimana ci vedemmo tutte le mattine per le prove dei costumi. Prove noiose e stancanti, ma lui non si spazientiva mai. Mi parlava delle sue dolorose rinunce al cibo dovute ad una dieta ferrea... Amava il cibo, perché amava la vita. Ho di lui il ricordo di una persona estremamente gentile.
Qualche giorno fa ho visto in televisione il suo funerale nella cattedrale di Modena, con gli officianti dai colori sgargianti. L’altare faceva da fondale alla cerimonia, la quale, svuotata di sacralità, lasciava spazio allo spettacolo, che finiva per prevalere sull’assenza dolorosa del prestigioso protagonista. I battimani, i canti, i luccichii e tutte le meravigliose comparse di un’opera impoverita solo per la mancanza degli elefanti... E infine è calato il sipario. Non so se lui l’avrebbe voluto così... o per lo meno in quel luogo.



Carta, penna e calamaio

Ho provato sempre dolore nel sostituire il vecchio con il nuovo... per ragioni affettive di solito legate a doppio nodo a un certo periodo. Ogni volta capivo che quelle cose con cui avevo convissuto non sarebbero tornate, e quindi anche una parte del mio vissuto veniva sepolto con loro. A volte piccole cose dai ricordi lontanissimi, a cominciare dalle scuole elementari...
Io appartengo alla generazione che ha frequentato la scuola quando ancora si scriveva con la penna intinta nell’inchiostro... Il pennino classico color bronzo era grande quanto una mosca, della quale aveva la forma. Vi era poi quello super extra, color argento, con la forma della Torre Eiffel. Io l’ho sempre desiderato molto e non mi è stato concesso, con la motivazione che, oltre a costare di più, la forma stravagante mi avrebbe distratta... deconcentrandomi, con conseguenze sulla calligrafia (rimasta sempre pessima... e un po’ di colpa l’addebito a quel pennino con la forma ad ali di mosca). Si adoperava anche la carta assorbente... che per un attimo copriva il tutto e si impregnava di frasi che, per riflesso contrario, sembravano scritte in una lingua straniera. Quando a casa, nel pomeriggio, compitavo, mio nonno (al quale, per rispetto, era proibito ribellarsi) mi seguiva e alla fine di ogni pagina anziché con la carta assorbente (anche lui evidentemente faceva fatica ad abituarsi al moderno...) asciugava lo scritto cospargendo la pagina con la cenere del camino che poi soffiava via lasciando le parole asciutte, sfrangiate e tremolanti, mentre io incorporavo un po’ del suo passato che per lui era il suo presente.
Vi era poi la penna stilografica... Chi ne possedeva una (raramente sotto i cinquant’anni...), la esponeva nel taschino della giacca. Era uno status symbol da professionista... Io l’ho vista adoperare una sola volta. Non ricordo in quale studio, se di un notaio o di un avvocato... dove accompagnai mia madre. Lo svitamento del cappuccio avvenne con un rito lentissimo. Con lo sguardo intimidante del possessore non sulla penna ma su di noi che sembrava dire: “Guardate, tutto ciò che scriverò è inconfutabile. È oro colato...” perché d’oro era il pennino, la cui forma non riuscivo a individuare. Sparita pure lei? Non credo del tutto. La stilografica non avrebbe mai accettato un’estinzione imposta, ma solo l’illusione di una scelta.



L’ultima volta

Ho ammucchiato con fatica illuse ragioni
e sono andata a votare Veltroni.
Ho fatto una lunga fila al gazebo
sperando che non fosse un altro placebo.
Macerate da tempo un miliardo di illusioni,
altro non rimaneva che aggrapparmi al fenomeno Veltroni.
Ma se anche questa volta non dovesse funzionare,
giuro a me stessa di non andare mai più a votare.
Manderei a quel paese le sofferte ideologie
seppellendole tutte, le vostre e le mie.
Non mi rimarrebbe altra via:
un segno di croce... e così sia.
E a quanti di politica, nel tempio,
di qua e di là ne han fatto scempio,
spazzarli via con la frusta
mi sembrerebbe cosa buona e giusta.



Suono la lira

Ho sempre avuto con il denaro un rapporto molto ambiguo, conflittuale, fatto di imposizioni cui sottomettersi perché vitali. Quando mi serviva, lui latitava, anzi si dileguava proprio. Fin da ragazzina, le proibizioni, le rinunce, avevano sempre il suo avallo. Si concedeva con ritrosia, e quando ciò avveniva era sempre una presenza fugace. Mi ha sempre molto pesato la sua condizionante indispensabilità, e forse lui capiva la mia incapacità di trattenerlo. Per questo, da me, ogni volta che sostava si fermava molto poco. Se ne andava via subito. Ero a conoscenza della sua parzialità nel concedersi alla grande a qualcuno e non sempre per merito. Ma questo è un altro discorso... Alla fin fine, visto che con lui dovevo per forza avere a che fare, c’è stata da parte mia una resa di convenienza. Ho provato a dargli del tu: non l’ha presa bene. Voleva continuare a... mantenere le distanze. Troppo tardi! Ora da un po’ di anni è stato assorbito dall’euro, con il quale va anche peggio. Mi rendo conto con stupore che mio malgrado alla lira, col tempo, mi ero affezionata e ne sento la sua mancanza, tanto che mentalmente ricorro a lei quando devo dare una giusta valutazione. Senza la sua occulta gestione mentale sparirebbe l’accantono che con lei, e malgrado lei, sono riuscita a fare.



La ficozza

Molto tempo fa, quando ancora non capivo del tutto il dialetto romano e quando ancora non era obbligatoria la cintura di sicurezza, fui tamponata al semaforo da una macchina e a mia volta tamponai quella che avevo davanti. Sbattei la testa violentemente e, sanguinante e stordita, qualcuno mi portò al pronto soccorso. I medici mi diedero qualche punto e mi fecero una lastra, dicendomi che avevo una bella ficozza. Riempirono un guanto da chirurgo di ghiaccio, me lo misero sulla testa e così, con quella mano gelida e monca, aspettai l’esito della lastra.
La diagnosi a caldo con la parola ficozza (di cui non conoscevo il significato...) mi aveva molto spaventata, e secondo me non lasciava presagire niente di buono. Si sedette accanto a me una signora che teneva per mano una ragazzina di sedici o diciassette anni, con un polso sommariamente fasciato. Mi chiese, guardando il mio viso che cominciava a gonfiare e annerire, che cosa mi fosse successo. Ripetei ciò che mi avevano detto i dottori, che avevo una bella ficozza, solo che sbagliai la parola sostituendo la o con la a. “Annamo bene!”, rispose lei. Il suo stupore aumentò la mia angoscia. Mi chiese se mi avesse visitato anche un ginecologo... Risposi di no, che si erano limitati a guardarmi la testa. “Annamo bene!”, ripeté per la seconda volta. “Non c’è più criterio.”
A quel punto ero convinta di avere almeno la meningite... Lei guardò la ragazzina, rifletté un attimo, poi di scatto se la portò via dicendole che a casa l’avrebbe fasciata lei stretta stretta e sarebbe guarita da sola. Ormai ero in pieno panico, pensando di essere addirittura contagiosa. Il responso dei medici non fu grave. E quando chiesi loro se con la fi... non avrei avuto conseguenze, mi risposero, ridendo, che in quel caso dipendeva solo da me di rimettere la o al posto della a. Nel caso contrario, la gestione e la responsabilità sarebbero state totalmente a mio carico.

P.S.: ficozza = bernoccolo.



Ma che noia

Ma che noia, ma che noia:
un’altra volta i Savoia!
Gli eredi degli ex regnanti
vogliono soldi (e pure tanti...)
per un’infanzia triste trascorsa a Ginevra,
città che di conforti è così scevra.
Ed è per quel campo dorato di concentramento
che a buon diritto chiedono risarcimento.
La notizia è una bomba.
Carlo Alberto si rivolta nella tomba.
La cifra è da sballo:
si rivolta pure il cavallo.
Ma perché con quella faccia tosta e giuliva
lui non continua a reclamizzare l’oliva,
la cui circonferenza, questo è il bello,
ha la dimensione del suo cervello?



Assestamenti quotidiani

Gli adattamenti creano abitudini a nostra insaputa. Ne prendiamo atto a cosa avvenuta. Spinti da eventi infiltranti che formano callosità ripetitive. Le abitudini non sono mai intenzionalmente programmate. Avvengono per casualità, per imposizioni, a volte (difficilmente...) per scelta preventiva. Le coltiviamo a nostra insaputa, come forma di accettazione di qualcosa che crediamo momentanea, mentre loro mettono radici. Quando ce ne rendiamo conto è tardi, e liberarci anche di quelle negative ci crea angoscia. La loro permanenza è incorporata a tal punto da creare affettività verso tutti i rituali che la compongono.
Da molti anni leggo un giornale che è abbastanza vicino alle mie idee politiche. Me lo trovo al mattino, prestissimo, dietro l’uscio. E quando per un caso fortuito non c’è, provo una certa delusione. Ora, quasi a tradimento, il mio quotidiano ha pensato bene di rinnovarsi... cambiando il look e sconvolgendo così il lettore (in questo caso io...) con la scompostezza paginale. Non si poteva farlo in maniera più blanda, traslocare gli articoli un po’ alla volta? Anche se in maniera non intenzionale, così si uccidono le abitudini. E a volte anziché sostituirle si preferisce eliminare il soggetto che le compone.



I miei Natali

Un altro Natale da aggiungere ai tanti trascorsi... dei quali ogni anno riaffiorano ricordi che seguono il tempo e si infilano nella memoria, intrisi di passato rimpianto.
Natali lontani, di tempi di guerra, mistici e poveri, dove la paura prevaleva su tutto... Natali di guerra terminata, la gioia della sopravvivenza, la speranza e la confusione del tutto trattenevano a stento tradizioni di presepi con il muschio (quello vero...) ma che già sentivano la spinta di abeti (quelli finti...) che da lì a poco li avrebbero sfacciatamente sostituiti. Poi, man mano, i Natali hanno cominciato ad adagiarsi su benesseri straripanti di luccichii stordenti, abeti stracarichi di tanto, di troppo, che ostentavano ricchezze sfacciate nell’illusione di sigillarle per sempre nelle palle dorate. Quindi, Natali stabilizzati e noiosi, spogli di tradizioni non più rimandabili, nudi di passato... Fino ad arrivare a questo Natale, traballante di certezze anomale non classificabili e spruzzato da inconsci presagi di tristi realtà che cerchiamo con fatica di ignorare, mentre, sempre con fatica, si tenta di dare alla festa un’anima che non c’è più. Anche le luminarie, stancamente appese, non riescono a nascondere la loro intermittente e illuminata depressione. Auguri, comunque, a tutti. Buon Natale.



Tanti lucchetti

Un lucchetto a chiusura di un altro anno. Sono talmente tanti che attaccati ai lampioni di Ponte Milvio rischierebbero di farlo crollare... Lucchetti che la memoria riesce ad aprire senza le chiavi per attingere ai ricordi che, mescolati al presente, riempiono la vita, lucidando di volta in volta quelli che il tempo rischia di appannare.
Non si accumulano più memorie incisive ma impronte emozionali cui l’incertezza di un futuro conferisce un potere seduttivo, quasi eccitante. Alla mia età non si fanno più bilanci annuali... Il fatto stesso di esistere dà per sé conferma che è comunque positivo. Gli anni si abbreviano, sensazionalmente durano di meno proprio ora che la vita mi ha fatto capire il valore del tempo nel pieno del suo contenuto. Brinderò questa sera anche a tutti voi che mi seguite. Auguri, auguri, auguri!!!



Il macabrifero

Amo il cibo... Ho avuto con lui sempre un ottimo rapporto. Mi ha dato una mano ogni volta che vi sono ricorsa, per alleggerire situazioni tristi aiutandomi nell’uscita, e nei momenti felici come suggello dei medesimi. Ne sono attratta... Non tanto per la quantità ma per la qualità. Mi piacciono tutti i sapori, quelli delicati e quelli forti, per il gusto dei quali mangio anche con l’appetito limitato. Mi piace tutto, ma qualcosa mi piace di più. Me lo concedo alla grande quando mi voglio bene. E questo è uno di quei momenti.
Oggi, se apro il frigo, il colpo d’occhio è la composizione di una natura morta in attesa di un pittore fiammingo. Un piccione nudo e pudico in un angolo del freezer, con la testa calva di un vecchietto che sonnecchia con gli occhi semichiusi, in attesa che qualcuno gli metta sulle ali un plaid scozzese. La testina di un abbacchio che mi guarda fisso, cercando invano di farmi venire dei sensi di colpa (ieri ho avuto l’impressione che mi strizzasse l’occhio...): è ora che l’adagi sulle patate e la metta in forno. Vi è una lingua di vitello che mi fa lo sberleffo ogni volta che apro lo sportello (qualche volta lo ricambio...); due zampette rosa di maiale, graziosamente appaiate, come in attesa di un valzer di Strauss per iniziare a ballare. Al piano di sotto, come tradizione natalizia, vi è un’anguilla marinata con il dorso d’argento, arenata e composta nella sua rigidità senza guizzi. Poi, in fondo, nell’ultimo reparto, a temperatura moderata, un ananas giallo e verde come le piume di un pappagallo brasiliano dà al tutto un tocco esotico.
Non è sempre così, ma oggi è al massimo. Ne è consapevole anche il frigorifero, ormai un po’ vecchio, complice e tronfio di tanto contenuto. Ho dalla mia parte il colesterolo, che esce dalla norma... credo per serietà professionale. Il suo è un salire moderato, tanto che il valore in competizione è inferiore a quello che do io al cibo.



L’amore e la terza giovinezza

Giorni fa ho visto una trasmissione sull’amore fra gli anziani (sempre gli estremi...). Inchieste che si fanno o sui giovani, spinti dalla morbosità di scoprire quando cominciano e stilare rapporti su quelli che sono stati i loro inizi (i partecipanti erano tutti sui cinquant’anni...), o sugli anziani per sapere quando finiscono, sperando in un loro massimo con cui identificarsi in futuro. Ai giovani non interessa sentirne parlare, troppo coinvolti nel fare, e neanche agli anziani, troppo distanti dal già fatto.
Tutta la trasmissione si è svolta sul sesso della terza età. La morbosità dei presenti era stomachevole. La battuta uno la può reggere, ma l’approfondimento no. Un voyeurismo mentale penoso. Una sessuologa spiegava, con un linguaggio da addetta ai lavori, come avviene il meccanismo, anche se, secondo me, l’approfondimento tardivo nei tempi passati non ne avrebbe cambiato l’applicazione. Il tutto condito con esperti che scientificamente spiegavano gli effetti del viagra. Qualcuno che l’aveva provato ne descriveva di mirabolanti, a base di assalti e impennate che avrebbero provocato a chiunque, anche non anziano, come minimo una sincope.
Tra gli ospiti, Mike Bongiorno. L’unico a chiedersi che ci stava a fare lì, lui che aveva confuso l’argomento... Argomento che non lo interessava più di tanto in quanto, detto da lui, la questione non gli aveva mai dato problemi. Vi sono state poi le immancabili interviste alle coppie di anziani sull’assiduità dei rapporti... Mogli polverose con gli sguardi inutilmente intriganti istigavano i mariti a dire di più. E questi, presi alla sprovvista, con sguardi da sambernardo vagavano nel tempo dando risposte da sballo, pronti a soffocare ogni forma di pudore per un buon piazzamento. Una gara al merito, per vincitori di medaglie per cui non è richiesta intelligenza da nessuna parte del mondo, neanche fra gli animali. Sondaggi e argomenti logori, dei quali, sono certa, nessuno sente la necessità, tanto più che non ci sono state nel tempo grandi evoluzioni. E a tutt’oggi, nuove aperture non ne hanno modificato il numero.



Mastellate alla politica

Non ho più certezze. Neanche quelle piccole, quelle di base. Sono saltate tutte. Il capovolgimento totale di regole mi trova impreparata malgrado le avvisaglie. Vedo gente di potere, gente che dovrebbe dare il cosiddetto buon esempio capovolgere la morale, anche quella più comune, e applaudire e osannare uno di loro perché inquisito. Ma anche così non basta mai. Voleva di più... Oltre ai battimani anche i fuochi artificiali e i cannoli, ma per questi ultimi ci vogliono almeno cinque anni di condanna. E di questo passo, difficile arrivarci... Ma allora, dico io, chi va a ritirare il premio Nobel per merito di qualcosa a favore dell’umanità dovrà essere preso a fischi e pomodori, secondo la logica del capovolgimento morale.
La moglie, inquisita pure lei, andando in macchina in commissariato, con largo sorriso saluta con la manina come fa la regina d’Inghilterra, fra due ali di folla plaudente a cui manda baci come faceva la Loren al festival del cinema. A questo punto, chissà quanti, con esempi del genere, anelano anche solo a una piccola denuncia ai danni di qualcuno, nella speranza di una medaglia al danno civile.
Non abbiamo votato la monarchia, che era una. Ce ne troviamo cento che si formano man mano con dinastie casalinghe, e con l’aggiunta del parentado ingrandiscono lo stemma del potere. E a questo potere noi, involontari sudditi, ci sottoponiamo anche per toglierci le tonsille (data la scelta imposta dei medici, la cui competenza è un optional...), con la speranza che non le confondano con le emorroidi, essendo collocate in una zona dove loro ne fanno tutt’uno con la faccia.
La sfrontatezza e l’impudicizia ha creato una miscela ammorbante di cui solo loro, affetti da anosmia, non sentono il fetore. Questo fetore dà però fastidio (spero...) a qualcuno. A uno in particolare, che si stacca dal gruppo forse perché, non essendo nato politico, non ha votato per l’indulto e ha gli occhi (almeno finora...) privi di cataratte opacizzanti su realtà ovvie. Se mai andrò ancora a votare (e ho miei dubbi...), voterò per lui.



Ho visto...

Ho visto cadere il governo, e con lui ogni forma di pudore. Ho visto parlamentari pretendere ovazioni per le loro pessime gestioni. Ho visto ricatti a fini personali, sfacciati e vergognosi. Ho visto parlamentari mangiare mortadella con le dita unte, sturare bottiglie in aula, come non si fa più neanche nelle peggiori bettole. Ho visto in Perù lama sputare con molta più classe dell’onorevole Barbato. Ora non vorrei più vedere questo cocktail maleodorante governarci ancora. BASTA! Meritiamo tutti qualcosa di più.



Troppi scrittori, pochi lettori

Sono stata invitata per l’ennesima volta alla presentazione di un libro. Ormai scrivono tutti... Le banalità sono dilaganti e contagiose. Un sottobosco intellettuale che scopre la vena letteraria, vi intinge la penna indipendentemente dalla cattiva circolazione che ne segue. Le premiazioni avvengono sempre fra di loro: io do un premio a te (anche se lo meriti poco...) e tu lodai a me (che invece lo merito molto...). Sono generalmente pseudo-autobiografie di vite piatte dove dentro avrebbero voluto cose desiderate e mai avvenute, cementate ormai inesorabilmente nel grigio del loro quotidiano. Cercano inutili scollamenti con racconti dilatati e stravaganti, e una rivalsa fantasiosa sulla realtà bucata... che ha sempre fatto acqua. Noi amici e costretti lettori diventiamo il catino del gocciolio delle loro frustrazioni che inesorabilmente e indirettamente finiscono per alimentare le nostre.



Allucinazioni culinarie

Abito al nono piano... È un attico dal cui terrazzo vedo Roma. Dal balconcino interno, dove se ne affacciano altri di altri undici palazzi, vedo un cortile alberato che sembra una piazzetta di un paese qualunque. Su questo interno vi sono le finestre di tutte le cucine, dalle quali, a ore determinate, fuoriescono odori di cucinato indistinguibilmente fusi, salvo poi, d’incanto, formare un tutt’uno d’aromi di caffè verso le quattordici e alle sette del mattino.
In uno di questi palazzi abitano i signori B.... Sono una coppia di una certa età conosciuti tempo addietro al bar dell’angolo, dove io compero il latte e loro prendono l’aperitivo. La signora m’ha detto che non può perdere d’occhio il marito che, essendo diabetico, si sente perennemente in stato proibitivo e alla minima svista trasgredisce.
L’altra notte, soffrendo io sempre d’insonnia, ho piacevolmente immaginato che se avessi mangiato qualcosa mi avrebbe aiutato a superarla, ma questo qualcosa doveva essere molto conciliante. E così, alle tre di notte, con una mela ranetta mi sono fatta un piatto di frittelle con le quali, gratificata, mi sono addormentata. Il giorno dopo, al bar, ho incontrato i signori B.... Lui, con lo sguardo da cocker miope, fissava con languore la teca delle brioche; lei, con lo sguardo severo di una kapò, non lo perdeva d’occhio, confidandomi che era molto preoccupata e che temeva che l’ossessione del marito per il cibo lo stava portando alla paranoia. Ne aveva avuto conferma la notte precedente, quando, dopo le tre, l’aveva svegliata per dirle che lui sentiva odore di frittelle di mele. Vigliaccamente, non mi sono sentita di rassicurarla.



L’influenza televisiva

Sto uscendo da una forma influenzale che, in barba al vaccino, mi ha costretta a casa febbricitante per più di otto giorni, durante i quali mi sono nutrita, oltre che di spremute di arance, di programmi televisivi di ogni genere, centrando in pieno il festival di San Remo, che per via dei cavi comunicanti aveva infiltrazioni ovunque, tanto che quando è finito, è continuato ancora per giorni, rendendo più pesante la mia convalescenza. Ho notato che in tutti i telefilm americani (fra l’altro fatti piuttosto bene...), specialmente nei polizieschi, bandendo il razzismo ci sono anche in misura minore molti attori di colore... Ed è proprio a proposito del colore che ho fatto la riflessione sulla loro sfumatura. I poliziotti sono sempre decisamente nerissimi. Poi, man mano il colore sfuma. Sempre meno intenso se si salgono le scale sociali. Le donne, oltre a impallidire, perdono anche i tratti somatici... raggiunti certi livelli. Mentre non avviene mai il contrario, mai che i bianchi tendano a scurirsi, anche attraverso abbronzature salutari. Lo scuro non fa tendenza. Come mai? Che ci sia una puntina di razzismo? Se Obama vince le elezioni... rischia di diventare un albino.



Ali d’Italia

Va, pensiero, sull’ali tarpate.
Va, pensiero, su proposte fatte e negate.
Va sui clivi e sui colli
di speranze ed illusioni folli,

aleggiando su proposte elettorali
che produrranno altri buchi sulle ali.
Mentre muta la sorte tu attendi,
le polemiche sui TG riaccendi.

Cieca come noi, grigie talpe,
attendi sfiduciata la compagnia d’oltralpe.
Or che muta da Arcore pende,
ognun la cordata con sfiducia attende.

Un crudo lamento vien fuori dai cuori,
col timor che si spengano pure i motori.
Il titolo in borsa molto scende e poco sale...
Ma diteci il ver: ormai quanto vale?

Orsù, orsù...
che il Signore vi infonda virtù
d’un salvataggio, tutti alla riscossa!
Parigi val pure... una mossa.

Porgi una mano, o sorella latina,
prima che tutto diventi una grande latrina.



Si viene e si va

Le elezioni sono vicine... e non parlarne mi rimane costituzionalmente difficile. Voterò per dovere generazionale, ma con pochissima convinzione.
Tempo addietro assistevo ai dibattiti televisivi politici in compagnia di mezzo bicchiere di vino. Era una piacevole aggiunta emozionale... Adesso li guardo raramente, e quando accade devo preventivamente prendere un Maalox per evitare attorcigliamenti viscerali che mi confermano il retrocedere di una morale politica che non ha più basi sostenitive. Vedo facce nuove, in un mestiere equilibrante e difficile, del quale, ignorando l’apprendistato, dubbiosa ne è la competenza nel sostituire l’ectoplasma di passate ideologie, sofferte e occupanti lunghi periodi di vita sostenuti da speranze di buona fede... anche se illusoria.
La passione aveva a volte la meglio sulla ragione, ma era pur sempre passione, che, collettiva, rendeva forte quella individuale. Accadeva molto tempo fa... Eravamo giovani, ma maturi di vita. Ora la vita invecchia i giovani, li spoglia di ideologie, maturandoli artificialmente con tecnologie sostitutive di realtà non vissute in proprio che al primo impatto reale si sgretolano e li seppelliscono.
Non ho rimpianti per un passato ormai tutto vissuto... Semmai nostalgia, nostalgia saldata da ricordi. Ho rammarico per un presente stagnante e delusivo, e per un futuro che non sarà più mio.



Ho visto il glicine fiorito...

Nicola Giudetti, ''Acrobazie di un glicine'' Ho visto il glicine fiorito... Fiore timido ma azzardoso, su primavere che non sempre mantengono la promessa della propria presenza, preceduto solo dalle mimose, che con i loro colori tenui attutiscono l’impatto di quelli più violenti che verranno dopo. Fiore di lunga gestazione, nato da tronchi nodosi, artrosici e vecchi, di cui non sembra figlio. Aggrappato a case liberty alle quali, per compensarne l’appoggio, regala ogni anno una grappolosa fioritura che, come un maquillage profumato, copre le rughe dei muri. Abbraccia cancelli di ferro battuto come per assicurarsi benevolenza... per una fuga che non avverrà mai.







Meschini e inqualificabili preconcetti

Hanno spostato momentaneamente di cinquanta metri la fermata del mio autobus, lasciando la targa al vecchio posto. Quella nuova, peraltro piccola, è quasi invisibile.
Passando, notai che un signore, ignorando lo spostamento, nell’attesa stava leggendo i titoli di un giornale che, fra l’altro, è anche quello che leggo io. Mi premurai di avvisarlo, pensando che non avrebbe avuto lo scatto sufficiente per raggiungere il mezzo cinquanta metri più in là qualora il bus fosse arrivato. Mi fu grato.
Il giorno dopo, dal giornalaio, una signora senza età, distinta, stava comprando un paio di riviste pettegole, alle quali fece aggiungere un quotidiano che è politicamente all’opposto di quello che leggo io (mi parve immediatamente meno distinta!). Attraversò la strada e si fermò alla solita fermata in attesa del 910... che avrei preso pure io, ma alla fermata giusta. Passandole accanto mi guardai bene dall’avvisarla. Anzi, con grande perfidia, per timore che il bus, fermandosi più avanti per farmi salire, avrebbe dato a lei il tempo di raggiungerlo, saltai una fermata con la scusa vigliacca che due passi mi avrebbero fatto bene. Mi vergognai di non vergognarmi.



Al mercato

Ogni venerdì, vicino casa mia, c’è un mercatino che di volta in volta s’ingrandisce sempre di più e dove si trovano le cose più svariate. Lo trovo divertente... Ci vado ogni settimana, e ogni volta porto a casa qualcosa di pochissimo costo ma di grandissima inutilità. C’è di tutto, dai fiori finti a quelli veri, dalle scarpe nuove a quelle vecchie, montagne di scintillanti collane e bracciali provenienti da non so dove, un ricchissimo banco dei profumi e dei cosmetici dove per tre euro si possono comprare bagnoschiuma a dimensioni betoniera... Salendo a sei euro vi sono i profumi con nomi francesi intriganti: Plaisir d’amour, Une nuit avec toi, Souvenir sublime, ecc. Attratta dalla confezione, l’estate scorsa ne comprai un flaconcino. Mi mantenni sul classico: eau de toilette alla lavanda. Era compreso di spruzzatore che non appena adoperato mi suggerì che il profumo era si alla lavanda... ma quella gastrica. La rimanenza fu efficace contro le zanzare: le tramortiva lasciandole disgustate.
Il banco più affollato è quello degli abiti usati... Mille braccia a scavare rapaci nel mucchio colorato, ognuna con l’occhio fisso a spiare la vicina arrivata per prima proprio su quel capo che lei aveva avvistato ma che non aveva fatto in tempo a impossessarsene, perdendo così il presunto affare. Tutto questo movimento di ricerca crea e scarica automaticamente tensione. Ogni acquisto, anche se sconsiderato, non sbilancia economicamente più di tanto. Si va da uno a cinque euro. Questa euforia sostituisce due Tavor.
Venerdì scorso, una signora (bene) smucinava con frenesia. Il marito, tipo ministeriale, al di fuori del cerchio femminile aspettava impaziente e a disagio che la moglie finisse il safari. Lei emergeva ogni tanto con in mano un pullover, glielo appoggiava davanti, si allontanava di un passo, socchiudeva gli occhi... e scuoteva la testa. Lui, sempre più impaziente, avrebbe accettato anche un saio pur di andarsene, con lo sguardo che diceva: “Tanto non lo metterò mai!” Uscì un’ultima volta gioiosa, con in mano il trofeo: un pullover rosso che, secondo lei, gli sarebbe stato a pennello.
Facemmo casualmente un pezzo di strada assieme... Loro arrivarono alla macchina, sul cofano della quale scartarono l’acquisto. Lei, sempre più soddisfatta, lo esaminò a lungo. Poi, improvvisamente, l’impassibilità del marito si ruppe. Prevalse lo stupore. Riconobbe nel piccolo rammendo sotto la manica del pullover rosso qualcosa di familiare: avevano comprato lo stesso capo che tempo prima avevano messo nel cassonetto per i poveri.



Cortesie con trasporto

Oggi, sull’autobus affollato, una signora (ne sono certa...) non più giovane di me mi ha ceduto il posto. Domani cambio il colore del fondotinta, vado dal parrucchiere e mi compro un vestito rosso con i volant, nella speranza che poi sia un signore a cedermi il posto in virtù di una ricordata, vecchia galanteria.



Un pizzico di ironia

La mia eccessiva considerazione del prossimo mi porta quasi sempre, con rammarico, a ricredermi. Do per scontata (forse perché spero sia così...) la mancanza di banalità, per accorgermi poi che il più delle volte prevale.
Nelle persone mi attrae l’ironia. Non quella caustica, che è mirata a colpire, ma quella vera, che è innata e che diverte e stupisce anche chi la possiede. Quella mi affascina... Non c’è cultura che tenga. Si ha o non si ha. La comicità, con una certa predisposizione, si può anche apprendere. L’ironia no, è innata. Nelle persone più umili viene fuori spoglia e senza filtri, su una piattaforma istintiva e tutta godibile; nelle persone più istruite, qualche supporto di teatralità l’arricchisce. In un caso o nell’altro (almeno per me...) ha sempre un ottimo impatto, come un prisma con una sfaccettatura luccicante in più, screziato di alleviante ottimismo. Esistono anche persone che, oltre a non possederne neanche un briciolo, non la capiscono, non la riconoscono. Che tristezza!!!



Pornogeriatria

Sono stata contattata da una nota casa di produzione cinematografica tedesca... per un film a luci rosse. Se avessi accettato, le luci sarebbero arrossite comunque... e non solo quelle. Ne immagino il titolo: Una fava per due piccioni oppure Sesso estremo... estreme unzioni.



Buon compleanno!

Il 26 giugno compio gli anni: un’altra volta?! Ma com’è possibile? Voglio ignorare il fatto, nell’illusione di fermare il tempo.



Piemonte

Dalle dentate, scintillanti vette,
dopo che tutti ce l’han fatto a fette,
e qui nessuno lo nega,
rotolando per le selve scroscianti
è venuta giù la Lega.
È venuta giù grintosa e prepotente,
venuta giù a menar fendente.
Forse stufa di promesse vaghe,
anche Cuneo s’è calata le braghe.
Cuneo, forte e possente,
del cui passato non gli importa più niente.
Io che lì sono nata,
poco mi fido, questo è certo,
di chi promette, promette...
nel nome di Da Giussano Alberto.
Se poi, nel caso, qualche bene dalla Lega ne venga,
tutte le diffidenze e i timori... che il diavolo se li tenga.



Animazione e nostalgia di un cassetto

Il letto, il comò, il comodino stanno assieme in camera da sempre, tramandati da mia nonna. La mancanza di uno di essi è impensabile: romperebbe l’equilibrio visivo.
Hanno tutti la stessa età. Sono nati nell’Ottocento. Il comodino sembra addirittura generato da loro, come un figlio piccolo mai cresciuto, sempre ingombro di mille cose che regge sottoponendosi a perenne sfruttamento minorile. Sono certa che riescono a dialogare fra di loro, criticando il mio disordine che io chiamo fantasia e loro disordine e basta. Sono troppo vecchi per capire un’ottantenne come me...
Il letto e il comò sono due importanti contenitori: il primo contiene me con tutti i miei sonni, le mie perenni insonnie e tutti i ricordi di... animazioni vere; il comò contiene le mie cose di sempre, nei quattro panciuti cassetti. Il secondo, quello della biancheria intima, anni e anni fa era tutto una nuvola di pizzi e microindumenti trasparenti e invoglianti. Ve ne era uno, ricordo, tutto di pizzo nero, ma era talmente ammiccante da sembrare coloratissimo (andava molto!). Poi, pian piano, col tempo, si è ristretto lo spazio frivolo e si allargato quello... più sobrio. Nell’angolo di sinistra, vi è una parure castissima... in caso di incidenti e relativi ricoveri; nell’angolo di destra, rimasto solo, langue un vecchio baby doll color malva che, persa la malizia d’un tempo, consapevole del suo definitivo disuso, rimpiange un tempo che non c’è più.



Gli scenari che non ritrovo più

Ogni volta che torno a Boves riscontro dei cambiamenti ambientali che ne modificano il paesaggio, contaminando i miei ricordi visivi. Non ci sono più i gelsi che dal finestrino del treno che da Torino andava a Cuneo si vedevano emergere dalla foschia lungo le bialere (i ruscelli, in dialetto piemontese...); spettrali, in fila come un esercito sconfitto, con i rami nudi e scheletrici tesi verso l’alto in segno di resa alla stagione. Sono scomparsi. Foraggiavano i bachi da seta che nessuno alleva più. Era l’unica giustificazione del loro vivere... E l’estate, con un inutile sforzo produttivo, davano more nere e dolciastre che non sono bastate a salvaguardarne la specie.
E le vigne? Allora erano molte... e le colline diventavano un patchwork di piccole proprietà delimitate da muretti di pietra coronati da pezzetti di vetri di bottiglie rotte color verdastro che le difendevano dal furto di qualche grappolo d’uva. Non ci sono più neanche le piccole pesche che maturavano con fatica fra i filari pietrosi delle vigne. Non avevano succo. Erano farinose, con un vago sapore di mandorle amare... come amara e faticosa era la loro fioritura, che fra le viti ancora spoglie dava qua e là pennellate di un rosa pallido come compenso locativo. Sono state indegnamente sostituite dai kiwi. Già il nome ne fa di per sé un forestiero, con pochissime possibilità d’integrazione. Io non li amo. Hanno sconvolto, senza diritto d’asilo, i paesaggi dalla loro magnifica staticità, spuntando le radici dei ricordi; immutati e rincuoranti, li cuciono i castagni, alberi paciosi e generosi i cui frutti, puntuali come i piemontesi, si porgono ogni autunno schermati da spinosi involucri, diffidenti, un po’ come lo sono i cuneesi prima di capire e di essere capiti. Non si trovano più le piccole castagne secche di Garessio che, nude e pudiche, non si spogliavano mai del tutto, lasciando brandelli dei loro abiti marroni galleggiare nel latte quando, a fine cottura, dolci e melmose si buttavano dentro come in una piscina refrigerante...
Più in alto ci sono le betulle, immutate, come un raduno di longilinei fusti bianchi verginali, dritti, non deformate da maternità annuali. Sono sterili. E le foglie stormiscono civettuole alla musica del vento, danzando con lui al più lieve soffio. Speriamo rimangano tali... e lì per sempre.



Saluti estivi

Vado in vacanza obbligatoria estiva... Un po’ di qua, un po’ di là... in casa di amici: che ho scelto fra i più simpatici; in casa di persone che non mi impongono orari e abitudini distanti dalla mia quotidianità. Sono diventata intollerante... Non posso farci niente, e neanche voglio. Sarà l’età, alla quale concedo tutti i diritti.
A tutti, buone vacanze. Riposatevi, divertitevi... eccedendo un po’ in tutto, voi che potete. Auguri, auguri... Mi farò viva al ritorno in città.



Nodosità riottose

Ho trascorso in Umbria una piccola vacanza in casa di amici, una casa circondata da ulivi, piante patriarcali che non ispirano confidenze. La loro longevità intimidisce. Il tronco possente ha nodi generazionali mai risolti, una fioritura minima, tanto per non offendere la primavera e farle capire in maniera minimalistica che ne ha percepito la presenza.
Ho saputo che durante l’anno pretende accudimenti, in virtù di un parto umorale mai uguale. Nascono piccoli frutti color paterno, che riscattano la presenza genitoriale sciogliendosi oleosi, color ambra.
La postura contorta sembra soffrire la custodia depositaria di ricordi trasmessi oltre duemila anni fa, quando, in terre lontane, Gesù tradito trascorse con loro l’ultima notte dividendone l’angoscia e il dolore.



Non è pane per i suoi denti

Quando esco dallo studio del dentista, spero sempre che sia l’ultima volta. Non è mai così! La manutenzione è perenne. I punti, le arcate, gli impianti... Terminologia e costi uguali a quelle di un architetto tipo Mayer, giustificati dal fatto che devono sembrare naturali. Ma chi ci crede? Non certo il mio fornaio che, ogni volta che entravo nella panetteria, mi proponeva con un sorriso benevolo: “Due rosette ben cotte?” Ieri, accantonando l’ipocrisia, ha ceduto alla realtà e mi ha proposto mezzo filoncino morbido morbido... alla faccia del sorriso giovane e naturale a ottant’anni.



Un’altra stagione...

È finita l’estate... Mi dispiace, perché altro tempo si è aggiunto al tanto che ormai ho. Ma sono felice per la stagione che non amo più. Ne salvo solo la luce, che al mattino è presente presto e la sera indugia a lungo prima di sparire. Tutto il resto, malgrado lo spostamento vacanziero, per me è inevitabile sopportazione. Ogni cosa è importante o meno, l’estate viene rimandata al dopo... perché nel durante le persone fuori dal loro contesto cambiano, non sono più le stesse, come un’obbligatoria metamorfosi stagionale. Durante tutto l’anno ne preparano l’abito psicologico; lo preparano con minuzia di particolari, ma poi quando lo indossano è sempre una taglia in più o una taglia in meno... e la delusione si nota nei visi soddisfatti e un poco sfatti dalla fatica del riposo. Ora, se Dio vuole, si torna alla normalità.



L’oblio del dialetto

I dialetti dimenticati alimentano i silenzi che hanno sostenuto a lungo l’ancestrale capirsi come espressioni del luogo stringate e intraducibili che entravano nelle fessure che la mente aveva predisposto. La loro scomparsa ha sortito una smobilitazione di idee e di pensieri che nessun inglese unificante e senza confini potrà mai sostituire.
L’intraducibilità creava una protezione unica, difesa e circoscritta dall’area di provenienza. Ha indotto nelle persone anziane lo smarrimento del non poterlo trasmettere più, come l’elica spezzata di un DNA che ha causato in molti una dolorosa afasia. Era un idioma di cadenze musicali che cambiava leggermente anche a pochi chilometri di distanza, ma l’orecchio geneticamente abituato ne capiva la provenienza e ne permetteva un giudizio anche psicologicamente prevenuto.
L’italiano era come l’abito della domenica... Si indossava per le grandi occasioni e dava ufficialità ai discorsi. Si poteva aggiungere all’italiano tutte le lingue straniere del mondo, ma anche lui aveva diritto all’esistenza.
Lo so, i tempi sono cambiati... e troppa acqua è passata sotto i ponti. Ma quei ponti i dialetti non li avrebbero rotti mai del tutto, accorciando le distanze fra le sponde del vecchio e del nuovo.



...la mela mangia Maria

Un istinto primordiale mi ha sempre spinto a nutrire le persone che mi sono care. Non riesco a dissociarle dal cibo... un modo inconscio di mischiare il voler bene. Maternità non avvenute hanno forse lasciato intatto l’istinto, materializzandolo con l’affetto.
Non ho mai avuto grossi contrasti con me stessa. Mi sono sempre benevolmente accettata. Ma ora, in età avanzata, mi rendo conto di volermi bene soddisfacendo golosità di cui prima – pur sempre considerandole – sottovalutavo l’importanza.
Il mangiare mi equilibra l’umore e ne diventa il termometro psicologico. Appena ho piccoli sentori di malumori, anche se motivati, mi sottraggo alla morsa concedendo alla gola qualcosa che mi piace. Vale anche quando il grigio di una giornata prende il sopravvento sul rosa. Domani, giornata di noiosità doverose accumulate, ho già pronto un rognoncino che farò trifolato... dando sapore alla vita.



Satyricon

Vi erano un tempo, appena finita la guerra, giornali incentrati sulla satira politica, settimanali umoristici che io leggevo anche se non li comprendevo del tutto... un po’ perché troppo giovane e un po’ perché non ero abituata a leggere cose su politiche libere. Mi ricordo i titoli: Il Marc’Aurelio, Il travaso delle idee, Il Candido... Già allora mettevano alla berlina tutte le inefficienze governative, e l’ironia efficiente era paradossalmente anche seriosa. Avevano delle vignette fisse... Immancabile quella sui comunisti (il cui titolo era Obbedienza cieca e assoluta), dove erano rappresentati con tre narici: quella in più serviva come corridoio, sempre aperto per le direttive del partito; l’arrivo al cervello doveva avere una corsia preferenziale, priva di scorie e libera da raffreddori o sinusiti.
Di queste ne ricordo una vecchia di sessant’anni... Vi era un cartello, il solito con su scritto Contrordine, compagni e in più ...la frase di presentarsi alla riunione con la “colazione al tacco” contiene un errore di stampa, pertanto va corretta con la “colazione al sacco”. E la stavano leggendo tre comunisti trinariciuti, tutti e tre con fazzoletto rosso al collo, il quartino di vino e il panino con la cicoria saldamente legati al calcagno.
Un’altra vignetta fissa era La vedova scaltra, che in gramaglie pregava il Signore di accoglierla accanto all’anima benedetta del defunto... non prima però (si direbbe oggi...) di aver visto finita l’autostrada Salerno - Reggio Calabria.
Ricordi lontani di un’ironia che non aveva bisogno del sostegno della volgarità...



Personaggi scomparsi e ricordi rimasti

Più o meno negli anni intorno al ‘65 veniva a trovarmi a Roma, dove mi ero trasferita anni prima, una mia vecchia amica. Si chiamava Michi... Era un’amicizia parentale. Ricordo bene anche i suoi genitori, come lei ricordava meglio i miei nonni paterni, scomparsi quando io avevo sei anni, poco dopo mio padre che era figlio unico e morì a trentadue anni. Attraverso di lei (che aveva tredici anni più di me...) ricomponevo l’eredità comportamentale genetica, che scoprivo in me in situazioni emotive la cui gestione a volte mi sfuggiva.
Era una persona unica, con una scarsissima base culturale ma dotata di un’enorme intelligenza compensativa. Conosceva i suoi limiti... Non andava mai oltre e aveva un innato senso dell’ironia non filtrato da consapevolezza, che arrivava genuino e pulito. Non si era mai sposata... e di tutti gli amori che aveva avuto (a volte per generosità...), solo pochi, in fondo, le erano piaciuti veramente: erano proprio quelli che, per una ragione o per l’altra, non l’avrebbero mai sposata. Ma neanche di questi aveva rimpianti. Solo ricordi. A volte tragici... ma mai rancorosi.
Quando andavamo al cinema insieme, il film ci portava lontano dalla realtà quotidiana. Io mi infarcivo di fantasie, lei assorbiva tutte le emozioni. Piangeva accorata o rideva di cuore, immedesimandosi in realtà che faceva sue. Era di famiglia molto povera... Incominciò a lavorare a nove anni e continuò tutta la vita, con una dipendenza che andava al di là di quella economica ed era diventata psicologica. Fabbriche che chiudevano, riaprivano... E lei riempiva gli intervalli con altri lavori ai quali dava sempre dignità. Non voleva essere sguarnita della cornice lavorativa che giustificava il quadro della sua esistenza.
Le prime volte che mi veniva a trovare non si fermava molto, era timorosa. Non si allontanava mai dal quartiere... Poi, man mano la curiosità prese il sopravvento e incominciò a ispezionare la città prendendo un’infinità di autobus da un capolinea all’altro. I punti di partenza le davano sicurezza. Raggiungeva periferie delle quali io ignoravo l’esistenza. Faceva un piccolo giro, esplorava e tornava indietro. Le feci conoscere i miei amici, tutti del Nord, piemontesi e veneti. La globalizzazione era lontana... Valeva la regionalizzazione, rifugio protettivo che rendeva meno pesante il distacco dalle nostre terre. L’unica eccezione era la conoscenza di Nietta, sorella di Mario Scaccia; conoscenza che si trasformò negli anni in amicizia profonda e che dura tuttora. Un affetto profondo che regge al tempo e all’Alzheimer che l’ha colpita annegandole la memoria che io cerco di portare a galla ogni volta che la vado a trovare. L’aiuto a frugare nella mente, dove sono rimasti pezzetti di un esistito che ignora con forzata rassegnazione. Me lo dicono i suoi occhi imploranti... Con Mario – che a dicembre compie novant’anni e che ancora calca le scene e intraprende tournée con una memoria intatta – l’amicizia di sempre continua. Lui mi fece conoscere il mondo dello spettacolo, che era meno allargato di ora e aveva punti fermi su attori di grande professionalità che si prestavano con avarizia alla televisione emergente.
Era quello il periodo del boom... Eravamo ancora giovani, e allora la vita mondana era diversa. Le donne più abbienti che avevano una pelliccia erano poche e sempre guardinghe, con il giustificato timore, di sera, che qualcuno potesse sfilare loro il visone. (Ora decine di visoni di tutte le dimensioni, di tutti i colori, si mostrano appesi, tutti in fila, nei mercatini, come prostitute che non si rassegnano al tempo e si offrono sottocosto, in concorrenza con capi molto meno pregiati, privi di classe ma più giovani.)
Mario Scaccia allora era all’apice della carriera. Gli inviti per lui erano molti. Averlo ospite dava lustro alla serata. Lui ci andava con la sorella, che portava sempre anche me... che a mia volta portavo anche Michi, diventata nel frattempo anche loro amica.
Lei temeva sempre di dare fastidio. Ricordo un Natale in casa di un agente teatrale... Casa bellissima, con tutte le finestre sui Fori imperiali. Il salone era addobbato fino all’eccesso. Luccicava da tutte le parti, un po’ perché era Natale e un po’... per costituzione. Dalle tantissime luci diffuse e candele accese sbucavano man mano visi teatralmente noti. Michi era seduta su un divano, vicino a me. Guardava quel mondo lontanissimo dal suo rannicchiata e incuriosita. Le avevamo prestato una gonna lunga che la impacciava e la costringeva a piccolissimi passi, facendola assomigliare a una geisha giapponese con gli alluci valghi. Era una cena in piedi... Lei da quel divano non si alzò mai. Io la servivo. Fra gli altri aperitivi vi era, al centro del tavolo, un grosso catino d’argento con dentro champagne e pezzettini di frutta, con un mestolo che ognuno adoperava per riempire il proprio bicchiere. Io riempii anche quello di Michi, che vidi sconvolta mentre cercava di nascondere nella borsa un mezzo lumino che aveva trovato, assieme ad altri colorati e ancora spenti, in un cabaret su un tavolino vicino... e ne aveva mangiato una metà credendolo un piccolo bignè. Mi disse che era desolata. Non le piaceva il sapore... E che erano migliori quelli che facevano a Cuneo. Aveva la bocca impastata e bevve d’un fiato il cocktail champagne che le porgevo. Ritornai al tavolo per un secondo bicchiere, e mentre attingevo con il mestolo, nel brusio generale la voce di Michi, resa coraggiosa e forte dal bicchiere precedente, sovrastò le altre: “Per favore, piuttosto brodoso.” Tutti risero credendola una battuta.
Era già in pensione (molto bassa...) da un po’ di anni, ma non riusciva a staccare la spina. Continuava a lavorare in una fabbrica di stampe fotografiche che la lasciava libera nei mesi invernali, che lei trascorreva da me a Roma e dove, per non farle sentire il vuoto produttivo, le avevamo trovato presso degli amici un posto da baby-sitter. Andava, alternandosi, da due coppie: dall’una accudiva due bambini di otto e dieci anni, e dall’altra un bambino di otto anni, figlio di una coppia di militanti di sinistra, dei quali ne aveva assorbito i discorsi... a pugno chiuso. Nell’ingresso di questi ultimi vi era appeso alla parete un quadro di Karl Marx con tanto di barba. Lei chiese al bambino se era suo nonno... Il bambino, ben farcito e stupito da tanta ignoranza, le riservò una lunga spiegazione da cui lei dedusse che quel personaggio era un po’ come il Papa... ma stava dall’altra parte.
Doveva sempre avere un margine di sicurezza che le permettesse di arrivare sul lavoro mai un minuto dopo ma sempre mezz’ora prima. Sicurezze marginali, piccole ma rassicuranti, che si riservava anche quando andavamo a mangiare una pizza. Ordinava sempre un litro di vino e un quarto: il quartino veniva in soccorso cancellando la visione triste di un litro di vino vuoto.
Era unica. Se ne è andata tredici anni fa improvvisamente. E come voleva lei, senza dare fastidio.



Frugando nel passato

...c’erano una volta, tanto tempo fa, le filande. Erano fabbriche per la lavorazione dei bachi da seta, che il Piemonte e il Veneto producevano. Dopo una lunga lavorazione si formavano grosse balle di matasse di fili di seta color oro che venivano poi inviate a Como, dove le trasformavano in tessuto (l’allevamento dei bachi è complesso e interessante... ne parlerò un’altra volta...).
La manodopera era prettamente femminile e su molte operaie pesava tutto il sostentamento famigliare. Il licenziamento poteva avvenire in qualsiasi momento e senza giustificazione. Non vi erano sindacati a tutela, per cui le regole venivano rispettate... al massimo. Non si poteva parlare, per evitare distrazioni. In compenso si poteva cantare e recitare il rosario. Quest’ultimo veniva a volte prolungato all’infinito; al quinto già esistente venivano aggiunti altri misteri... più o meno dolori ma più familiari, che andavano per ordine di urgenza: per un parente malato, la suocera che non ci stava più con la testa o il bambino con la diarrea. Quella cantilena corale condivideva le pene e terapeuticamente le alleggeriva.
Alcune operaie venivano dalle frazioni e si facevano chilometri a piedi. Non era tollerato neanche qualche minuto sull’entrata. Nel timore di ritardi arrivavano sempre con molto anticipo e aspettavano fuori, a gruppi ciarlieri, con qualunque temperatura, l’aprirsi del portone.
Si incominciava a lavorare all’età di nove anni... Ragazzine che finita la terza elementare dovevano aiutare la famiglia, venivano affiancate a operaie più grandi. Le bambine salivano su uno sgabello per arrivare a una bacinella di acqua caldissima dove una spazzola rotante scuoteva i bozzoli lasciando emergere il filo conduttore che le operaie più grandi, sempre con le mani nell’acqua, dipanavano compiendo a ritroso il lavoro dei bachi. Il filo non si doveva spezzare mai, per questo era importante il lavoro in simbiosi e la concentrazione. Le mani erano sempre scotte, rugose e bianchissime. Sembravano non appartenere al loro corpo, ma trapiantate.
Erano molte... Le ricordo in una visita organizzata dalla scuola elementare. Emergevano dall’umidità nebbiosa artificiale, come figure dantesche in un purgatorio... nell’attesa di una collocazione. Sui visi, stanchezza e dignità costose.
L’odore era nauseante e penetrava nei capelli, nei vestiti, nella loro pelle. Trovava deposito ovunque. Non se ne liberavano mai. Se lo portavano a casa. Le seguiva, identificandole ovunque. Per non venire sopraffatte, annusavano tabacco in polvere. Era allora il residuo di un’usanza già in voga nell’Ottocento. Presava anche mia nonna materna. Lo faceva con grazia, pizzicando da una tabacchiera, ricordo, di ebano, che sul coperchio aveva intarsiata una croce di madreperla. Ne offriva anche alle signore che la venivano a trovare. Era della qualità migliore: si chiamava Santa Giusta, il colore era marrone scurissimo. Quello delle filere era invece color frate. Costava meno e lo contenevano nelle scatolette esagonali della magnesia San Pellegrino. Lo rovesciavano in dosi abbondanti sul dorso della mano e l’aspiravano quasi con avidità, alternando le narici, che erano diventate scure come le cappe dei camini. Oltre ad anestetizzarle dall’odore persecutorio, dava loro dipendenza e una certa euforia che le spingeva a cantare con allegria quasi ingiustificata e tenendo un ritmo lavorativo sempre più frenetico. A tutto vantaggio del padrone, il quale, credo nel ‘52 (quando la fabbrica chiuse per la concorrenza insostenibile della Cina), ricevette in dono dalle operaie un vassoio d’argento sul quale era accucciato un cane, un setter con le orecchie meste, pure lui d’argento, come segno di fedeltà e riconoscenza perenne dettate da sudditanze ataviche diluite nel tempo e poi cancellate dalla generazione successiva.



Auguri dal Venezuela

Da Caracas, tra manghi e papaie,
auguro a voi internauti feste liete e gaie.
Dall’altra parte dell’emisfero
confido e spero in un nuovo anno
che di ogni bene sia foriero.



Biglietti, prego

Subito dopo la guerra, ripristinate le linee ferroviarie, i treni ripresero a funzionare. Non vi erano Intercity ma accelerati con interminabili fermate (pare che i tempi del percorso, a tuttora, non siano cambiati di molto... È stata abolita la terza classe... che spezzettava di più il ceto sociale di chi ci saliva).
Facevo allora piccoli tratti, ma ne ho un ricordo vivissimo. La prima classe aveva i sedili di velluto bordeaux e la prima carrozza, quasi sempre semivuota, era occupata da industriali e persone benestanti, ceto alto. Due carrozze per la seconda classe, che aveva sempre i sedili imbottiti, ma di vilpelle, quasi tutti occupati da persone di ceto medio. La terza classe aveva più carrozze... I sedili erano di legno, tipo tradotta militare, stracolmi di giovani studenti, casalinghe... ceto misto-basso.
La differenza sociale era percepita soprattutto dal controllore, al quale la visiera del berretto conferiva un prestigio intimorente; prestigio che lui dosava lungo il percorso. Partiva dalla prima classe con voce suadente e un po’ servile, toccandosi la visiera a mo’ di saluto e diceva: “Buongiorno, signori. Prego, favoriscano i biglietti.”, ripetendo spesso “Faccia, faccia con comodo.” Nella seconda classe, la frase, spogliata di cortesia, era sbrigativa e professionale: “Signori, biglietti.” Giunto alla terza classe alzava il tono della voce, e con un pizzico di intimidazione urlava forte: “Biglietti... e non fate i furbi!!!” Poi tirava indietro il berretto e con aria di sfida sperava in un malcapitato che ne fosse sprovvisto. Se ciò accadeva, riposizionava il berretto e sadicamente scriveva la multa.
Ricordo una signora piena di borse... Era piccola e grassa, con dei grandi seni. Aveva un abito di cotone nero con delle roselline rosse, nella cui scollatura aveva depositato il biglietto per averlo a portata di mano al momento di esibirlo. Sennonché, alla richiesta non riesce a trovarlo. E con la mano sempre più nervosa incomincia a ispezionare le coppe del reggiseno. Prima la destra, poi la sinistra, e viceversa, con esclamazioni del tipo: “Ma questa è bella! Ma questa è grossa!”, alludendo all’incredibilità della scomparsa. Al che, il controllore spazientito urla: “Senta, madama: i suoi seni, come sono sono, a me non interessano. Lei tiri fuori il biglietto.” Il sudore ansioso le stava spegnendo il colore delle roselline dell’abito... Si alzò scuotendolo stizzita. E fu così che il piccolo biglietto rettangolare, dopo un azzardoso e accidentato percorso attraversando le mutande della madama, trovò l’uscita e cadde a terra tramortito ed esausto. Trionfante e placata, lei lo raccolse e lo porse al controllore. Non prima di aver radunato i seni sparsi e attraverso la scollatura fatti rientrare in sede. Lui lo timbrò, tenendolo schifato a distanza fra l’indice e il pollice; si tolse il berretto, lo mise sotto l’ascella e, spoglio di autorità, se ne andò.



Spot

Pubblicità sfacciatamente bugiarde riescono a fare presa su un mondo femminile bisognoso di inganni illusivi. Creme spalmate sul viso di ragazze diciottenni per esaltare bellezze che già esistono; o su donne considerate di mezza età (che hanno al massimo quarant’anni...), facendone vedere il prima e il dopo la cura, dove cambia solo la luce e l’espressione del viso. Prima tristi e incupite; dopo sorridenti, truccatissime e felici. E molte ci credono, spendendo cifre enormi per imburrarsi il viso con l’illusione di sottrarre anni alla vita.
Nessuno mai osa proporre qualcosa esponendo verità. Prendiamo la terza età e oltre, ove la pubblicità non va più in là degli adesivi per le dentiere e i pannoloni contenenti. Perché non si ha il coraggio di suggerire anche a loro prodotti di bellezza non fronzolati? Per esempio: crema che crediamo efficace per mantenere in buona salute le rughe esistenti, sperando di arginare il più possibile la loro espansione. Assieme al prodotto, l’omaggio di un buono per un drink... il cui grado alcolico sarà proporzionato al tipo di immagine che si desidera vedere riflessa nello specchio. Questo darebbe una mano ad accettarsi così come si è, in coerenza con lo scorrere del tempo.



Le antiche sartorie

Giuliana Cutrona, ''Mannequin'' Attingo nel passato (come sempre...) per parlare di moda, della quale mi è rimasto un ricordo venato di nostalgia. Non voglio fare paragoni con quella attuale, la cui diversità non le apparenta. Ora si entra in un negozio e d’impulso, senza alcuna preparazione mentale di esigenza o di gusto (quest’ultimo prescelto da altri e imposto), si compera l’abito privato di responsabilità emotiva.
Una volta, farsi un abito era una decisione quasi sempre collettiva. Se ne parlava in famiglia... L’evento era a lungo ponderato, in gran parte in base al bisogno e in piccola parte per frivolezza. Il coinvolgimento aveva tempi lunghi e avveniva quasi sempre in primavera, come una spinta di rinnovo, o in autunno, per ammorbidire la porta dell’inverno.
Ne ho un ricordo lontano ma netto, quando a decisione avvenuta, da piccola, accompagnavo mia madre... e più tardi lei accompagnava me a farsi il vestito. Si andava a comperare il tessuto, sempre nello stesso negozio di fiducia. E lì si apriva ritualmente, assieme alla procedura, il primo atto.
Il negozio aveva sopra la porta una piccola campana che rintoccava all’apertura, avvisando la proprietaria – che stava di là – del nostro clientelare ingresso. Lei appariva, e con complicante sorriso chiedeva qual era l’avvenimento che induceva all’acquisto. Immedesimandosi sulla bisogna e consigliando, srotolava sul banco rotoli e pezzi di stoffa che, allineati su scaffali alle sue spalle, formavano una parete colorata. Colori accesi che, accompagnati da colori più morbidi, spingevano quelli più cupi in fondo allo scaffale (il nero per le persone anziane e per il lutto!).
Lo srotolamento condensava l’aria di odori particolari, di fibre naturali che nulla avevano di sintetico, incomprensibile all’olfatto. Portava la pezza davanti allo specchio e la drappeggiava sulla spalla di mia madre (bellissima, sembrava una dea romana). Lì si decideva la tinta, che non doveva sbattere: a seconda della carnagione e del colore dei capelli non doveva creare contrasto ma dare luce al viso. Quindi avveniva la scelta... non prima però di aver guardato il colore fuori dal negozio, a conferma che sarebbe rimasto tale anche all’aperto. Calcolato il metraggio, si pagava il tessuto e si usciva al suono trionfante della campanella che chiudeva il primo atto.
Nell’intermezzo, giunte a casa e aperto il pacco, dubbi e convinzioni sull’acquisto si alternavano chiudendosi sull’ultima frase: “Quel che è fatto, è fatto. Non si può più tornare indietro. Speriamo bene.”
La scelta della sarta cadeva quasi sempre su una certa signora Maddalena, nel salotto della quale si apriva il secondo atto. Certe sarte erano, come si direbbe ora, grandi stiliste. E lei era una di queste a pieno titolo... Aveva gusto, mestiere e talento. Allora non vi erano improvvisazioni, sarebbe stato impensabile. Nel salotto ci introduceva una delle sue apprendiste (molti anni dopo, fra queste mi introdussi anch’io): alle pareti vi erano appese fotografie di donne in abito da sposa, con dediche all’esecutrice; due poltrone e un divano rigido che costringeva a una postura seria... Poi entrava lei, con appeso al collo un centimetro giallo, come una collana di appartenenza alla categoria, sorridendo grata per averla scelta. E fra mille convenevoli si progettava la costruzione, sfogliando le riviste di moda dalle quali si sceglievano, mischiandoli, piccoli particolari che lei assemblava tenendo in considerazione il corpo della cliente, la sua psicologia, la qualità del tessuto e il portamento. Più personalizzata di così... Era compito suo far apparire la figura slanciata. E camuffava le piccole imperfezioni del corpo, ad esempio imbottendo le spalle e un po’ di più una se l’altra era più cadente, coprendo o scoprendo il ginocchio secondo la forma più o meno armoniosa del medesimo... E così via. Il colpo d’occhio doveva apparire perfetto.
Vi erano poi le prove, almeno due. La prima, più lunga ed estenuante, era per lei; la seconda coinvolgeva anche la cliente: lì era compiuta la complicità che faceva sì che l’abito lo sentissi tuo, perché tale era, unico esemplare. Fisicamente nessuno è uguale a un altro... Ad opera finita, alla consegna accompagnava la frase: “L’abito va indossato un po’ prima che si adatti e prenda confidenza...” E umanizzando il vestito, al cui parto avevano contribuito più persone, questo prendeva vita e si chiudeva il sipario.
L’abito viveva a lungo senza timori di accantonamenti precoci, per anni. In più occasioni si ricorreva a lui, che riusciva ogni volta a dissimulare la sua data di nascita. Quando questa diventava troppo evidente e impossibile da nascondere, si ricorreva ai ritocchi, a lifting da parte di mani esperte che di stagione in stagione lo ringiovanivano camuffandone magistralmente l’età.



Interni televisionati

Ho accettato l’invito... a vedere la casa di persone conosciute casualmente tempo fa. Persone oneste, che attraverso il lavoro hanno raggiunto gradatamente un certo benessere che ha elevato il loro tenore di vita e il raggiungimento di un sogno materializzato che amano orgogliosamente esibire.
La casa, in periferia, la cui costruzione risale suppergiù agli anni Cinquanta... Ordinatissima, piena di mobili finti antichi, copiando il gusto dei signori con i quali sono stati sempre a contatto per motivi di lavoro. Anche i tappeti comprati dai marocchini, che a persiane chiuse possono sembrare veri. Ma loro dicono (a persiane aperte...) che sono uguali e che di diverso hanno solo il costo... e non capiscono il perché.
La camera matrimoniale anni Quaranta (ereditata) è composta da un grande letto basso, con coperta all’uncinetto e una poltroncina con imbottitura di raso rosa sulla quale siede una bambola con lo sguardo fisso, un abito gitano e un cappello in testa. Prima stava al centro del letto, ma è stata spostata perché (dicono loro...) non usa più e farebbe cafone. Sotto la finestra una toeletta a forma di fagiolo, circondata da un grande volant dello stesso tesso tessuto rosa, sul cui marmo, allineate in fila decrescente, giacciono delle spazzole che hanno sul manico, a seconda della grandezza delle medesime, un adesivo con lo stemma della Lazio che mal copre l’inciso precedente del fascio littorio. Sul comò, un televisore che ne riempie lo spazio, in attesa di sostituzione perché “tiene ancora la gobba”.
La camera dei figli, con computer e televisori tutti piatti che si confondono gli uni con gli altri. In un’altra stanzetta dormono due anziane parenti. Le pareti sono tappezzate da santini vari, con preghiere e volti strani dai nomi ancora più strani, che vanno dal Beato Cafasso a San Pompilio; poi i rosari, molti rosari... da grani di tutte le dimensioni, che appesi tra una testiera e l’altra dei due letti, intrecciandosi, formano un’amaca benedetta che sta lì come in attesa di una sosta riposante di qualche santo di passaggio.
La cucina, limpidissima, non reca traccia di un traffico culinario appena avvenuto. È tutta bianca, e incassato su un pensile vi è un televisore acceso. Il piccolo ingresso ha di fronte alla porta, sopra un lumino, un Padre Pio accigliato e dallo sguardo dubitativo rivolto ad un quadro che dalla parte opposta incornicia una natura morta cui sembra non confermare del tutto il suo decesso. La camera da pranzo imbandita al massimo, come per volermi dimostrare, oltre l’affetto, la loro guadagnata opulenza.
Ho mangiato con il piacere sponsorizzato dall’appetito; piacere che si stabilizzava con la sazietà, per diventare poi doveroso, per mantenerne l’apparenza. Le portate non finivano mai... Ne ho un ricordo vago che si ferma alle orecchiette fatte a mano. Ne abbracciavo il piatto per ripararmi da ulteriori ricariche. La mia visuale si ferma sull’ultima rimasta, che ai miei occhi aveva le dimensioni dell’orecchio di Dumbo. I bicchieri, riempiti a velocità del suono, intorpidivano il surreale. Ero seduta al centro della tavola, con a fianco le parenti religiose. Di fronte, la padrona di casa e i figli, che davano le spalle a un televisore gigante, piatto, e che occupava mezza parete, il quale è rimasto sempre acceso; e sentendo loro solo l’audio, ne immaginavano le scene leggendo le espressioni che si disegnavano sui nostri volti, girando poi a turno le teste all’indietro. Mi misero al corrente del costo, che non immaginavo. E per giustificare il dissanguamento economico, mi dissero che era al plasma. All’acquisto avevano contribuito le due parenti pie, rinunciando a cure dentarie e optando per la dentiera più economica, che ne giustificava la lentezza della masticazione, prolungando il pasto all’infinito e dando loro il privilegio della prima fila.
Me ne andai stordita, non prima di recarmi in bagno, dove, increstato da finti girasoli, un occhio gigante e guardone di un televisore spento ammiccava ambiguo.



Il contagio della risata

Mi sto accorgendo che fra le molte cose è quasi scomparsa del tutto la risata, quella vera, l’autentica! Come si rideva un tempo, ora non si ride quasi più. O si ride per compiacenza, per cortesie dovute e bisogno di risonanza. Quando si tenta di provocarla, lei (la risata...) si sente veramente provocata... e non viene fuori. Può al massimo prestare la maschera facciale, non prima di averle spento il luccichio degli occhi. Lei viene fuori senza preavviso. Gioca su eventi emozionali che si creano lì per lì, colpendo di più chi ne ha una predisposizione genetica, perché sa che lì il suo mandato invasivo sarà totale, senza difese e senza sprechi (ho due giovani nipoti, e quando siamo assieme colpisce all’unisono). Non ci sono luoghi predisposti... Può colpire o può arrivare anche nei momenti paradossalmente tragici, uscendone vincitrice assoluta soprattutto dove per lei vige il divieto. Spande contagio, un po’ come lo sbadiglio, con il quale però non ha nessun tipo di parentela in comune, tranne l’attributo dell’irrefrenabilità e le lacrime. Quelle dell’uno, noiose e insipide; quelle dell’altra, benefiche e appaganti.
Ricordo un inverno di molti anni fa... in una piccola stazione del Nord, dopo l’annuncio di un considerevole ritardo di un treno locale bloccato per il maltempo, con le poche persone in attesa, infreddolite e imbestialite, rifugiate in una sala dove una stufetta di ghisa cercava faticosamente, oltre il suo limite potenziale, di spandere calore. Istintivamente, per non disperderlo, ci sedemmo tutti più o meno vicini sulla panca di legno.
Vi era fra di noi una signora con un ingombrante pacco ben incartato che appoggiò al suo fianco, tra lei e un signore non più giovane. I due iniziarono a parlare. Dal tono piuttosto alto capimmo che casualmente erano tutti e due deboli di udito. Iniziarono imprecando contro le Ferrovie dello Stato, con l’accordo rabbioso di tutti noi. Poi deragliarono, andando ognuno per conto proprio, convinti di procedere sullo stesso binario.
La signora mise a conoscenza del contenuto del pacco: una pendola che anticipava il tempo, per cui la portava a calibrare. Il signore capì che l’oggetto incartato era una pentola, e lì partì l’equivoco. La signora disse che l’aveva avuta in eredità... e quindi vi era molto affezionata. Il signore comprese e un po’ si stupì. Si stupì un po’ di più quando lei gli confidò che dal corridoio dov’era collocata la voleva portare in camera da letto, per sentirla più vicina. Il signore le consigliò di metterla in cucina, luogo secondo lui più adatto...
Nessuno di noi intervenne, perché la risata ci aveva ormai in consegna. Iniziò con un giovane che, alzando il bavero del cappotto, cercò un inutile tentativo di soffocamento, con un tremito non occultabile. Troppo tardi. Ormai il contagio si era spanto e ci aveva invaso. Nessuno si salvò, compresi i due interlocutori, che si unirono a noi ignari di esserne la causa, ma non immuni dalla morsa. Quando ci placammo, e qualche risata di assestamento ancora si sentiva, il signore chiese alla signora stupita chi le aveva tramandato in maniera così viscerale... la passione per la cucina.
Arrivò il treno. Nessuno di noi disse – come si è soliti esclamare – “Finalmente!” Eravamo convalescenti da un’emozione benefica e gratuita che prolungava i suoi strascichi.
Salendo, il pacco pendolare, quasi spinto da un bisogno d’identità, batté stancamente due rintocchi. Il signore sordo stranamente li sentì e, sconvolto, non salì sul nostro scompartimento ma andò a rifugiarsi attonito nell’ultimo vagone.



Vite evocate

Ho rivisto volentieri una mia vecchia amica che da tempo avevo perso di vista... Emana simpatia... universale. La sua è stata una vita tutta al negativo, e lei troppo intelligente per indulgere in ribellioni sterili che non avrebbero mutato in positivo ciò che è avvenuto... perché del tutto al di là del controllo di qualsiasi volontà. Si è limitata a prenderne atto con filosofia e molta ironia, psicorepellenti indispensabili contro gli agguati della depressione.
Ora, forse per alleggerire le sedimentazioni che il tempo ha reso pesanti, dopo studi approfonditi della materia si è convinta, procedendo a ritroso nel tempo, di aver vissuto altre vite. Una di queste la colloca nel Seicento, ragazzina sedicenne, ricamatrice sull’isola di Creta, innamorata di un ragazzo che per contrasti familiari non riuscì a sposare e che lei crede reincarnato in una persona di sua conoscenza, non so se ignaro o meno di ciò che fu. La sua appassionata convinzione – che per affetto ho evitato di smontare, non volendola defraudare di ciò che in parte compensa gli oltraggi che ha ricevuto dalla vita – le conferisce il potere di evocare le emozioni provate in un allora.
Io credo che tutti noi abbiamo momenti di incolmabile qualcosa mai vissuto – sospeso in un vuoto senza fondale, la cui breve serenità cullante di ignota provenienza è difficile da descrivere – che annulla l’età e il tempo. Forse nasce da geni trasmessi da chi ci ha preceduto, eredità remote...
Un po’ per limitazioni mentali e molto per disinteresse, non immaginando vantaggi nel quotidiano, non approfondisco. Lascio alla mia amica la trivella per scavare in profondità, alla ricerca di un vissuto remoto e altrove.



25 aprile

Sono tornata da Boves, dove ogni anno vado a festeggiare quella che per noi che abbiamo fatto la Resistenza rimane la Festa della Liberazione. E vogliamo avere la libertà, della quale ci avvaliamo, che tale rimanga. Perché la libertà, se imposta, automaticamente diventa un’altra cosa. Che è esattamente l’opposto.
Ci siamo ritrovati – i pochi rimasti – a rievocare ricordi lontani, traslocati in un presente che, sfuggendo al tempo, li lascia intatti nella memoria; ricordi che ci proiettano in un altrove lontano da una realtà che avremmo voluto diversa e che ha scomposto l’ordine delle speranze, non lasciandoci ormai più il tempo per ricomporle. L’illusione di un mondo migliore... e la consapevolezza che così non è stato e che ha intorpidito gli ideali per i quali abbiamo combattuto.
Tutto ciò ha portato a galla nella mia mente un ricordo di allora che avevo rimosso, o forse no. L’avevo dolorosamente protetto nel sudario del tempo perché non ne sbiadisse la memoria.
Avevo diciassette anni quando nel caos dell’armistizio e dello sbandamento dell’esercito, con lo stupore di un evento non previsto, ci trovammo impegnati ad affrontare una situazione anomala. Amici e nemici confusi. E soprattutto giovani militari impossibilitati a raggiungere casa, trovandosi per caso in un posto di frontiera, stanchi di una guerra che ormai durava da troppo tempo. Si radunarono in montagna in attesa del da farsi.
La nostra casa era grande e la chiudeva un portone imponente. Oltre alle camere in cui abitavamo noi, vi erano quattro appartamenti che affittavamo. In uno di questi vi era una famiglia di ebrei proveniente da Fiume, composta da un padre (ingegnere presso un’azienda petrolifera di Fiume), la madre e una figlia ventenne che ora vive in Svizzera. Parlavano tutti molte lingue... Il che ci stupiva moltissimo, noi altri abituati più al dialetto che all’italiano. Quella ragazza la sento ancora di tanto in tanto. All’inizio parlavamo del futuro, poi piano piano del presente, ora solo del passato.
Un altro appartamento, il più piccolo, era affittato a un ragazzo impiegato in una ditta privata. Aveva ventun anni. Era già partito per la Russia, da dove era appena tornato dopo un anno per un principio di congelamento, in attesa di un’assegnazione territoriale climaticamente più idonea. E qui lo sorprese l’8 settembre. Con lui, essendo rimasto orfano di entrambi i genitori, si era creato un rapporto quasi parentale.
Chiese consiglio a noi. Era smarrito e stanco, demotivato. Non voleva tornare a combattere. Gli suggerimmo di andare in montagna... Sarebbe rimasto vicino a casa e avrebbe avuto noi come punto di riferimento. Così fece. Partì e il secondo giorno si imbatté in una pattuglia di tedeschi che ispezionava la zona. Lui era disarmato. Loro no. Un proiettile lo centrò al cuore. Morì sul colpo. Aveva compiuto da poco ventidue anni.
Il dolore e lo sconforto furono enormi, aggravati dal rimorso di un consiglio dato in buona fede. Dalla montagna ci fecero sapere che lo avrebbero seppellito nel cimitero del paese e che lo avrebbero portato a valle verso l’una di notte.
Alle otto di sera (allora c’era il coprifuoco...) era impensabile uscire da casa, ma era ugualmente impensabile lasciarlo solo. Con tutte le paure comprensibili di mia madre, decisi che sarei andata io. La mia famiglia sapeva che se non fossi andata sarebbe stato per me psicologicamente più dannoso del rischio che avrei corso. Se malauguratamente avessi incontrato una ronda di tedeschi, avrei tentato di giustificare l’incauta uscita con la ricerca di un medico per un terribile mal di testa (allora non avevamo il telefono...), malore credibile per via degli occhi arrossati e gonfi per il pianto in seguito alla tragedia.
Il cimitero era un po’ fuori dal paese, e io, costretta a un giro più lungo ma più sicuro, dovevo uscire da casa almeno a mezzanotte. Attendemmo l’ora in un clima di dolore e angoscia, pregando. Era inverno. Varcai il portone guardinga, con un paio di stivali di gomma ai piedi per non fare rumore. La neve accumulata ai lati della strada mi impediva a volte di rasentare i muri delle case, cui mi appoggiavo lungo il cammino in attesa che la luna rientrasse nelle nubi sparse che mi davano attimi di protezione. L’abbaiare dei cani, disabituati ai rumori esterni, aveva tonalità diverse e isteriche che facevano crescere la paura. Mi sembrava di incespicare, nei battiti del cuore...
Arrivai al cimitero con un po’ di anticipo. Il custode con il quale avevo appuntamento non c’era ancora. Lo attesi lì, seduta sulla panca di pietra vicino al cancello di ferro. La luna era rimasta sola e diffondeva biancore e angoscia. Non so se avevo ancora paura... Non lo capivo più. Ero sopraffatta da emozioni che stentavo a reggere.
Finalmente arrivò il custode, e subito dopo, come in un film senza sonoro, vidi sbucare da un sentiero laterale quattro ragazzi che su di una barella portavano il corpo senza vita di Guido. Lo deposero, rigido, dentro la bara. Aveva lo stesso maglione con il collo alto di quand’era partito. Sul petto, un grosso fiore che il gelo aveva coagulato in grumi lucidi e nerastri. Gli occhi socchiusi mi guardavano pieni di infinito stupore e chiedevano “Perché?”. Un perché al quale ancora adesso non so rispondere. Avevo diciassette anni.



La rivolta del vecchio Spartaco

Sono tornata in una vecchia trattoria che in passato frequentavo più assiduamente. Ci sono tornata con nuovi amici che hanno in parte sostituito... gli estinti. A parte l’arredo, sempre dignitosamente identico, ho ritrovato il padrone di un tempo, in procinto di cedere l’attività, e un affezionatissimo vecchio cameriere inglobato nel tutto e distante dagli altri più giovani che vengono da lontano e parlano lingue a lui sconosciute. Si destreggiano da un tavolo all’altro con agilità da funamboli (agilità che lui – se mai l’ha avuta – ha perso con gli anni), hanno però totalmente cambiato l’atmosfera. Sono magri come giunchi... Magrezza sottolineata dalla fascia elastica che ne stringe la vita (imposta dal proprietario per mantenere quel minimo di dignità dovuta al locale) e dà loro l’aspetto e le movenze di giovani toreri. Ne ho visto uno alzarsi sulle punte dei piedi per raggiungere il centro del tavolo, dove ha poi collocato una bottiglia con la leggerezza di chi nell’arena pianta sul dorso del toro le banderillas. Anche lui, per appartenenza alla categoria, portava la cintura elastica. Ma non in vita, più giù, sui fianchi. Una mano santa per i reni...
Per il vecchio e lento cameriere, il percorso dalla cucina ai tavoli è diventato faticoso a causa dei suoi piedi stanchi che con il tempo, per mantenerlo stabile, si aprono sempre più a farfalla dandogli l’andatura tipica del pinguino dallo sguardo smarrito che ha perso il gruppo. I piatti, partiti caldi, arrivano a destinazione tiepidi.
Alla rimostranza di un signore vicino al nostro tavolo che, dandogli del tu con estrema naturalezza, lo incolpava del disservizio, lui, come unico e ultimo atto di ribellione dopo tanti tu ricevuti e mai restituiti, con un gesto pacato ha posato sul tavolo il tovagliolo che portava su una spalla, si è aggiustato sui fianchi la cintura, ha unito le punte dei piedi e con molta dignità ha esclamato: “Senti... se i piatti li vuoi caldi, alzi il culo dalla sedia e li vai a prendere da solo.” Poi è uscito dal ristorante ignorando lo stupore e lo sdegno degli astanti ed ha acceso una sigaretta. Un’azione che non avrebbe mai immaginato di compiere ma in cui confidava... forse... un giorno. E quel giorno è poi arrivato!



Decodificandum

Sono in piena sindrome televisiva... In casa sono entrati due nuovi televisori in sostituzione di quelli vecchi. Vecchi per modo di dire... Ancora funzionavano, ma un raptus per il nuovo mi ha consapevolmente travolta.
Questi nuovi sono entrati un po’ spocchiosi, esibendo una silhouette impensabile. Visti di profilo non hanno pancia, non hanno sedere... e mi domando: ma il cervello dov’è? Specie se confrontati con i precedenti che dietro, senza esibirlo mai, avevano un contenitore enorme che ho sempre immaginato pensante.
I nuovi, con la cassa cranica inesistente, la materia grigia compressa... mi fanno pensare a manipolazioni genetiche, un po’ come si fa con i cani per mutarne la razza, ignari che se ne muta anche il carattere e quelli non rispondono più ai comandi. È ciò che sta accadendo a me: la genialità robotica ha preso il sopravvento. Schiaccio il pulsante... Loro non rispondono al comando. Non solo, ma decidono secondo l’umore di farmi vedere ciò che più li aggrada in quel momento. Uno addirittura non trasmette niente, sfugge al guinzaglio. Ho chiamato l’antennista... Ha voluto sapere quali erano i sintomi e mi ha messo in lista di attesa.
Dei due vetusti, uno, il più piccolo, l’ho messo in cucina in attesa di affiliazione. Sta lì, ferito e zoppicante, ma ancora doverosamente funzionante. Con una piccola protesi (il decoder...) sarebbe perfetto. Ad una certa età chi non ne ha? Io più d’una.
L’altra notte, vittima di insonnia e di astinenza tele-visiva, sono andata in cucina e su di una sedia rigida, davanti a lui – rispettoso e ubbidiente ai comandi, con la fatica di tenere lontano i ricordi nebulosi, nel timore che si materializzassero in rimpianti – quella visuale più ristretta, il quadrante più umano, mi ha fatto sentire meno piccola e più importante, in un mondo che travolge per l’impatto di un’impensabile partecipazione.
Sono le tre di notte... La compressa del Tavor mi consiglia di spegnere il mio vecchio televisore. Non prima però di averlo liberato dall’ansia di un eventuale abbandono. Non ci lasceremo mai!



Ragazze di scorta

C’è voluto un po’ di tempo prima di capire... Si modifica l’epiteto per innalzare il valore sociale ed economico del vetusto mestiere. Un po’ come con gli spazzini, che si sentono gratificati nel sentirsi operatori ecologici... anche se continuano a scopare come prima.
E... tanto per rimanere in tema, la parola escort mi aveva messo un tantino fuori strada. Data la loro alta frequenza (che più alta non si può...), pensavo a ragazze venute da un paese a me sconosciuto che forse si chiamava Escortlandia, paese ai confini surreali di culture congenite di raffinatezze estreme, con almeno dieci master, tutti superati grazie a intelligenze bulimiche rare, con certificati di garanzia che ne attestassero approfondimenti di tutte le materie, specie quelle umanistiche. Le immaginavo con la giacca dal taglio manageriale e sul risvolto della medesima un piccolo distintivo di convalida. Ora che ho finalmente capito, non voglio spogliare del tutto il mio immaginario deluso. Lascio loro il distintivo, d’oro, con brillantini che ne incorniciano l’inciso: una piccola scopa che una farfalla azzurra fa volteggiare nel nulla.



L’assuefazione

Con l’avvicinarsi del ferragosto, i mezzi pubblici raddoppiano le attese già lunghe di per sé. E la poca gente rimasta in città, sfinita dal caldo, soffocata dal rabbioso disagio, confonde la rassegnata passività con il calo di pressione.
Ieri, tredici agosto, intorno alle dieci ero sola in attesa del 280. Il caldo era sul piede di guerra... Vidi in lontananza la sagoma arancione di un autobus: non era il mio, era il 23. Ne scese una sola persona, un giovane trasandato, con il capo chino, che sulle gambe malferme cercava con mani tremanti di accendere una sigaretta. Dopo vari tentativi ci riuscì, e appoggiato a un platano, gli occhi socchiusi, aspirò una boccata. Quando li riaprì, mi guardò e accenno un sorriso timido, quasi a giustificare il suo stato.
Aveva gli occhi azzurri, di un azzurro che hanno solo i bambini quando sono attoniti. Gli chiesi se si sentiva bene... Mi rispose che era un alcolista, e che erano anni che non si sentiva bene e trascinava la sua vita costruita da lui stesso in maniera sbagliata, aiutato da circostanze sfavorevoli. Mi confidò che l’unico modo di ignorarsi era il bere. Bevendo si immaginava un altro, quello che avrebbe voluto essere; un altro troppo debole per dargli una mano a venirne fuori.
Era una persona colta e piena di sentimenti, cui l’alcol aveva ammaccato le emozioni. Aveva quarantadue anni e parlava con lunghe pause, tipiche dei bevitori, che devono frugare molto nella mente per assemblare concetti nebulosi, nascosti, sbiaditi nell’alcol. So che chi cade nella trappola della dipendenza non riesce più a togliersi la tagliola che, ben che vada, gli ha già amputato parte dell’anima. Questa era la sensazione che mi dava il racconto frettoloso della sua vita. Mi guardava con occhi buoni e perdenti, stupiti che lo stessi ad ascoltare.
Passò il mio autobus: non salii. Gli consigliai di rivolgersi a qualche centro sociale... Mi disse che lo aveva già fatto, che lo avevano ascoltato senza starlo a sentire. Mi prese quindi le mani e se le strinse al petto, ringraziandomi per averlo preso in considerazione. Mi parlò di sua madre, una maestra elementare in pensione che malgrado lui la stesse uccidendo continuava ad amarlo anche così com’era.
Passò anche un altro autobus: non lo vidi. Immaginò come la madre lo avrebbe preferito: sposato, con figli, una casa... Lui ci avrebbe aggiunto un gatto...
Dormiva un po’ qua e un po’ là, da randagio. Chiesi come potevo aiutarlo, dargli qualcosa... Mi rispose che non voleva nulla: gli avevo già dato molto non ignorandolo. Lo pregai di accettare almeno un cappuccino. Il bar stava proprio di fronte... Gli offrii cinque euro. Mi volle dare il resto... che non aveva. Lo salutai... svuotata.
Mi era rimasta una monodose di conforto, e serviva a me. Andai a piedi incontro al mio autobus, che due fermate prima era in sosta al capolinea. Dieci minuti dopo, dal finestrino, lo vidi seduto al bar, assorto... come nel quadro di Manet, Il bevitore. Quello che stava bevendo non era un cappuccino.



Pronto Nonno

Da molto tempo non amo più il mese di agosto e lui, conscio della mia antipatia, me la ricambia tutta facendo sentire la sua calorosa presenza, aumentando i gradi anche di notte, di cui ho consapevolezza certa dal giornale, quando, al mattino presto, mi faccio quasi un chilometro a piedi per raggiungere l’unica edicola aperta in zona, passando davanti ai cassonetti dell’immondizia svuotati da poco che conservano intatto e unificato l’odore dolciastro e nauseante delle bucce di cocomero e di melone.
A giorni alterni, la chiamata telefonica, credo del Comune, che dà consigli alle persone anziane su come gestire al meglio la calura. E questo accresce l’angoscia, perché conferma la rischiosità del momento...
Consiglio n° 1: bere molta acqua. Non gasata, non dolce, non alcolica, togliendo anche quel minimo di conforto che dà un mezzo bicchiere di vino due volte al giorno. Consiglio n° 2: vestirsi con abiti leggeri. Conoscete qualcuno a cui venga in mente, con quaranta gradi, di uscire alle tre del pomeriggio con il maglione di cachemire a collo alto e maniche lunghe? Poi, a soccorso estremo, chiamare un numero verde intestato a Pronto Nonno, senza punto interrogativo. Il che fa presumere che a dare una mano sia uno come me, con gli stessi miei disagi e che in caso di necessità non chiama uno come lui ma tutt’al più suo nipote.
Dopo queste sudate riflessioni sotto le pale di un ventilatore a tutta velocità, non mi rimane che sperare in un risucchio che mi porti in Alaska.



Razzismo casereccio

Ho scoperto che il mio pizzicagnolo è leggermente razzista. Lo è a sua insaputa. L’ho scoperto la settimana scorsa, quando, assieme a me, nel negozio è entrato un extracomunitario, un ragazzo di colore con lo sguardo mite e la tuta sporca di calce.
Era l’ora di pranzo... Ordinò un panino e un’aranciata. Gli venne chiesto, con tono distaccato, che cosa volesse dentro il panino... E mentre il pizzicagnolo lo farciva in maniera sbrigativa, ne urlava forte il costo alla cassa, verso cui lo dirigeva con lo sguardo. Prima usciva, meglio era. Inconsapevole del perché. D’istinto lo voleva allontanare, un po’ come fanno i cani quando abbaiano al postino o ai barboni.
Ritornando a casa, lo trovai seduto a consumare il panino sui gradini del portone vicino al mio. Accennò, timidissimo, un sorriso. Mi fermai e gli chiesi la sua provenienza... Veniva dal Ruanda. Era fuggito dopo che i guerriglieri avevano sgozzato i suoi genitori. E aveva lasciato tre fratelli più piccoli, che sperava fossero ancora vivi.
Lì faceva l’insegnante. Aveva studiato in una comunità religiosa... Parlava bene l’italiano, oltre il francese e l’inglese. Pensai al pizzicagnolo che, le rare volte in cui parlava in italiano, sbagliava i verbi e di congiuntivi ne imbroccava due su dieci...
La sua aspirazione era quella di tornare in Ruanda e aprire una scuola... Ne alludeva come a un sogno e gli brillavano gli occhi; occhi tristi, con il bianco venato di rosso, come di chi piange da generazioni.
Il giorno dopo – in cui avrebbe portato a termine il suo lavoro nel quartiere – ci rivedemmo nel negozio. Lo salutai calorosamente, sotto lo sguardo colmo di stupore del proprietario che, interdetto, mi chiese: “Ma lei lo conosce bene?” Uscimmo insieme... e io, che avevo accantonato sessanta euro per farmi la permanente, decisi in un attimo che tutto sommato stavo meglio con i capelli lisci e cercai di darli a lui. Con grande dignità, li rifiutò dicendomi che era sostenuto di tutto punto da una comunità religiosa, e oltre ciò che guadagnava null’altro gli serviva. Lo pregai di prenderli, con l’augurio di convertirli nei primi mattoni della sua nuova scuola in Africa. Solo allora li accettò con gioia. Ci salutammo: lui con una piccola speranza in più ed io con i capelli lisci, alla faccia del pizzicagnolo.



Il temporale

È novembre... e cade una pioggia monotona, densa e odiosamente stagionale che rende Roma opaca e da cui non ci si difende. I tetti non hanno sporgenze; i balconi sotto i quali si sosta per istinto di protezione, con cattiveria scaricano l’accumulo d’acqua imposto dalla mancanza di grondaie. Ho nostalgia dei lunghi portici del Nord (come quelli di Cuneo...), un lungo ombrello collettivo sotto cui camminare e mantenere con la pioggia un certo distacco, che disegnavano un’atmosfera intrigante, umida e protettiva.
Mi affascinano i temporali, che in città arrivano asettici e intensivi, con annunci frettolosi di tuoni e lampi, mutando di poco il paesaggio. Mi piacciono enormemente quelli di campagna, dove ostentano il pieno della loro forza coinvolgendo l’intera natura, facendone partecipi tutti gli elementi, allertati da preavvisi sparsi nell’aria quando la terra ha sentori primordiali e sprigiona i suoi odori incapsulati nell’arido appena il cielo si incupisce e diventa grigio e denso.
Quando i tuoni e i lampi danno conferma del suo arrivo, il temporale scatena con forza tutti i suoi umori rimpicciolendo anche l’esistenza degli umani. E la terra, prima polverosa, e gli alberi e l’erba che l’avanguardia del vento faceva tremare, si sottopongono alla furia condensando i loro odori a protezione delle percosse della grandine.
Poi il temporale se ne va... ingiustificatamente quietato, a volte spostando altrove il residuo della sua furia. Non prima di aver pulito il cielo, ritornato azzurro, dimenticando nella fretta strie di nuvole che vagano smarrite in cerca di una via di uscita. Capita, a volte, che, resosi conto dell’eccesso iroso, si riscatti solcando il cielo con un arco di mille colori. Un modo maestoso di chiedere scusa.



Valentino... l’ultimo imperatore

"Valentino. The last emperor", locandina Ho visto il documentario sulla vita e la carriera di Valentino... L’apoteosi dell’effimero. Genialità innegabile esaltata in maniera spropositata, da assottigliarne quasi il merito. Un lusso straripante, da corte rinascimentale, che neanche il buon gusto può occultare, togliendo, credo, godibilità anche a chi lo possiede e costringendolo a regnare sopraffatto da – seppur raffinata – moderna decadenza.
La sua era è finita. Ne è subentrata un’altra – cafona, senza idee... – che si impone senza proporre.










Come Esther Williams...

Ho iniziato un corso di acquagym. Mi sono sopravalutata... Domani sarò alla terza lezione. Le prime due sono state un tantino traumatiche. Siamo suppergiù una trentina di donne, delle quali la più anziana ha circa vent’anni meno di me. Lo spogliatoio collettivo è pieno di specchi impietosi che rimandano figure di nudità che si raddoppiano senza riparo, tant’è che io, in cerca di un minimo di privacy più per ragioni estetiche che di pudore, mi sono rifugiata in un angolo, incoraggiata da un’altra signora, anche lei con un carapace senza ombre di quel che fu. Le sorrisi.... e il mio doppio ricambiò la cortesia.
Obbligatoria la cuffia. Ho rifiutato quella classica olimpionica, cui serve il forcipe per riuscire a svuotarla della testa. Mi sono messa una cuffia bianca anni Cinquanta, con una bizzarra arricciatura, sperando di distogliere gli sguardi dal viso, che il risalto delle rughe (complice il riflesso dell’acqua clorizzata...) rendeva di colore verdastro.
La speranza di passare inosservata? Fallita. Ho ottenuto l’effetto opposto. Sembravo un vecchio cuoco rimbecillito, con la cuffia a panna montata.
L’umidità nell’aria riduce la già ridotta visibilità, dovendosi togliersi gli occhiali che, d’istinto, una cerca di pulire anche se non ha. Nel labirinto di corridoi, con frecce indicative per me fuorvianti, incontro figure nebulose, tutte con l’accappatoio bianco, come nel film L’anno scorso a Marienbad... ma di serie C. Il mio è rosso. Meglio così, perché lo stordimento del dopo mi impedirebbe di ritrovare sia lui che me.
L’immersione nella vasca, con la scaletta perpendicolare, è un’impresa angosciosa che fa rintoccare la domanda: come farò ad uscire? Con mia grande sorpresa, sono riuscita a compiere entrambe le azioni, stimolata dal monito di una specie di gru con un sedile, appesa in alto, minacciosa, per dare una mano a chi proprio non ce la fa. Inesistenti... nel mio corso. I movimenti nell’acqua li ho fatti tutti; scoordinati, fuori tempo rispetto alla musica, ma li ho fatti.
Dopo le docce – disposte in fila ma aperte – si vestono tutte molto adagio. Non prima di aver spalmato il corpo di oli, creme e unguenti vari. Io no. In fretta e a secco, mi infilo i vestiti e filo via. Ieri, nella fretta, ho sbagliato uscita. Sono entrata nello spogliatoio degli uomini, tutti nudi. Ricordi di tempi lontani... Dopodomani ci ritorno.



Nuda di tecnologia

Non parlo inglese e non ho il computer. Appartengo a quella specie (pochi esemplari, in verità...) che si sta autoestinguendo. Quando parlo al telefono con persone che non mi conoscono e ignorano l’età (la voce inganna...), a seconda del caso mi dicono: “Va be’, mi mandi un’e-mail”, dando per scontato che io abbia tutto l’occorrente. Quando confesso che il computer io non ce l’ho, dall’altra parte del filo si sente un silenzio stupefatto. Appena riprendono fiato, cambiano automaticamente il timbro della voce. Fra una frase e l’altra fanno pause lunghissime... Sono certa che nel frattempo vengano loro in mente le piramidi d’Egitto. E per contrasto con l’era usano un linguaggio infantile, con i verbi coniugati all’infinito. Finiscono sempre con la frase compassionevole: “Ma perché non ci prova? Forse ce la potrebbe fare...”. Ed è proprio quel forse dubitativo che mi induce a rimanere come sono, nuda di tecnologia, non escludendo, nel tempo che mi rimane, di dover comunicare solo testualmente come fanno i primati.



La signorina Chiara

Il passato è sempre più lontano di quanto vorremmo... Forse per questa ragione, o a causa del mio disordine nelle collocazioni, i ricordi non hanno mai riferimenti esatti nel tempo. Le distanze, a volte anche decennali, non alterano però le emozioni legate agli eventi. Con l’amo del presente, tiro in superficie i ricordi di cui fanno parte personaggi che hanno lasciato delle tracce profonde.
Venivo fuori da una relazione sentimentale durata troppi anni, minati da scenate di gelosia ingiustificata che all’inizio mi lusingavano. Poi incominciarono a infastidirmi. Alla fine, troppo tardi, capii che certe patologie possono distruggere. Scappai prima di soccombere.
Ospite di un’amica, iniziai a cercare casa ignorandone la difficoltà. Era suppergiù intorno al ‘68... e una donna sola e un po’ vistosa com’ero allora destava mille sospetti, non dava garanzie morali, non avendo alle spalle un uomo che se ne assumesse le varie responsabilità.
Ero scoraggiata e triste, combattevo contro sentimenti non spenti del tutto, nel timore di cedere alle pressioni di un “ricominciamo da capo” che mi veniva proposto e mi inseguiva. Intuivo che qualora avessi ceduto, la mia vita non sarebbe più stata mia. Poi un giorno, in pieno sconforto, qualcuno mi segnalò un cartello di affittasi nella zona in cui cercavo casa. Scettica, provai a telefonare... La signora che mi rispose non fece domande. L’appartamento era grazioso, non aveva avuto inquilini precedenti. Lei vi aveva abitato fino a qualche tempo prima con la madre, deceduta da poco. Mi chiese solo se poteva lasciare in deposito nella cantina qualcosa che al momento aveva difficoltà a collocare. Si trattava, se ricordo bene, di quattro sedie, un comodino da notte, uno specchio con un angolo rotto e un baule. Ci accordammo sul canone e firmai il contratto.
La padrona era una signora gentile e un po’ spenta, come quei colori che non si riesce a definire. Un viso dai lineamenti perfetti, che tratteneva espressioni ingenue e infantili... Su quel viso il tempo aveva risparmiato i suoi solchi, e uno strato di cipria rosata lo rendeva levigato. Puntuale, il tre di ogni mese, alle cinque del pomeriggio, si presentava per ritirare l’affitto. Sempre curata, con i guanti e abiti anche loro senza tempo, che di un tempo conservavano l’eleganza senza soccombere all’odierno. Aveva un profumo di primavere lontane... Le chiesi qual era. Rispose che da sempre adoperava Violette di Parma. Si fermava ogni volta un pochino di più... Parlava con pacatezza. Aveva negli occhi scintille di vivacità che si alternavano e si spegnevano in un vuoto tutto suo, come piene di ricordi inappagati.
Ero curiosa, ma sentivo che non dovevo accelerare le confidenze: sarebbero arrivate piano piano, un mese per volta. I suoi discorsi vaghi erano colmi di dolorosi rimpianti. Capii che aveva perso una persona cara... Le chiesi se era vedova. Disse che il destino le aveva impedito di esserlo, dal momento che non si era mai sposata. Me lo confidò con imbarazzo commovente, quasi volesse seppellire i ricordi tramontati di un amore senza riposo ma che in fondo la riposava e si alternava a qualcosa di non sopito che assomigliava a un malcelato rancore. La sua calma non era mai disinvolta, come se nascondesse fatalità oscure.
La cosa andò avanti per un paio d’anni... Poi cominciò un periodo in cui anticipava la data delle riscossioni. Un po’ mi seccava... Non avevo capito né immaginavo le ristrettezze economiche che ne erano la causa, perché lei le velava con grande dignità. Un giorno mi telefonò pregandomi di recarmi io da lei... perché non si sentiva bene.
Viveva in una camera ammobiliata nei pressi di viale Mazzini... Era in vestaglia ma per decoro si era tolta le pantofole, che occhieggiavano sotto il letto. Le scarpe bianche e blu di mezza stagione davano l’impressione di una signora pronta per uscire, ma che all’ultimo momento cambia idea. Era dimagrita, la cipria rosa non riusciva a nascondere il suo pallore. Con voce stanca, mi comunicò che per necessità aveva venduto l’appartamento... e quindi sarei passata a nuovi proprietari. Mi abbracciò. La sentii inesistente sotto la vestaglia a quadretti. Mi fece promettere che almeno una volta al mese le avrei telefonato, per non rompere del tutto il rituale della riscossione. Lo feci una volta sola. Poi morì.
I nuovi padroni mi diedero presto lo sfratto. La notizia non mi turbò. Avevo iniziato nuovi lavori, spento il passato, e questa volta la casa l’avrei comprata. Rimaneva il problema dello sgombero della cantina... La signorina Chiara non aveva parenti rintracciabili. Lasciai lì tutto e aprii il baule. Al suo interno c’era una vita intera. Fotografie ingiallite di lei bambina, poi signorina con la gonna a pieghe degli anni Venti, insieme ai genitori – lei sempre sorridente, i genitori serissimi anche al mare; una scatola con i biglietti del teatro e la data segnata a mano; medaglie di onorificenza conferite al padre, che era stato prefetto in una città dell’Umbria; un quaderno con la copertina a fiorellini, dove di giorno in giorno scriveva le emozioni di un’adolescente dalla salute cagionevole che la costringeva a letto per dei lunghi periodi, con la sola eccezione di qualche esecuzione al pianoforte. Su pagine aggiunte e con la calligrafia mutata, era descritta la visita di un giovane venuto da fuori, ospite in casa loro per un breve periodo, con cui intratteneva lunghe conversazioni in francese e in inglese, sotto il roseto nel giardino.
Il ricordo di quelle emozioni che l’avevano invasa non l’abbandonava neanche di notte, mentre continuava a sentire il profumo delle rose. Una era conservata lì, avvolta in un foglio di carta velina, umida di ricordi, insieme a una cartolina con una veduta di Verona, indirizzata a lei. “Un pensiero nostalgico per le nostre lunghe conversazioni. Con affetto, Eugenio.” Chiudeva il diario l’ultima sera prima della partenza di lui, quando al chiaro di luna (che lei descriveva sorta a metà, forse per discrezione...) le prese le mani e la baciò.
Una scatola grande occupava buona parte del baule... Conteneva un’infinità di lettere legate a gruppi di dodici – credo per ordine di anno... – con un nastrino blu, intestate a Eugenio B. Al posto della destinazione, un punto interrogativo.
Diventata ormai la proprietaria di quell’epistolario avuto per casuale deposito, lo portai a casa e cominciai la lettura, che durò una notte e più giorni. Erano lettere di un amore struggente che lei scriveva a lui immaginandolo in posti diversi e lontani, tanto da giustificarne la mancata risposta. A volte replicava a risposte mai ricevute, dal momento che non ne ho mai trovato traccia. Vi era in quelle lettere non datate, ognuna scritta in tre lingue, l’amore immenso di una donna, che aveva finito per depredarla, come una malattia insidiosa e fedele. Quell’amore inutile e stagnante, macerie affettive su cui aveva camminato una vita.
Poi un’ultima busta, isolata, grande. Un solo foglio all’interno, datato aprile ‘58: “Ho appreso della tua morte. Con te se ne è andata la mia vita.”
In un’altra lettera indirizzata al Ministero dell’Istruzione, sua madre ringraziava un politico per aver preso a cuore il caso della figlia, per un lavoro al quale purtroppo era costretta a rinunciare a causa di un forte esaurimento nervoso...
E qui finisce la storia della signorina Chiara... Conservo ancora tutte le sue lettere, che un giorno brucerò. Perché l’essenza di quell’amore simile a una candela consumata senza mai ardere si dissolva in una fiammata.



Frammenti di politica

Un altro anno se ne è andato, portandosi via il tempo (solo quello reale...), traslocando nel nuovo la situazione stagnante del vecchio, continuando ad ammorbare l’aria in presenza della quale, anestetizzati ormai da imposte convinzioni di normalità, non ci turiamo più il naso. Sommersa da decantata salubrità, la vista accorciata e una discopatia che si accentua ogniqualvolta mi chino, mi impediscono di guardare in basso, per terra, dove è caduta la politica. A volte, quando ne avverto la nostalgia, nostalgia della passione che mi coinvolgeva quando era fatta da professionisti, inforco gli occhiali ma vedo solo ombre confuse. Le lenti si appannano immediatamente. Provo con il cannocchiale: ne scovo piccoli frammenti che non sono più distinguibili, mischiati nella palude...



Il “Pirata”

Era il 1942. Lidia aveva suppergiù sedici anni. Viveva con sua madre, ragazza-madre mai dichiarata. La vergogna per l’accaduto l’aveva costretta a lasciare il paese con la neonata. Camuffava lo stato civile con una vedovanza sofferta e irreprensibile, quale riscatto per l’accaduto. Faceva l’infermiera... e nel condominio dove viveva, molti ricorrevano a lei per consigli sulla salute, soprattutto quando doveva far loro le iniezioni. Si spostava svelta da un piano all’altro, discreta e affabile. Riceveva inevitabili confidenze durante la bollitura (il cui rituale ne prolungava il tempo...) della siringa nell’apposita scatoletta d’acciaio; confidenze che sfumavano e finivano quando la seghetta rompeva il collo della fiala, lasciando spazio a sguardi ansiosi sulle dita agili che pungevano natiche di forme varie.
La figlia aveva la pelle chiara e due occhi blu immensi che spandevano radiosità e gioia. Bella, anche se minuta per la sua età, che la madre tendeva ad evidenziare, nell’illusione di rallentarne la crescita, con abiti da collegiale: calzini corti, scarpe col cinturino e collettini alla Claudette, su cui poggiavano irrequiete due trecce quasi bionde. Timorosa e consapevole che l’uscita dall’adolescenza l’avrebbe costretta a una maggiore sorveglianza, influenzata dalla sua esperienza.
Lidia non covava ribellioni. Frequentava il ginnasio con buoni profitti. Il confronto con le compagne la lasciava indifferente.
Al piano di sotto viveva una famiglia di sei persone: i genitori e quattro figli, tutti maschi, di cui il più grande stava per terminare gli studi. Il padre lavorava al Ministero delle Finanze, faticando non poco per mantenere tutti i figli in maniera quasi decorosa. La moglie, di salute cagionevole e sofferente d’asma, ricorreva spesso per le iniezioni alla vedova del piano di sopra, che offriva apprezzata disponibilità anche di notte. Tant’è che invitarono lei e la figlia quando il primogenito conseguì il diploma in ragioneria e compì, lo stesso giorno, diciotto anni. Fu l’evento eccezionale e l’eccezione dell’invito: in casa loro non entrava mai nessuno. Raramente il portiere, anche lui invitato essendo dello stesso paese del padrone di casa, il quale nelle sporadiche visite a guardiola chiusa s’intratteneva una mezz’oretta spargendo notizie di piccoli accadimenti, che con finto interesse venivano ascoltati e prudentemente sepolti.
Il festeggiato si chiamava Rocco. Non era alto di statura. Aveva capelli neri e ricci, un viso accattivante, gli occhi mobilissimi, penetranti e lucidi, che per strana magia puntarono su Lidia pungendola e iniettandole sensazioni nuove, che di riflesso investirono pure lui. Tutti e due impreparati e digiuni a tali emozioni. Il fatto, cogliendoli di sorpresa, li resi muti e stupefatti per tutta la durata della festa. Rigidi sulla sedia, dondolati nell’intimo dalla canzone Vieni, c’è una strada nel bosco che un grammofono graffiava senza pietà. L’avvenimento cambiò la vita dei due giovani: lunghe insonnie, batticuori stupiti e irrefrenabili quando si incontravano sulle scale... La cosa non sfuggì né spiacque ai genitori. La madre di lei avrebbe circoscritto la sua paura, quella di lui non disgiungeva l’idea che avrebbe avuto assicurata per sempre la mano della vedova... e così convinse il marito.
I tempi erano precari. Tanto valeva affrettare l’unione, prima che al ragazzo, ormai in età di leva, arrivasse la cartolina precetto. E di lì a poco difatti arrivo.
Si sposarono subito. Il viaggio di nozze durò due giorni, in casa di una zia che viveva un paio di isolati più avanti e aveva ceduto loro cucina e camera da letto, quest’ultima sommersa da trini e pizzi di un corredo sperato per sé e mai adoperato. Sommersi da questo sentimento, restarono sepolti e storditi dagli eventi precipitosi.
La luna di miele fu casta. Non avvenne nulla, per pudore e timidezza. La consapevolezza della reciproca appartenenza rese quei giorni pieni e fulgidi.
Lui partì per la guerra. Partecipò a tutte le spedizioni che erano in atto. Nel frattempo lei tornò dalla madre e non si videro per tre anni. E per tre anni la vita di Lidia fu scandita dall’attesa delle lettere che arrivavano dai vari fronti. Ora lavorava alla posta... Era stata una sua idea, inconsciamente convinta che, facendone parte, in qualche modo ne avrebbe favorito l’arrivo. Quando i silenzi erano troppo lunghi, a differenza delle altre mogli che sentivano che il loro uomo era vivo, lei sentiva che era morto. E faceva celebrare messe in suffragio... Poi l’arrivo di una missiva, in parte oscurata dalla censura, ne evocava un’altra di ringraziamento. E così fra un De profundis e un Ti ringrazio, mio Signor, la guerra finì. E Rocco, emaciato e più piccolo, tornò a casa.
Presero in affitto un appartamentino al pianterreno, con un piccolo giardino sul retro dove lei, pacata dall’ansia, coltivava le dalie. Lui ne condivideva la passione, e le dalie, riconoscenti, ricambiavano incrociando i colori sui petali perfetti, uguali e mai scomposti.
I figli non venivano... Non si chiesero mai chi dei due fosse la causa dell’impedimento. Divisero l’anomalia, alleggerendo così la delusione e la colpa. Condividevano tutto: gli stessi orari di lavoro, gli stessi gusti, isolati nel loro unico al quale, ceduto reciprocamente ed eroso il proprio io, tolsero le deboli paratie mentali e si fusero in un unico noi. Il loro casco mentale, con un unico sottogola li proteggeva da timori inconsci dell’esterno. Solo i sogni, differenziati, li dividevano. E il racconto del mattino dava stupori individuali e seccati per l’esclusione di ognuno dal mondo onirico dell’altro. Sogni che sfiatavano verso l’esterno, equilibrando la loro patologia di isolati.
Comprarono la Cinquecento... Sacrificando un’aiuola, le fecero spazio nel giardino. Era bianca... e in mezzo alle dalie sembrava un enorme scarabeo albino. Lui pensava alla manutenzione meccanica e lei all’interno, che aveva addobbato come una piccola dépendance della loro casa: coprisedili ricamati da lei a punto croce, su disegni astratti disegnati da lui che, a lavoro ultimato, ne alteravano il significato... semmai ce ne fosse stato uno; il cruscotto medagliato da vari santi protettori, con l’immancabile Padre Pio dallo sguardo cattivo e intollerante; sovrastava un’immagine di Gesù a cuore aperto e sanguinante; la scritta Dio ti protegga, che era stata corretta a mano al plurale; acconsentivano, annuendo con il dondolio della testa, due cagnolini di plastica poggiati sul retro del parabrezza, maggiormente convinti ogniqualvolta sulla strada vi era una buca. La adoperavano poco in città. E quando lo facevano, non aprivano mai i finestrini, a difesa della loro privacy. Salvo quando, una volta all’anno, andavano a Chianciano. E quella vacanza di dieci giorni, appagandoli, gli dava certezze sociali ed economiche. Ogni anno la stessa pensione, discreta come loro. Lunghe passeggiate a piedi, rare volte in macchina, nei dintorni... dove di tanto in tanto aprivano anche i finestrini. La sera, mondanamente alle aste. E in azzardosa competizione, a fine vacanza compravano sempre una statuina finto Capodimonte, che lei collezionava adunandole su di un comò.
La Cinquecento, sempre come nuova, la coprivano con cura per evitarle il caldo e il freddo. E la sera, dopo un ultimo controllo, le rimboccavano le coperte.
La vita a binario unico scorreva serena. Erano ormai tutti e due in pensione... Ma una mattina d’estate trovarono in giardino, con grande sorpresa e disappunto, un cucciolo di cane bianco, con una sola macchia scura su di un occhio. Cacciarono l’intruso, ma lui tornò. Lo ricacciarono e lui tornò ancora. E sotto la finestra della loro camera da letto guaì tutta una notte. Non riuscirono a sottrarsi a quella invadenza, e un po’ per pietà cristiana e un po’ perché non vedevano soluzioni, lo fecero entrare in casa, con la speranza che, prima o poi, com’era venuto se ne sarebbe andato. Ma così non fu. Il cane rimase, sconvolgendo il loro equilibrio. Digiuni di metodi, comprarono un manuale, cui si attennero con il massimo rigore: assolutamente proibito salire sul letto; non lasciarsi impietosire da sguardi languidi e imploranti bocconi supplementari... Compensava largamente questa voglia golosa il figlio del portiere della vecchia casa, al quale lo lasciavano quando andavano a Chianciano. Lui ne vedeva la reincarnazione del suo, morto prematuramente sotto una macchina; il cane ne pregustava la gioia giorni prima, quando intuiva il suo temporaneo e gioioso deposito, dai movimenti per la partenza: valigie tirate fuori e la Cinquecento revisionata e scoperta.
Non aveva ancora un nome. Temevano che qualora glielo avessero dato, sarebbe stato loro per sempre. Orami era passato troppo tempo... e di comune accordo lo chiamarono Pirata, un po’ per quell’occhio nero a forma di benda e un po’ perché aveva depredato, sconvolgendole, le loro abitudini. Lo accudivano doverosamente, ma con scarso amore. Quello l’avevano totalmente investito l’un l’altra, e poco ne era rimasto da elargire. Pirata era cresciuto oltre ogni previsione, tant’è che quando, sempre assieme, lo portavano fuori, rigorosamente alle stesse ore, loro apparivano al confronto molto più piccoli di quanto già non fossero. Un po’ come le statuette del presepe acquistate in tempi diversi, dove il pastore governa un gregge di pecore così spropositate da sembrare dei mammut...
Pirata si adattò a loro con facilità. Smaniava e spariva, a volte anche per giorni, attirato dal richiamo irresistibile di qualche cagnetta in calore. Sempre angosciati nell’attesa che tornasse, una volta lo rinchiusero in casa. Ai primi smaniosi sintomi, lui, con un salto e una testata ruppe il vetro della finestra e scappò. Si ripromisero una punizione esemplare... Al ritorno, conscio del misfatto, lui si presentò con la coda e le orecchie aderenti, ma con lo sguardo soddisfatto e sornione, di fronte al quale i suoi padroni rimasero muti.
Con qualche difficoltà, si ricompose l’equilibrio. Ormai anziani e cagionevoli di salute, vivevano l’ingombro della fatica di non essere ingombranti l’un l’altro. Dopo lunghe riflessioni sulla paura condivisa di una possibile separazione imposta dall’alto, decisero che così come avevano vissuto se ne sarebbero andati: assieme, anticipando la data naturale. Programmarono ogni cosa per bene. Portarono il cane dal figlio del portiere, si vestirono con cura meticolosa. Lei gli annodò la cravatta e lui le chiuse l’ultimo bottone del finto Chanel rosa. Accesero il gas, si stesero sul letto... e iniziò l’attesa di un oblio che tardava ad arrivare. Nel frattempo, Pirata, insolitamente irrequieto, aveva sentore di qualcosa di anomalo. Perché non avevano tolto la coperta dalla Cinquecento? E perché non vi erano stati movimenti di valigie? Scappò di corsa. Con un salto ruppe il vetro. Lo stesso salto d’amore compiuto anni prima, ma questa volta al contrario, dall’esterno all’interno. Balzò sul letto, che sempre gli era stato proibito, e scodinzolando attese il loro rientro nella vita, dalla quale si erano allontanati di ben poco. Avvenne quasi subito, aiutati dall’aria che la finestra rotta lasciava entrare, destabilizzati e barcollanti, sul basamento delle loro certezze che Pirata, con un salto e un colpo di coda, aveva sgretolato insieme alle diffidenze accumulate.
Ma com’era mai possibile che qualcuno al di fuori di loro stessi potesse volergli bene a tal punto? Si ricomposero. Lui si tolse la cravatta e lei la collanina di perle. Poi a tavolino si misero d’accordo che semmai “la cosa” sarebbe stata rimandata a dopo, quando lui non ci sarebbe stato più. Ora, loro malgrado, gli dovevano riconoscenza e compensazioni arretrate. Pirata, per estinguere il debito di gratitudine per l’adozione imposta, sopravvisse ancora un po’ a tutti e due.



Con gli orecchini di corallo

Seduta sulla sedia girevole, Bea guardava fissa la parete di fronte, dove il crocifisso di legno appeso al muro divideva le due finestre che si affacciavano su una strada stretta e trafficata. Rifletté che le aveva aperte poche volte... per richiuderle subito, prima che il rumore sottostante invadesse l’interno; l’interno dove lei solo ora si rendeva conto da quanto tempo svolgesse quel lavoro. Non glielo aveva ricordato mai neanche il calendario appeso di fianco, dono annuale di un cliente la cui macelleria veniva reclamizzata con un bovino sopra i grandi numeri neri dei giorni del mese e le festività segnate in rosso.
Il computer sulla scrivania aveva sostituito la vecchia Olivetti, ma la dimestichezza raggiunta con quella macchina non l’aveva mai acquisita con il nuovo arrivato, che con la sua memoria ritentiva imponeva quasi una complicità che se da una parte l’agevolava, dall’altra la infastidiva. Sulle due poltroncine di fronte sedevano i clienti che stipulavano le polizze dell’assicurazione. Nell’angolo, un vecchio divano su cui lei volutamente non posava mai lo sguardo, salvo che (in contrasto con il suo carattere ordinato...) per seppellirlo di indumenti ogni volta che arrivava.
Quel posto l’aveva trovato tramite un’inserzione letta su un giornale... Non aveva alcuna esperienza. Se la fece pian piano sul campo, assieme all’agenzia appena nata che lei aveva adottato con l’impegno di farla crescere al meglio, studiando anche di notte clausole e clausolette e apportando piccoli cambiamenti come iniezioni di linfa vitale.
Era arrivata senza curriculum, ma convinse l’aria perbene... e un po’ forse l’abbigliamento sobrio e conforme alla sua figura anonima, sulla quale gli sguardi si posavano solo per riposare. Tanto, troppo tempo era passato... Con un pizzico di stupore, se ne rendeva conto proprio adesso che doveva chiudere un capitolo.
Viveva, allora come oggi, nella grande casa di famiglia, i cui componenti avevano occupato tutte le camere lungo il corridoio interminabile, chiuse poi con la loro progressiva dipartita. Lei che era la più piccola rimase l’ultima ad accudire il padre, un generale in pensione acciaccato e dispotico che si ostinava ancora ad esercitare un potere autoritario perduto ormai da tempo. Bea alimentava quell’illusione con un’ubbidienza sacrificale, cui si era inconsciamente votata.
Aveva portato a termine gli studi di economia e commercio senza fatica, ma esercitava quella professionalità acquisita solo in casa, compilando ogni mese, con meticolosa paranoia, l’elenco delle entrate e delle uscite, che differenziavano sempre di poco. Lo sottoponeva ogni volta alla supervisione del padre, unico artefice delle entrate mediante la sua pensione. Lui lo esigeva. E con un po’ di disappunto, alla fine l’approvava. Attraverso quel test, nel contempo le riconosceva la bravura e le rimproverava la mancanza di ambizione, senza rendersi conto di essere stato proprio lui ad averla soffocata con l’esercizio della sua autorità.
Alla casa badava lei, con il concorso di un piccolo aiuto esterno, limitandone gli spazi. Rimanevano aperte solo la sua camera, con la porta socchiusa anche di notte, e di fronte quella dei genitori, dove nel letto grande ora dormiva il padre, che l’insonnia costringeva a parlare da solo. Con quel sottofondo di imprecazioni contro nemici invisibili, lei si addormentava. Continuavano ad adoperare anche la camera da pranzo: la più ampia, allegra e vociante quando c’erano ancora tutti, ora tetra e solenne. Il tavolo troppo lungo veniva apparecchiato a metà. Lui aveva conservato il posto a capotavola, seduto sempre sulla stessa sedia dai braccioli rigidi, rivestita di pelle nera, secca e screpolata, che imponeva una postura inquisitoria. Ai lati, due mobili scuri e austeri, imponenti, stile rinascimentale, poggiavano su piedi scolpiti a forma di zampa di leone: erano i guardiani di quei pranzi muti, il cui solo rumore delle posate creava un’atmosfera perfetta per un finale all’Alka-Seltzer.
Si erano abituati, tanto da non sentirlo più, al ticchettio del grande orologio appeso al muro in fondo al corridoio... La cornice esagonale di onice nera, screziata di madreperla, relegava su uno sfondo di smalto bianco i numeri romani delle ore. Un foro centrale per infilarci la chiave... L’orologio esigeva la carica ogni quarantotto ore, a mezzogiorno in punto. Il compito spettava al generale, che, sempre più a fatica per mantenere una parvenza di passo spedito, andava alla carica brandendo la chiave e con piglio militaresco la fendeva nel quadrante.
Rimasta sola, i suoni dell’orologio morirono. Chiuse la porta della sala da pranzo, prese a mangiare sul tavolo di marmo della cucina stile liberty, con la radio sempre accesa, sostituita poi da un piccolo televisore, sulla tovaglia a quadretti rossi e blu, con un sorso di whisky finale in cui ondeggiava la sua solitudine... quel tanto da non farla apparire tale.
I problemi pratici si facevano pressanti... Con la morte del padre erano finite le entrate, ma non le uscite, rimaste sempre tali. E i conti non tornavano più.
Cercò di affittare a una giovane coppia un paio di camere della casa di cui era rimasta l’usufruttuaria. Facevano politica idealista, ospitando, quali membri del Soccorso rosso, persone che, scontata la pena e uscite dalle carceri, sostavano qualche giorno in attesa di una sistemazione. Queste si alternavano a giovani militanti di passaggio.
Il lungo corridoio era disseminato di zaini che, appoggiati alla parete, sembravano i sedili di un autobus nell’ora di punta. Riuscirono a coinvolgerla, ma la situazione si rovesciò: fu lei ad aver bisogno di soccorso. Il medico la condusse in un’ignota realtà dalla quale partire, un toccasana indispensabile: un lavoro.
Non aveva più legami. Quelli sentimentali, ormai alle soglie della trentina, non erano di sua competenza. E sentiva, per pigro fatalismo, che prima o poi qualcun altro se ne sarebbe preso carico al suo posto. Lo fece il principale in un giorno di pioggia autunnale, sul divano in similpelle dove venivano discusse le pratiche relative alla “liquidazione dei sinistri”; lo fece con un attacco spropositato, obbedendo a un cliché maschile, contro una difesa rassegnata, quasi fosse un pedaggio inevitabile compreso nelle sue mansioni. Aveva la pressione bassa, e la spinta che la sdraiò la fece calare ancora, tanto da impedirle la pur minima partecipazione. Si rese conto, però, che dell’accaduto non era stata protagonista. E come sempre si rassegnò al ruolo, calcando la stessa scena per molti anni e vivendo in maniera letargica quella “relazione” che in fondo, paradossalmente, la proteggeva, rendendola immune da ulteriori ipotetiche esperienze che non sarebbe stata in grado di gestire.
Il ragioniere Aldo Pozzi... Tutti lo chiamavano dottore, e alla fine anche lui si era convinto di esserlo davvero. Fisicamente di buona presenza, faceva di tutto per rendersi simpatico. Ci riusciva solo a volte, ma aveva la convinzione di esserlo sempre. Amava definirsi... monarchico. Per tradizione familiare e per dovere ereditario ne portava avanti l’ideologia, non avendone mai avuto altre da contrapporre. Si vantava dicendo che suo nonno per i Savoia aveva dato la vita. L’avo era morto di cirrosi, casualmente il 2 giugno, giorno del referendum. A conferma della fede radicata, teneva sulla scrivania una vecchia fotografia dove si vedeva Vittorio Emanuele III passare in rassegna sul Carso un gruppo di soldati dai visi sbiaditi: il primo della fila era suo nonno. Ne era convinto... Ad ogni modo aveva adottato quel soldato cerchiandolo con la matita rossa. La cornice, con i colori della bandiera, aveva in alto lo stemma sabaudo. Quel tocco aristocratico secondo lui dava lustro, riscattando i mobili di scarso pregio di cui faceva parte anche la scrivania grande con tanti cassetti laterali, in uno dei quali vi era a portata di mano uno specchio cui ricorreva per controllare il nodo della cravatta, quasi in preda a un tic, girando il collo a destra e a sinistra, per poi posizionarlo al centro, dove già si trovava. Sulla sedia girevole era adagiato un cucino alto otto centimetri che lui spiumacciava per non abbassare la sua immagine e che, invisibile a chi gli stava di fronte, gli infondeva una sicurezza manageriale.
Lui doveva avallare con una firma, in qualità di responsabile, la polizza già illustrata e stipulata da Bea. Ora, come obbligo complementare di uomo arrivato, aveva anche l’amante, ottenuta senza la fatica della conquista, proprio come Vittorio Emanuele II con la bella Rosin... Si sentiva realizzato... Aveva una moglie e un figlio che non gli avevano mai dato problemi. Quel matrimonio monotono e passivo rappresentava per lui una piattaforma sociale stabile.
Bea aveva fatto del lavoro un tutt’uno con la sua vita e quella dei clienti, buona parte dei quali, dopo due o tre stipule, entravano in confidenza. E percependo la disponibilità all’ascolto, la rendevano partecipe.
La signora Giulia Marchetti (polizza numero 229... contro i furti e gli incidenti domestici) le portava in dono libri gialli che lei stessa scriveva e che di giallo avevano solo il colore della copertina: o l’assassino veniva spiattellato alla seconda pagina, rendendo inutile tutto il resto della storia, o se si trovava l’assassino non si capiva il movente del delitto; se invece si scopriva il delitto, non si capiva mai quale fosse davvero il colpevole, mescolato a una pletora di personaggi smarriti.
Il signor Ugo Giorgi (polizza numero 352 e 237... a copertura dei danni all’automobile e di quelli provocati dagli agenti atmosferici) aveva un podere in campagna, dove si rifugiava alla fine della settimana e si dilettava a dipingere paesaggi di montagna desolati con casolari sparsi qua e là. La bruttezza di questi quadri faceva sperare a Bea, che li riceveva in dono, grandinate distruttive... anche se poi queste avrebbero dovuto essere risarcite con la riscossione della polizza.
Il signor Attilio Mariotti... polizza assicurativa per auto di grossa cilindrata, per furti in casa e nel negozio, e sulla vita di entrambi i coniugi, l’uno a favore dell’altra. Per quest’ultima polizza occorsero a Bea più incontri per convincere il cliente. A indurlo a decidere, alla fine, una sorta di scaramanzia per il rischio che comportavano i tanti viaggi sulla macchina potente, che compiva in cerca di pezzi d’antiquariato per il loro negozio.
Bea, sempre in bilico tra la convenienza della società e quella del cliente, a stipula avvenuta era attraversata dalla solita crisi di imparzialità...
Il signor Attilio... giovanile e con l’aria distinta che gli dava quella puntina di ulcera stagionale che gli scavava un po’ le guance... Le tempie brizzolate e gli occhiali con la montatura da docente spargevano fascino sulla sua figura alta e un po’ curva, che suggeriva l’idea di una fragilità a tratti volitiva.
Quando avvicinò il contratto agli occhi fessurati da miope, notò dalla firma che lei, Bea, si chiamava in realtà Beatrice ed esclamò: «Ma è un nome bellissimo... Perché l’accorcia? Un nome così importante, che ispirò addirittura Dante, non merita tale mutilazione». Lei, attonita, quando se ne andò ripeté più volte, srotolandolo e sillabandolo, il suo nome per intero. E per la prima volta ebbe la sensazione di esistere.
Il ménage con il datore di lavoro si era stabilizzato su abitudini minimali, che si condensavano in un’uscita settimanale: il giovedì dalle 18:30 alle 20:30. A settimane alterne, una volta andavano al cinema (lui sceglieva film western o di guerra... e lei, che amava quelli sentimentali, non avendo voce in capitolo era costretta a subirli) e la volta dopo in trattoria, vicino all’ufficio. Per rientrare nei tempi, arrivavano sempre troppo presto, quando i camerieri non erano ancora entrati in servizio. L’attesa muta in quella sala vuota, i tavoli apparecchiati senza ancora nessun cliente... E lei che per quella mondanità settimanale indossava anche gli orecchini di corallo, che l’altro non aveva mai notato.
Le prime volte fu lui ad offrire. Mangiava poco, senza sale, e soprattutto era astemio. Lei, che invece non lo era, per rompere quell’inconscia riconoscenza pensò che si sarebbe sentita più a suo agio con i conti separati. Non volendo offendere la sua sensibilità, cercò di trovare le parole più appropriate. Il discorso venne troncato all’inizio, con una sola battuta: «D’accordo». Così, più libera, ora prendeva anche un quartino di vino che cominciava a fare effetto solo alla fine, quando arrivavano gli altri clienti, dando qualche pennellata rosa e tingendo l’atmosfera di piccole fantasie, facendole immaginare che lui fosse un altro. Non aveva in mente un modello preciso... Chiunque, purché fosse un altro, non gli somigliasse e notasse i suoi orecchini di corallo.
Un giovedì di aprile entrò nella sua stanza la moglie... Era minuta, bruna, con i capelli corti. L’aveva vista poche volte... Veniva di rado. Entrò per salutarla. Bea arrossì pensando a ciò che sarebbe accaduto nel pomeriggio, prima di andare in trattoria. Quella vampata che non si spegneva colse di sorpresa la signora. Capì. Non l’aveva mai messo in conto, non tanto per una presunta fedeltà del coniuge quanto per la sua incapacità di gestione. Lo stupore prevalse sull’istinto di gelosia, che stranamente scoprì di non avere. Il suo matrimonio era annegato ben presto nell’indifferenza... In quel momento avrebbe voluto essere capace di odiarlo. L’odio è comunque un sentimento che regala qualche emozione, seppure negativa, e può sempre mutare. L’indifferenza invece è subdola e uccide pian piano. Si rese conto che la rivale non era tale poiché non poteva sottrarle nulla. Ignorò volutamente. Forse, tutto sommato, l’avrebbe anche alleggerita dagli sporadici doveri coniugali...
Bea leggeva ogni giorno il giornale. La sosta all’edicola dell’angolo e il caffè nel bar vicino le aprivano meglio la giornata, integrandola in una pur minima realtà sociale.
In un afoso mattino di agosto lesse di un incidente capitato a una coppia, nei pressi di un passaggio a livello... La donna era deceduta sul colpo; lui invece ne era uscito ferito, ma non in pericolo di vita. Non ci volle molto per capire chi fossero. Non ebbe bisogno di ricerche: aveva in mente l’archivio di tutti i clienti, e quella coppia era fra questi. Si trattava dei signori Mariotti, ai quali lei aveva fatto pressione per la polizza sulla vita. In quel momento si sentì una sibilla infausta. Provò un dolore vero per quel signore gentile che aveva ben presente. Avrebbe voluto telefonare per le condoglianze, personali, ma il timore di essere fraintesa per l’interesse dell’agenzia la fece desistere. Attese, e trascorsero diversi mesi prima che il signor Attilio si facesse vivo. Spinto dal suo avvocato per quella questione da lui dimenticata, con voce spenta fissò un appuntamento.
Lo vide arrivare zoppicando, con il volto emaciato... L’imbarazzo di lei, che avrebbe voluto ma non trovava le parole di giusta partecipazione, lo commosse. Dovettero comunque venire al sodo. La cifra della riscossione era abbastanza cospicua. La cosa non parve interessarlo. Nulla avrebbe compensato la perdita. Qualsiasi investimento gli sembrava una speculazione sul dolore. Chiese passivamente consiglio a lei, pur sapendo che ciò esulava dal suo ruolo. Ma Bea sentì questa investitura come un enorme privilegio umano e cercò di venirgli in aiuto immedesimandosi nel problema. Ci volle del tempo... Lui l’andava a trovare per parlarle quando la depressione gli concedeva una tregua. La sera, fuori orario... L’avvisava all’ultimo momento. La disponibilità di lei era totale... anche di giovedì.
Pian piano lui cominciò ad aprirsi, confidandosi. Si ricordò che fra i desideri della moglie scomparsa vi era quello di sostenere delle adozioni a distanza. Una compensazione per i figli mai avuti... Ci avrebbe pensato lui ora, su consiglio e aiuto di Bea per le pratiche necessarie. Ne adottò dieci, in varie parti del mondo, e in più sovvenzionò l’apertura di una scuola in Ruanda, dedicata alla memoria di sua moglie. Per suggellare quest’ultima decisione, che appagò entrambi, la invitò a cena in un ristorante... alle nove di sera. L’ora insolita e il ristorante in voga misero Bea in grande agitazione. Emerse la titubanza per gli orecchini... Metterli non sembrava confacente al lutto che lei ormai condivideva, ma il locale forse li esigeva... Decise di indossarli. Lui li noto, complimentandosi; lei ne fu felice. Poi, per molto tempo non si fece più vivo.
Un giorno il principale la convocò nel suo ufficio, e con distacco le comunicò che la compagnia assicurativa era stata venduta a un gruppo straniero. Pertanto, lei veniva liquidata... assieme alla loro relazione. L’annuncio l’atterrì. Non era preparata. Si rese conto della difficoltà improvvisa di dover cancellare tutte quelle piccole abitudini... Con gli occhi tristi, percorse il perimetro della stanza che non sarebbe stata più sua, cercando di anticipare quel distacco psicologico che sapeva doloroso. Aveva vissuto lì per molto tempo, prima sperando che qualcosa nella sua vita potesse cambiare, poi con il timore che ciò avvenisse e incrinasse l’equilibrio delle abitudini che lentamente erano venute costruendosi. Ora, sola e senza nessuna prospettiva futura cui aggrapparsi, trascorreva gli ultimi in giorni nella palude di un oblio forzato, da cui aveva la certezza che non sarebbe venuta fuori.
Il 29 luglio, quando entrò per l’ultima volta nel suo ufficiò, trovò sulla scrivania un mazzo di fiori variopinti. Pensò a uno sbaglio... Si avvicinò cauta, con il passo di chi si accinge a disinnescare una mina. Era proprio per lei... Sul bigliettino c’era scritto: A Beatrice, nel giorno del suo onomastico. Con affetto, gratitudine e simpatia. Attilio.
Si sedette in attesa che i battiti del cuore decelerassero la corsa. Nessuno mai le aveva regalato dei fiori. E che fosse il suo onomastico, lei stessa se l’era dimenticato o non l’aveva mai saputo. Si avvicinò al calendario con il mese ancora coperto dal foglio precedente, lo strappò e ne ebbe conferma: quasi alla fine, il 29 luglio riportava “Santa Beatrice vergine e martire”. Per un attimo le parve che il bue stampato sul calendario, con la saggezza di sei mesi d’invecchiamento, le sorridesse benigno.
Telefonò d’istinto al signor Attilio per ringraziarlo, ma quando sentì la sua voce scoppiò in un pianto disperato, da tempo trattenuto. Gli raccontò a valanga ciò che le era capitato... Fece una pausa per riprendere fiato, e lui si inserì dicendo: «Sarò lì fra poco».
Si era sfogata come si fa con un amico di vecchia data, un amico che lei non aveva mai avuto... Stordita, quasi in trance, svuotò i cassetti della scrivania. Mise tutto in una busta di plastica: gli acquerelli bucolici, i libri gialli letti a metà... tranne quella boccettina di profumo che, come un timbro olfattivo, segnava i giovedì. La buttò nel cestino. Per ultimo prese anche il calendario: non voleva che il bue, alla fine dell’anno, morisse da solo. Chiuse la porta a più mandate, seppellendo lì dentro un pezzo della sua vita. Lasciò le chiavi nella cassetta della posta e attese sul portone. Lui arrivò quasi subito... La trovò con gli occhi gonfi, il naso rosso e in mano il sacchetto di plastica. Non le fece pena, ma una tenerezza che, pudicamente, gli impedì l’abbraccio protettivo e fraterno che l’istinto avrebbe voluto. La fece salire in macchina e la portò a casa sua, prendendola per mano come si fa per rassicurare i bambini impauriti.
L’appartamento era piccolo ma arredato con mobili di gran gusto, scelti con cura. Aveva traslocato da poco, lasciando con enorme sofferenza in quello precedente, molto più grande, i ricordi tangibili di realtà passate e stroncate che non gli avrebbero dato pace, impedendogli di vivere e rintoccando l’ossessione del dolore. La fece accomodare su un enorme divano, dove, intimidita e seduta in punta, sembrava ancora più fragile.
Non le chiese nulla. La lasciò sfogare, anche se intuì che qualcosa, per ritrosia, gli era stato volutamente taciuto. Un silente cameriere filippino le portò su un vassoio dei sandwiches e un bicchiere di vino, che bevve tutto d’un fiato per diluire l’angoscia. Ebbe quasi la certezza che lui l’avrebbe aiutata nel decorso della rassegnazione.
L’accompagnò fin sotto casa, promettendole che si sarebbe fatto vivo presto... Stanca e sopraffatta da tante emozioni, si mise a letto e dormì nove ore vuote di sogni. Il risveglio fu meno drammatico di quanto avesse paurosamente immaginato. Aveva la consapevolezza di poter contar su qualcuno, un amico che, se non altro per riconoscenza, non poteva deludere. Quel giorno le telefonò due volte. E così fece per molto tempo, sempre in orari diversi. L’attesa di quelle telefonate servì a farle ricomporre la trama di una quotidianità sfilacciata. Non voleva che lei immaginasse che il suo interessamento fosse un soccorso dovuto, perché così non era. Poi superò lo scrupolo e le conversazioni si fecero più regolari e assidue, riempiendo i momenti vuoti di entrambi.
Ora uscivano spesso insieme... Su queste palafitte affettive scoprivano gusti comuni, a volte ignoti anche a loro stessi, che li coinvolgevano in una complicità che l’età non più giovane consolidava a loro insaputa. Vivevano con naturalezza la ricchezza di emozioni nuove che li stava travolgendo.
Un giorno, durante una passeggiata, un tacco di lei venne inghiottito dalla grata di un tombino. Ridendo per l’accaduto e claudicante, si appoggiò a lui, che l’abbraccio forte per sostenerla. In quell’atteggiamento plateale li vide dal marciapiede di fronte la moglie del suo ex datore di lavoro, ora bionda, con delle ciocche rade e sfibrate sulle spalle a connotare l’appartenenza a quella categoria di donne che non si rassegnano ad aver raggiunto una certa età. Stentò a riconoscerla... Ma quando ne ebbe la certezza, la additò al marito che, basito e nervoso, fingendo indifferenza, girò la testa di qua e di là, assestando con la mano il nodo della cravatta.
Beatrice decise che era giunto il momento di invitare Attilio a cena a casa sua... I preparativi per l’evento durarono giorni. Sul menu non aveva dubbi: ormai conosceva bene i suoi gusti. Comperò una tovaglia piena di papaveri, con la quale coprì la bara del tavolo nella camera da pranzo. Accantonò la sedia direttoriale del defunto e mise sulle altre dei cuscini foderati con lo stesso tessuto della tovaglia. Quel prevalere del rosso dava all’interno un aspetto anomalo, da anticipato Natale... Lui notò con occhio esperto e benevolo l’arredo di una borghesia ormai tramontata.
La cena fu perfetta, ricca di pietanze innaffiate con il vino portato da lui. I racconti dei suoi tanti viaggi catturarono la sua attenzione... Lei che non era mai stata da nessuna parte...
La mattina dopo, con i fiori, arrivò una telefonata in cui la pregava, qualora fosse passata davanti all’agenzia di viaggi nei pressi di casa sua, di prendere qualche depliant della Grecia. Non aspettò di passarci per caso. Ci si recò subito. E prima di uscire da casa, caricata com’era, cercò disperatamente la chiave dell’orologio, afono da molti anni. La trovò... e caricò anche lui con la segreta speranza che a quel piccolo rumore forse presto se ne sarebbero aggiunti anche altri.
Uscita dall’agenzia con un plico di opuscoli pubblicitari, compresi quelli dei paesi confinanti con la Grecia, si trovò davanti il suo ex. Una casualità che la convinse poco... Aveva un’espressione irosa dipinta in volto. La fissò squadrandola, soffermandosi sugli orecchini di corallo, il cui colore sfacciato avallava la frase che stava per pronunciare. E sibilò: «Sei una gran puttana!». Lei non capì subito. E lui ripeté per la seconda volta: «Sei una gran puttana!». Non si curò neanche della stabilità della cravatta, il cui nodo fuori controllo si stava spostando verso la spalla. Lei fece un gran sorriso. Con quella frase, per la prima volta l’aveva vista come una donna. Non le importava la classificazione... Quell’ingiuria fu per lei l’unica frase d’amore, a perfetta chiusura di una storia d’amore senza amore.



Sono svanite le distanze?

Ho conosciuto persone di mezza età... Persone normali che si godono la loro pensione in un paese di provincia, dove sono nate, si sono conosciute e dove hanno vissuto. Hanno accumulato ricordi... e ho avuto l’impressione che, con un pizzico di costrizione, li spogliassero della nostalgia.
Hanno un unico figlio, una specie di genio... Anzi, sicuramente lo è. Inventore di un robot con funzioni particolari, il cui brevetto è conteso in tutto il mondo. Dopo aver vissuto per molto tempo in America per la ricerca, ora lavora in Svezia, dove per la continuità del suo lavoro avveniristico riceve buoni contributi.
In Svezia vive con la moglie, una giapponese conosciuta su Internet, dove si sono virtualmente frequentati per più di un anno radiografando la psicologia di ogni anfratto del loro essere, tant’è che quando si sono incontrati per la prima volta, a metà strada per entrambi (dato che lui si trovava casualmente a San Francisco...), hanno optato per Honolulu. Si sono piaciuti fisicamente – tutto il resto era ormai talmente setacciato – e hanno deciso di sposarsi subito. E la coppia pare che funzioni... I genitori un po’ meno, smarriti nell’autoconvinzione che al giorno d’oggi le distanze non esistano più.
Ricordo, tanto tempo fa, mi corteggiava un ragazzo di un paese vicino. Si faceva sette chilometri in bicicletta (una Legnano, simbolo di un certo benessere...). Era estate... la sola stagione della cotta. Veniva anche due volte al giorno, e l’assiduità faceva supporre intenzioni serie. La mia famiglia mi consigliò di riflettere a lungo. A parte la mia giovane età, lui era pur sempre un forestiero. Sette chilometri di distanza!



Calembour

L’intelligenza piace ma fa paura. Chi la possiede, prima o poi ne paga il prezzo. Tanto che a volte bisognerebbe coprirla. Ne è cosciente chi la possiede. Se non fosse così, sarebbe un mediocre.
La mediocrità non ha bisogno di copertura. Chi la possiede, non ne è cosciente. Se lo fosse, sarebbe intelligente.
Il dialogo duellante fra due intelligenti è una stancante e gratificante apertura a tutte le sfere emotive che lascia sfibrati e nudi di ipocrisia.
Il dialogo fra due mediocri è rilassante, non impegnativo. Le emozioni, se vi sono, non vengono a galla, deposte in un luogo che loro ignorano e non ricercano.
Il dialogo fra una persona intelligente e una mediocre non esiste.



Ancora auguri, Luisa

Una mia carissima amica ha compiuto settant’anni... Pochi secondo me, tanti secondo lei. Pur essendo Luisa una persona positiva, il prenderne coscienza qualche turbamento glielo ha provocato. È la data, ora posticipata di almeno vent’anni, nella quale inevitabilmente si entra nella terza età. Inutile puntare i piedi: non serve. Il tempo dà una pedata e una si trova dentro suo malgrado, un po’ smarrita... tanto più, come nel suo caso, quando gli anni portati non sono così evidenti.
L’adattamento avviene pian piano, con l’assestamento di un conveniente equilibrio per gestire al meglio la nuova fase, alla quale il buon senso di Luisa farà da argine. L’autunno non ha più i colori sgargianti e stordenti dell’estate ma tinte più sfumate, tenui e pacate, diversamente belle, che se annaffiate con sapienza durano a lungo, in attesa di un inverno di cui è ancora lontano il sentore.
L’anniversario è stato festeggiato in un agriturismo... Fra i tanti amici c’ero anch’io, che ho contribuito con la stesura di bigliettini che ognuno dei commensali ha trovato vicino al suo piatto, in una graziosa scatolina. Eccoli...


Lasciate che i pargoli...

Della pedofilia ecclesiastica ne eravamo un po’ tutti a conoscenza, comprese le alte cariche, anche loro parte attiva e coprente. Io ero rimasta indietro, a quando si sussurrava di qualche scappatella programmata dietro la grata del confessionale, dove qualche giovane credente mal maritata si sfogava mettendo a nudo lo scontento per la trascuratezza del marito, che a volte a lei preferiva la bottiglia. E così, frustrata, la spingeva a pensieri peccaminosi su altri talami. Lì, trovando terreno facile, l’assolvente (specie se di bell’aspetto...) ci faceva un pensierino, convincendosi che tutto sommato le corna sarebbero state un’opera buona.
Quella era una trasgressione tollerata, la pedofilia no. Questa è violenza. Forse coloro che l’hanno praticata hanno dato libera interpretazione alla frase di Gesù “Lasciate che i pargoli vengano a me”...



Ex voto

Oggi la nostalgia di Boves mi ha raggiunto senza preavviso. Con l’illusione del tempo fermo sui ricordi, riposava la speranza che fosse cambiato di poco... ma non è così. Il tempo ora scorre con una velocità anomala, sconvolgendo quella rassicurante di allora e contribuendo a cambiamenti repentini, troppo per chi come me era abituato a ritmi che lasciavano ampi spazi di adattabilità genetica.
Il paese era circondato da frazioni sparse un po’ in collina, un po’ in pianura e tre in montagna. Me le ricordo bene. Ognuna aveva la propria autonomia, quasi tutte con la scuola elementare. Ricorrevano al paese per le cose importanti: il mercato, le grandi processioni del sabato santo, il Comune e la farmacia. Un po’ come le famiglie di allora, con molti figli resi presto autonomi per necessità economiche, ma che rimanevano comunque il punto fermo e solidale a cui ricorrere nei momenti di reciproca necessità.
E proprio come le famiglie adesso allargate, scomposte, disciolte, così sono diventate le frazioni. Boves ha come fondale dominante la Bisalta, una montagna spropositata per un paese così piccolo, la cui protezione, a seconda delle stagioni, diventava alternativamente rassicurante o minacciosa. Ma è lei che spegne la luce al giorno facendo tramontare il sole e accende la candela della notte dominando la luna.
Una collinetta più vicina al paese ne ammorbidiva l’impatto austero. E lì vi era una piccola frazione, Sant’Antonio, di cui è rimasto il santuario, ora muto e spento, allora vociante e sempre aperto, con accanto una fontana chiacchierina di acqua fresca nella quale, accaldati dopo la salita, si immergevano le mani sudate, affondando i polsi per abbassare la temperatura corporea. Per la sua esposizione a mezzogiorno godeva di primavere anticipate che scioglievano le nevi e permettevano alle prime viole di fiorire. La strada era erta e sassosa, quasi un viottolo fra le vigne di cui si conoscevano tutti i proprietari. Ora, con loro, sono morte anche le vigne. E si arriva in macchina, spogli di fatica e di antiche emozioni. Il verde di un tempo è roso dal grigio che ne cementa la base.
Quelle di allora erano passeggiate divaganti, abbinate a riti religiosi propiziatori, con canti che imploravano raccolti copiosi. In primavera, al mattino presto, serpeggiando in salita fino alla chiesa, dove il santo dispensava grazie a richiesta, prima collettive, in seguito individuali. A testimonianza della sua magnanimità vi erano le pareti ai lati della chiesa coperte di ex voto, quadretti trasudanti fede e devozione, dipinti alcuni su tavolette di legno e altri su tela. Questi ultimi, a confronto, sembravano di scuola raffaellita. Gli imploranti, inginocchiati, le mani giunte, guardavano verso il dispensatore di grazie che appariva in alto, sempre a sinistra, sorridente sopra una nuvola, con in braccio Gesù bambino e in mano un giglio. Gli uomini a capo scoperto, quelli sulla tavoletta di legno; quelli su tela, pure, in segno di devozione... però avevano accanto il cappello depositato su una sedia, ben visibile come segno di distinguo sociale.
La richiesta di grazia che prevaleva era relativa alla salute. Si potevano immaginare le epidemie quando vi erano più persone in un solo letto, a cui il pittore, digiuno di prospettiva geometrica e per la totale visibilità di tutti i malati, dipingeva la fiancata alzandola e creando così una precarietà di equilibrio dei componenti che lasciava immaginare l’aggiunta di una grazia preventiva.
Molte le raffigurazioni dedicate alla natività, allora ad alto rischio infettivo sia per la puerpera che per il neonato. Se il bimbo non presentava problemi di salute, il marito stava in piedi di fianco al letto e lo teneva in braccio fasciato a salame; se invece ad ammalarsi erano entrambi, stavano tutti e due a letto, con accanto il marito implorante. Le camere erano disadorne... Un po’ meno nei quadretti su tela, dove, oltre alla sedia, era ben visibile un comodino da notte e anche un tavolo.
Il costo del dipinto credo andasse a personaggio... Difatti nelle camere, in piedi non ve ne era mai più di uno (quelli allettati venivano pagati meno in quanto mezzobusto...).
Vi erano poi le cadute, dalle scale a pioli o dai tetti. Qualcuna dai dirupi... Per far capire la gravità del caso, incominciavano a dipingere sanguinamenti già a metà caduta, dove i personaggi erano rappresentati qualcuno addirittura con la testa o gli arti fasciati ancor prima di aver completato la rovinosa corsa.
C’erano anche i cavalli imbizzarriti, che grazie all’intervento di Sant’Antonio si fermavano a pochi passi da un uomo coraggioso e sacrificale che con le mani alzate frenava la bizzarria del galoppo. Qualche calesse ribaltato sembrava preludere alle prime auto uscite di strada, presumibilmente per imperizia del guidatore, essendo a quel tempo il traffico praticamente inesistente.
Tutti i dipinti recavano sul fondo il monogramma VFGR, ossia Voto Fatto Grazia Ricevuta. Poi sono è arrivato il tramonto anche per gli ex voto. Sono entrati in concorrenza i farmaci. La penicillina e gli antibiotici hanno decimato le richieste di grazia. A quelle per i problemi psicologici, rappresentate da un solo orante, ci ha pensato la psicoanalisi.
Accantono anche questo fra i miei stipati ricordi...



La correttezza

Oggi, 3 agosto, afa in sovradosaggio già alle 8:25 davanti all’ufficio postale, dove arrivo ansante per fare un vaglia. Mi piazzo davanti alla porta in attesa dell’apertura, ignorando per stupidità o sbadataggine la lunga fila di gente. Per logica, avrei dovuto collocarmi alla fine e non all’inizio della coda... E invece ho suscitato un coro innervosito di reclami, a partecipazione unanime, salito di tono quando, una volta aperta la porta, ho preso il biglietto di prenotazione numero cinque. L’ultimo aveva il quarantotto... A quel punto, visto che giustamente le proteste non si placavano, ho urlato forte: “Capisco di avere sbagliato... e per correttezza cedo il mio numero a uno degli ultimi della fila.” Alla parola correttezza, le proteste si sono ammutolite di colpo. E dopo un attimo di stupito silenzio, nessuno ha voluto più scambiare il suo numero con il mio.



Sulle onde della Radio

Più o meno sessantotto anni fa mi regalai la prima radio... Un avvenimento di incontenibile emozione. Prima di allora, qualche volta la andavo ad ascoltare con i miei da certi vicini di casa... benestanti. A me lo sembravano maggiormente in quanto la possedevano.
Era quasi sempre verso sera, per ascoltare Radio Londra. Loro abitavano al piano di sopra, e noi salivamo le scale col passo felpato da pantera rosa, già compenetrati in un clima di audace e pericolosa cospirazione.
Appoggiata a un muro c’era lei. Immensa, di legno biondo, ancora spenta, con alla base un mobile bar mai aperto. Una sola volta, per sbaglio... E in quel lampo riuscii a scorgere un’unica bottiglia di vermouth moltiplicata per mille da specchietti rettangolari che ne foderavano l’interno.
Veniva tolto il centrino ricamato a punto croce che stava sopra, a sostegno di due portaritratti (allora si chiamavano così...) che incorniciavano immagini di defunti. Ne ricordo uno, un signore con i baffi, con in testa un cappello Borsalino che immaginavo si togliesse con raccoglimento ad ogni inizio di trasmissione. Poi il padrone di caso l’accendeva. Il quadrante si illuminava. E noi con lui, nella speranza di buone notizie. Il tum-tum-tum dell’introduzione accomunava il battito cardiaco di tutti. La serietà era d’obbligo. Quando, alla solita notizia dei liberatori fermi a Cassino, la padrona di casa diceva che secondo lei, per avere un po’ di speranza in una fine, avrebbero dovuto cominciare ad avanzare anche solo di dieci centimetri al giorno, il marito la redarguiva sostenendo che “...su certe cose non si scherza”.
Quindi aveva inizio la sfilza dei messaggi cifrati... Li ascoltavamo tutti, per commentarli dopo. Ed erano dei più disparati, tipo “la mela è matura”: questo era per noi di buon presagio; “il gallo canta” ci lasciava perplessi... Mi è rimasto impresso il ricordo di uno di questi messaggi, “il cane abbaia”, sul quale ci fu una lunga discussione (sempre sottovoce, tanto per mantenere il clima...) e che secondo tutti noi avrebbe voluto significare che l’attacco finale era vicino. Il più erudito del gruppo, un generale in pensione parente del padrone di casa ed esperto di strategie militari, sostenne che in tal caso avrebbero detto “il cane ringhia”, perché se abbaia non morde... quindi non attacca. Questa sottigliezza ci convinse e ci rassegnò.
A guerra finita da un po’, con la radio tutta mia, cominciai a spaziare lungo distanze portate dalla musica o da notizie di un mondo che allargava la fantasia, fino ad allora circoscritta nella quotidianità di un piccolo paese di provincia. La tenevo accesa anche di notte... Ed è forse lì che è nata la mia insonnia, con il gracchiare prodotto dall’accavallarsi delle stazioni, che mi proiettavano in mondi le cui distanze perdevano realtà.



Amori di ieri e amori di oggi

L’altro giorno ero a casa di un’amica che ospita, per ragioni di studio, un nipote di diciannove anni, ragazzo carino e gentile... Arrivato con una sua coetanea bionda e minigonnata, i due si sono chiusi in camera a chiave ... per studiare. Ho immaginato, quando dopo un po’ si sono cominciati a sentire gridolini strani provenire da dietro la porta, quale fosse la materia che stavano... approfondendo.
L’imbarazzo della mia amica è durato poco. Ha liquidato la vicenda con una sola frase: “Meglio questo della droga...”.
Tornata a casa, mi ha raggiunto il ricordo del mio lontano allora, che mi è parso ancora più distante da un oggi permissivo e accomodante che toglie il gusto della fantasia trasgressiva.
Gli amori giovanili di quei tempi là erano problematici per mancanza di luoghi al riparo da sguardi giudicanti. Le macchine non c’erano ancora, in casa neanche a pensarci... D’estate gli incontri, quasi sempre platonici, avvenivano la sera nei prati, complice la luna che orientava l’albero scelto dalla coppia, sotto cui il trifoglio schiacciato contrassegnava quel luogo come occupato.
Si arrivava separati. Dovendo attraversare il paese, e per quanto si camminasse rasente ai muri, la coperta che si portava a turno faceva la spia di quale fosse la licenziosa meta.
Con il mio primo amore, che era un militare, come stravaganza anziché il trifoglio, una sera scegliemmo un campo di grano lì vicino. Le spighe alte e mature rendevano impervio il percorso per arrivare al centro del terreno, e la loro resistenza a flettersi per poter distendere la coperta fu pungente.
Il mattino successivo, con una telefonata al bar sotto casa, lui mi pregava di tornare nel luogo in cui eravamo stati la sera precedente... perché aveva dimenticato il giubbotto militare e non poteva lasciare sguarnita la caserma. Ritrovare il campo fu facile, ma il punto preciso... una vera impresa. Le spighe avevano ripreso conoscenza e si erano alzate a sentinella. Per di più, una falciatrice avanzava inesorabile nella sua opera di mietitura...
Non avevo scelta. Con grande vergogna chiesi al contadino se per caso avesse trovato qualcosa, o se dall’alto del trattore quel qualcosa si riuscisse a scorgere meglio. Si guardò attorno... Puntò lo sguardo e disse: “Se quello che cerchi ha i gradi e le stellette, sta a un metro da te, sulla destra.” Chi ne fosse il proprietario lo intuì un giorno che mi vide con lui al bar. Una fastidiosa e complice strizzatina d’occhio suggellò l’incontro.
Il freddo dell’inverno costringeva ad astinenze stagionali... Un mio carissimo amico e confidente era riuscito però a risolvere il problema.
Era costui di bellissimo aspetto... Una bellezza sopra le righe che, impastata con un’innata simpatia, ne faceva un soggetto unico, ambitissimo. Lui non aveva bisogno di gettare la rete: le ragazze, a gara, saltavano da sole dentro la barca, che nel suo caso era un furgoncino.
Con lui era impensabile qualunque forma di gelosia o fedeltà. L’intesa si instaurava con uno sguardo pieno di vita e di gioventù... e il gioco era fatto. Era quasi come salire su una giostra, felici e un po’ storditi una volta scesi ma con la speranza segreta – chissà? – che forse un altro giro sarebbe potuto capitare.
Si era diplomato da poco... La guerra era appena finita, e in attesa di un lavoro più consono ai suoi studi faceva il rappresentante di formaggi. Girava la provincia rifornendo i negozi dei piccoli centri, che allora avevano orari di chiusura serali liberi. A volte arrivava tardi, ma avendo dei giorni prestabiliti, i piccoli bottegai lo aspettavano sempre aperti. Per le loro vendite limitate non compravano mai una forma intera ma una piccola fetta, che grazie alla sua simpatia era sempre più grande del fabbisogno.
Finito il giro, fermava nel solito posto il furgoncino bianco con il nome della ditta scritto in blu sulle fiancate. Lo sportello si apriva sul retro: da lì caricava e scaricava la merce... e sempre da lì salivano le ragazze. Non essendoci i gradini, le più audaci appoggiavano prima le natiche e poi, con uno scatto e una risata, tiravano su le gambe. Ne uscivano euforiche, e con un salto allegro tornavano con i piedi per terra. Lui, sceso per primo, le aiutava e le aspettava tenendo in mano un pacchettino con dentro una fetta del loro formaggio preferito, un piccolo cadeau a conclusione della serata.
Aveva tracciato di ognuna, secondo il gusto degli assaggi, un inconscio profilo psicologico. Le più estroverse, allegre e dirette preferivano il gorgonzola; le pseudo-raffinate, la fontina; le più pratiche, la groviera. E il parmigiano le accomunava tutte...
Una volta fu attratto da una ragazza fuori dal suo giro stanziale e goffamente, non essendo abituato a corteggiare, la invitò a cena in un piccolo ristorante. La conversazione, mal gestita, languiva. Quando arrivarono i formaggi – e lì secondo lui la conoscenza si sarebbe approfondita –, lei li rifiutò con una smorfia di disgusto. Stupito e perplesso, in una sorta di transfert si identificò con loro: i formaggi erano lui. Quella smorfia senza ritegno lo aveva offeso. La storia finì lì.
Un giorno fermò il furgone sotto casa mia... Gli chiesi se, per curiosità, mi faceva dare uno sguardo dentro. Non ebbe difficoltà e mi aiutò ad entrare.
Il veicolo prendeva aria e luce da dei piccoli forellini laterali che delineavano le scritte sulle fiancate. L’interno non era alto quanto lui e lo costringeva ad abbassare la testa, mitigando un po’ la postura da conquistatore.
Ricordo perfettamente la coreografia surreale di quell’interno... In un angolo, quattro forme intere di parmigiano accatastate a due a due, una sull’altra, e coperte con una tovaglietta di lana di tutti i colori – dono di un’assidua frequentatrice? – lavorata all’uncinetto, formavano due puff bizzarri. Altre forme, mancanti in maniera asimmetrica di fette vendute, erano coperte di carta velina (il cellophane ancora non esisteva...). Sparse ovunque e arrotondate, creavano un inconsapevole concentrato di architettura alla Gaudí. Dentro uno scatolone, sul cui coperchio erano rimasti dei formaggini esagonali lucenti di carta stagnola, vi era una bottiglia di Doppio Kümmel (scomparso), una bottiglia di Triple sec (scomparso), una bottiglia di Prunella Ballor (scomparsa), una di Genzianella piemontese (scomparsa), il vermouth (credo sopravviva...), due bottiglie di Dolcetto (attualissimo ed esistente).
Una piccola liseuse color cipria e con il collo di cigno bianco, accuratamente dimenticata, copriva per terra una valigetta blu contenete un grammofono con un unico disco: da un lato Besame mucho e dall’altro In cerca di te, con l’indimenticabile refrain “Solo me ne vo per la città”. L’odore inebriante di mille formaggi stordiva e rendeva onirica la scena.



Noi, quasi estinti

Le giornate sono diventate convulse prima ancora di rendercene conto e hanno destabilizzato il metabolismo psicologico di noi persone anziane, criceti ansanti nelle loro ruote in eterna corsa, onnivore loro malgrado di notizie e proposte visive a ritmi frenetici, sull’orlo del rischio paradossale di rimanere travolte da chi ci precede, pena l’eliminazione. Giornali, cinema, dibattiti televisivi, telegiornali a go go, documentari vari... Sul tardi, assieme al televisore vorrei spegnere anche la mente, che per forza di inerzia va ancora avanti tentando invano di classificare la confusione subita. La visione di tutto ciò che accade in un giorno, sessant’anni fa avrebbe colmato la misura di un mese. Mi chiedo: ma qual è l’elastica capacità contenitiva del cervello? Vi erano forse delle sacche vuote, in attesa di mutamenti già predisposti a diventare genetici? E se il tempo avesse stazionato, i contenitori rimasti inutilizzati avrebbero forse fatto la fine dell’appendice che non si è mai saputo a che diavolo servisse? I giovani delle nuove generazioni forse nascono già mutati, con incorporata la tecnologia che ingloba automaticamente parte della ricchezza cerebrale. Ma noi, che facciamo tutto a mente penetrando nel nostro intimo, nudi di sostegni tecnologici... a noi, ci pensate? Vi prego, fatelo, e con generosità.



Tipi più o meno strani

Sono scomparsi i personaggi bizzarri, quelli che uscivano fuori dalle regole comuni. Le loro piccole e innocenti manie li rendevano una sorta di centro di curiosità e di confronto. Nei paesini come Boves erano conosciuti da tutti, e ciascuno tollerava le loro piccole stranezze. Con l’estinzione dei personaggi è scomparsa anche la categoria, le cui anomalie innocue sedate dagli psicofarmaci venivano imprigionate al loro interno in modo da arginare le manifestazioni visibili. Solo chi ha la mia età o giù di lì può ricordare alcuni di loro...
Uno di questi si chiamava il Rolu... Lo si vedeva solo quando la sua natura meteorologica lo spingeva a cantare attraversando le strade del paese. Il suo canto rauco e forte annunciava la pioggia, che puntualmente sarebbe caduta il giorno dopo. Era di media statura, tarchiato... Calzava grosse scarpe, sempre slacciate. Ogni tanto si fermava e si portava una mano dietro l’orecchio, a mo’ di conchiglia, per meglio sentirsi cantare. Durante i periodi di siccità tutti speravano in una sua apparizione, ma non avveniva mai: la sua serietà meteorologica gli impediva di bluffare. Non ricordo di averlo mai sentito cantare durante il periodo invernale... La neve non era di sua competenza.
Vi era poi una coppia, fratello e sorella; tutti e due minuti, di età indefinita. So poco di loro... Non parlavano mai con nessuno. Uscivano solo il giovedì. Difatti lui lo chiamavano Giuanin dal giòbia, Giovanni del giovedì.
Un altro grosso personaggio era Domenico. Lo chiamavano Mìnicu du Siru. Reduce della guerra del 1915-1918, durante la quale una pallottola tedesca gli aveva provocato un buco al centro del cranio, poi turato con una placca d’argento che, a seconda dell’umore, lui mostrava scostando i capelli folti e cespugliosi che lo nascondevano in parte. Non l’ho mai visto camminare... Andava sempre in bicicletta, una bicicletta da corsa con il manubrio basso e curvo. A volte parlava da solo... Parole che la pressione della placca rendeva incomprensibili. Alla fine della seconda guerra mondiale, durante la ritirata, s’imbatté in una pattuglia di tedeschi. Ebbe paura. Mollò la bici e si mise a correre. Lo fucilarono alla schiena, e questa volta la seconda pallottola tedesca non fallì. Crollò a terra con le braccia allargate, il viso riverso al suolo. Chi lo vide, riferì che la sua placca d’argento luccicava in modo sinistro...
Un altro che ben ricordo veniva ogni sabato, giorno di mercato, da Mlan-a, una frazione di Boves che dista dal paese meno di tre chilometri. Vendeva canestri di giunco che intrecciava lui stesso. Ne aveva di varie fogge e dimensioni, che infilava negli avambracci in egual misura, accentuando la camminata lenta da bradipo come lento era il suo parlare, difettoso, che gli impediva di pronunciare la a dopo la c: tra l’una e l’altra, lui ci infilava la i. Sicché cavagna (che vuol dire cesto...) diventava ciavagna. Non so qual era il suo nome. Tutti lo chiamavano Ciavagna e ciavagnette. Faceva grossi sconti alle donne, che in cambio gli permettevano di far loro una carezza... lenta, lentissima anche quella.
Un viandante si chiamava Güstu... Piccolo, minuto, camminava appoggiandosi a un bastone che lo sovrastava di molto. Assomigliava a uno dei sette nani, Cucciolo, invecchiato. Portava a tracolla una bisaccia con dentro, fra l’altro, pezzi di pane più o meno secchi ricevuti in elemosina. Poca roba teneva nelle tasche, troppo distanti dalla portata delle sue mani: erano posizionate sotto le ginocchia, attaccate a una giacca ricevuta in dono da qualcuno di statura normale che addosso a lui sembrava un cappotto. La sua prerogativa era il sorriso. Sorrideva sempre e ne elargiva uno enorme, in segno di ringraziamento, a chi gli donava qualcosa. Sorrisi così convinti e così larghi forse ora non esistono più.
Ricordo un barbiere a domicilio... Lo chiamavano Chiappetta, non so perché. Anche lui molto piccolo, ma non era un nano. Aveva la statura dell’onorevole Brunetta. Vestiva con un cappotto nero, lungo, che copriva le scarpe. Camminava in fretta, a piccoli passetti, dando l’impressione che anziché sui piedi si muovesse su delle biglie. Portava con sé una borsa a bauletto, simile a quella dei dottori; grossi baffi sproporzionati, a manubrio, come insegna del suo mestiere.
Un altro si chiamava Pulis... Si aggirava per i boschi quasi correndo. Era ombroso, non parlava mai con nessuno. Raramente si faceva vedere nel paese. Andava a elemosinare di casa in casa chiedendo, fra l’altro, se avessero da dargli una scarpa, non importava se destra o sinistra. Avendo entrambi i piedi, non ho mai capito se la richiesta fosse ridimensionata per non sembrare pretenziosa... Fatto sta che ne riceveva sempre un paio, che consumava in fretta per il suo incessante camminare.
Ricordo due guardie comunali, Maccari e Tomatis. Avevano la divisa nera, il cappello con la visiera. Non gli ho mai visto multare qualcuno... Tutt’al più redarguivano quei ragazzini che andavano troppo veloci sulla bici o che tiravano in maniera sconsiderata palle di neve. Ogni tanto – com’erano lontani ancora i mezzi di comunicazione... – con una trombetta di ottone si fermavano ad ogni incrocio, e dopo aver segnalato con due note stridenti la loro presenza, comunicavano la caduta e l’avvenuta morte di qualche bovino, la cui carne il Comune metteva in vendita a prezzi dimezzati. Era l’unica occasione per mangiarla non solo una volta alla settimana, di domenica.
Conservo un piacevole ricordo di una signora che metteva ad ogni festa del patrono delle frazioni una bancarella piena di leccornie per bambini. Erano dolci poverissimi, distesi su un telo bianco... Liquirizia di legno, piccolissime pasticche colorate, biscotti di varie forme, tutti durissimi. Uno in particolare, di forma quadrata, centimetri sei per sei, si chiamava la pustetta. Era una specie di galletta militare, ma più sottile. Impossibile affondarci i denti. Si succhiava. Era il più venduto: costava meno e durava all’infinito. L’unica cosa molle era una specie di schifosa liquirizia arrotolata come un nastro. Tutto quel ben di Dio si chiamava rümiage; parola, credo, derivata dal verbo ruminare... perché rendeva quell’idea. La proprietaria, una donna di mezz’età di nessuna bellezza, si chiamava Giuana di basin (Giovanna dei baci). Non so se l’arte fosse nel darli o nel riceverli... In un caso o nell’altro fatico ancora a immaginarla.
Ho ben presente la figura lunga e magra di un uomo, credo nato nel 1902. Il suo mestiere era quello del talparo (da noi si dice trapuné...): metteva le trappole negli orti e nei giardini per dare la caccia alle talpe che, scavando lunghe gallerie, mangiavano le radici degli ortaggi. Veniva pagato a numero di prede catturate, di cui vendeva poi la pelliccia. Dedito all’alcol, per questa ragione camminava barcollando. Lo chiamavano Papabun-a (che significa pappa buona...), un nomignolo affibbiatogli da bambino e in seguito mai toltogli. Aveva, come tutti allora, una bassa scolarizzazione che lui avrebbe sicuramente desiderato più alta. Si intuiva da come, appoggiato al muro per un maggiore equilibrio, recitava la Divina Commedia. La conosceva tutta a memoria. Ne declamava i canti con voce impostata, rispettando con riflessione le pause; la declamava per sé e da solo se l’ascoltava, godendo del suo sapere.
Vi era allora un solo veterinario, il dottor Riba. Nessuno ricorreva a lui per animali di piccola taglia. Cani e gatti, se si ammalavano, o morivano da soli o guarivano. Si tenevano gli uni per fare la guardia e gli altri per acchiappare i topi. Cure e convalescenze artificiose li avrebbero indeboliti e resi inadatti al loro compito. Veniva interpellato solo per le mucche, quando i parti si prospettavano difficili. Per i cavalli aveva un grosso concorrente, imbattibile nelle diagnosi e nelle cure: si chiamava Riciu. Aveva vissuto vent’anni in Argentina, fra i gauchos, cavalcando e dormendo sempre con i cavalli. Divideva tutto il suo tempo con loro. Ne conosceva l’indole, le avvisaglie di malori e le cure adatte da intraprendere. Non vi erano lauree in veterinaria all’altezza della sua esperienza sul campo argentino.
Ricordo con visione netta un carrettino ambulante che nei giorni di mercato si posizionava al centro della piazza. Era un carrettino con le stanghe, tra le quali, per tirarlo, non vi era l’asino ma alternativamente un uomo e una donna. Erano fratello e sorella; si chiamavano Santina lei, e lui Pin et Toiu. Toiu era il padre, che ricordo vagamente. Portava gli occhiali... abitudine rara allora. Ognuno gestiva la propria miopia convivendo con una nebbia sfumata. Toiu aveva lasciato in eredità ai figli la sua attività di chincaglieria ambulante; tanta merce esposta su quel carretto che non so con quale meccanismo venisse allungato tanto da diventare un emporio. Vi si trovava di tutto: richiestissimi i lucidi da scarpe confezionati da loro stessi; i lacci, i pettini, le spille di tutte le fogge, le mutande invernali di lana, elastici, unguenti, le montature degli occhiali tutte uguali, così come le lenti della stessa diottria... A ridosso del Natale, su grandi cartoni colorati vi erano da ritagliare le figurine del presepe: tante le pecore, di varia grandezza, tutte con la stessa espressione attonita nel guardare un Gesù bambino grande quanto i genitori Giuseppe e Maria. Ci si rivolgeva a loro anche per le foto da incorniciare. E lì i tempi diventavano infiniti... Le fotografie dei battesimi si potevano ritirare quando si portavano quelle della prima comunione, che a loro volta venivano da questi consegnate al momento della ricezione di quelle del matrimonio, la cui incorniciatura si soleva sollecitare finché tutti e due i coniugi erano ancora in vita.
C’era in paese un sarto famoso, detto l’Americano; l’Armani di Boves, il più caro ma anche il più bravo in assoluto. Erano donne quelle che confezionavano abiti sia maschili che femminili, e il manufatto veniva fuori ibridato. Lui solo, dal taglio perfetto, dava alle giacche una struttura maschile ed elegante. La lunga, accurata lavorazione e le prove infinite, assieme alla sua innata competenza, le rendevano un capolavoro. Accompagnavo mio fratello alle prove, interminabili. Cominciavano con l’evidenziare le anomalie fisiche, che erano sempre un braccio più lungo dell’altro, una spalla più alta, il torace troppo fuori o troppo dentro, la schiena o troppo dritta o troppo curva... Naturalmente la sua bravura di sarto ortopedico avrebbe eclissato ogni visibile imperfezione. Faceva indossare la giacca e con strattoni vari la faceva aderire al corpo. Quindi si allontanava. Chiudendo gli occhi a fessura ne calcolava le modifiche. Poi, fendendo l’aria con un gessetto, si avvicinava con passo claudicante (lo era davvero...) e disegnava sulla giacca strane righe, dritte e incrociate, il cui significato era noto solo a lui. Il suo carattere non era dei migliori... L’aveva reso tale quell’handicap e l’esperienza, credo, negativa nel Sud America, da dove era tornato senza aver trovato la fortuna che sperava. Da una piccola porta socchiusa si intravedeva il laboratorio con le lavoranti, alle quali veniva imposto il silenzio. Ogni tanto però si sentiva provenire, quando lui era in sala prove, un brusio, alla cui comparsa mostrava segni di fastidio. Una volta, a questo si aggiunse una timida risata... Lui, irritato, aprì la porta. Sparì per un attimo e subito dopo si udì il rumore di uno schiaffo. In quel silenzio tombale, riapparve e fissò l’appuntamento per la prova successiva. A distanza di anni posso ben dire che la sua bravura non avrebbe ancora concorrenti. Per le feste natalizie, un cartoncino recitava: “La sartoria Bellino manda alla sua affezionata clientela gli auguri di buone feste”. In fondo a sinistra, più in piccolo, si poteva leggere: “P.S.: qui si parla spagnolo”. A Boves, allora, nessuno parlava neanche l’italiano, ma solo il dialetto.



Non le ho dimenticate

Molte esperienze accumulate regalano emozioni postume, a volte più intense di quando sono state vissute. La distanza, il tempo, avvolgente e non più determinante, ne delineano i contorni in maniera nitida, meno aspra, più morbida. La mente, depositaria solerte e custode, le fa affiorare dando loro una freschezza non prevista e le fa rivivere con stupore e nostalgia da un passato lontano che la memoria ci impedisce di seppellire. Emozioni, statiche nella realtà di allora, che ora la fantasia stempera nel ricordo attuale con visuali consolatorie benevolmente alterate per far tornare i conti che la vita non sempre ha fatto quadrare.



La fede perduta

Non ho molta fede, anzi quasi niente. Sono una cristiana poco praticante. Vado in chiesa due o tre volte all’anno, per la continuità di un rituale impostomi da bambina, di cui conservo ancora ricordi nitidi.
Ogni primo venerdì del mese vi erano gli obblighi confessionali dei peccati veniali e mortali. Il dubbio circa la loro appartenenza mi metteva sempre in grande crisi. Non conoscendone i confini temevo di scivolare involontariamente in quelli mortali, con il terrore di perire il giorno dopo e finire all’inferno. Nell’incertezza mi tenevo sul vago, orientandomi verso quelli della cui venialità ero certa: “Ho detto bugie, ho copiato il compito, ho disobbedito ai genitori...”. Tant’è che verso la fine del mese, se ero in arretrato con queste trasgressioni, dicevo bugie, disobbedivo... per accumulare materiale e non presentarmi alla confessione a mani nude. Il sacerdote (sempre lo stesso...), dietro la grata, riconoscendomi e per non perdere tempo, mi chiedeva: “Come l’altra volta?”. E poi mi congedava subito con la penitenza: tre Pater, tre Ave e tre Gloria.
La comunione, poi, per me diventava una tragedia, con la messa alle sei e trenta del mattino, a digiuno. Un po’ per questo, un po’ per l’odore dell’incenso, io che ero lunga lunga, gracilina, vivevo quell’appuntamento in uno stato di pre-svenimento, con l’angoscia dell’ostia che, avendo io il palato alto e arcuato, ogni volta si andava ad attaccare proprio lì. Non potendomi aiutare a risolvere il problema neanche con la punta del dito mignolo (essendo questo impuro...), arrivavo a casa senza aprire bocca per timore di una fuga del santissimo corpo di Gesù... che andava poi a finire all’interno del mio corpo con il primo cucchiaino di uova sbattute che mia madre, conoscendo il problema e vedendo il mio pallore in concorrenza con quello dell’ostia, mi faceva trovare ogni volta.
Vi erano poi i fioretti in favore della Madonna, veri e propri divieti mascherati da rinunce volontarie, piccoli desideri non sempre spogliati di frustrazioni. Avrò avuto otto o nove anni... Chiesi ad una suora, suor Priscilla, se tutti quei fiori concimati di rinunce sarebbero mai arrivati alla Madonna. Mi rispose: “Vedi, cara, è una cosa simbolica.” Ed io: “Ma cosa vuol dire simbolica?” E lei: “È come qualcosa che anche se non è di fatto avvenuta, è come se lo fosse.” “Ma allora”, dissi io, “se simbolicamente non mangio il gelato e invece lo mangio, è uguale?” Seccata, ricordo benissimo, replicò: “Non è la stessa cosa, perché tu rovesci il contesto.” Chiesi allora cosa fosse il contesto... Affermò che la mia arroganza necessitava di una confessione extra... Ignorai l’extra, e al primo venerdì del mese, nel malloppo dei peccati aggiunsi la domanda di chiarificazione sul contesto. Lo chiesi sottovoce, tanto che dovetti ripetergliela due volte, sempre con il timore di non uscire dal veniale. Dopo un attimo di anomalo silenzio, la risposta fu: “Ma tu mangi abbastanza? Lo prendi sempre il cucchiaino di olio di fegato di merluzzo? A scuola te lo danno... gratis?” Mi esentò dalla penitenza, convinto che la mia debolezza fisica, che stava attaccando quella mentale, non avrebbe retto.
Quand’ero piccola il Natale si festeggiava senza alberi, c’era il presepe. Babbo Natale... troppo americano, troppo umano e terreno. I suoi voti, per i meritevoli di doni, non avrebbero dato affidamento. Ragion per cui, Gesù bambino che stava in alto, con una visuale più ampia, forte della sua infallibile equità, ne era l’incaricato più sicuro e affidabile. Ma così non fu. Ne ebbi conferma un anno, credo nel 1933. Una mia compagna di classe, figlia di benestanti, arrogante e malmostosa, ricordo che portava scarpe di vernice nera lucidissime, con cinturino allacciato sul malleolo grazie a un bottoncino. Ogni volta che andava alla lavagna si udiva uno scricchiolio quasi musicale, e una finta discrezione attirava la scontata invidia di tutte le allieve. Tutte tranne una: la sua povertà era tale da non permetterle neanche l’invidia. Era la più piccola della classe. Gentile, sempre disponibile, leggermente claudicante. Arrossendo, raggiungeva la lavagna di corsa, per abbreviare il rumore sgraziato e aritmico degli zoccoli neri opachi, con la punta di metallo che ne rallentava l’usura.
Ebbene, a Natale, Gesù bambino portò in dono alla prima, fra le altre cose (è un ricordo che ho impresso...), una penna d’avorio corredata di pennino a forma di Torre Eiffel. Era leggermente più lunga del normale, e la sommità, allargandosi a spatola, aveva al centro un piccolo forellino: appoggiando l’occhio si vedeva la Madonna di Pompei. Troppo, anche il ritratto della madre... Alla seconda, che per avvalorare la richiesta di un paio di scarpe fece anche una novena supplementare, portò due mandarini. La delusione fu tale che non trattenne le lacrime. Per consolarla le raccontai, con poca fede e molta fantasia, che Gesù bambino si era distratto e che forse, in cielo, gli angeli, per meglio camminare sulle nuvole, mettono i loro piedini nelle bucce dei mandarini. Non la convinsi... Disse che anche in quel caso non sarebbero andate bene, perché lei portava il trentaquattro... e i mandarini erano troppo piccoli.
Fu forse in quel lontano Natale del ‘33 che la mia fede si arenò... non so perché!



Un altro che se ne va

Fra poco un altro anno se ne andrà. Il tempo è galantuomo: sempre puntuale. Alla mia età vorrei lo fosse un po’ meno e ogni tanto ignorasse il contratto con la vita, facesse delle soste. Non tanto per prendere fiato lui, ma per darne a chi rincorre. Un tempo meno galantuomo e un po’ carogna, oggi mi farebbe comodo. Auguri a tutti...



Un “piccolo” rimpianto...

Un tempo occorrevano anni prima di rimpiangere quelli già trascorsi... Ora la scadenza del rimpianto è mensile. Si ha nostalgia del tempo appartenuto, nel ricordo di quando c’era la possibilità e la forza di venire in aiuto di noi stessi... e non ne avevamo bisogno. Ora che ci vorremmo vicini, come allora non siamo più.
Si rimpiange il tempo perché si è consapevoli della sua rara concessione. Prima, molto prima, si era convinti che la sua magnanimità nel concedersi fosse infinita... Il prenderne atto richiede un forte supporto di fatale e faticoso ottimismo.
Molti amici non ci sono più. Mi è rimasto di ognuno qualcosa, troppo poco in confronto a quanto si sono portati via.



Addio, Mario...

L'attore Mario Scaccia Oggi è morto Mario Scaccia. Con lui seppellisco cinquant’anni della mia vita, condivisa reciprocamente assieme alla sorella Nietta, deceduta due mesi fa. Non vi è stato dolore o gioia in tutti questi anni senza la presenza di entrambi... Il loro non esserci più renderà la rassegnazione invasa dai ricordi triste e molto faticosa.













Le veneri in pelliccia

Vado spesso ai mercatini rionali... Quello del mio quartiere è ormai diventato un mercatone. Ci vado rilassata, senza l’impegno di un obiettivo circoscritto e mirato, come quando entrata in un negozio e preventivato il costo, la necessità dell’acquisto prevale sulla fantasia e spegne l’eccitazione per il medesimo.
Al mercato è un’altra cosa... ci vado con il gusto di “tanto non mi serve nulla, ma guardo”. E semmai fossi indotta in tentazione da qualcosa che non mi serve, il mio budget non deve superare mai i cinque euro. Come l’ultima follia: un piccolo scaldino elettrico, naturalmente cinese, da tenere in grembo come scaldamani. È morbidissimo e ha il colore rossiccio di un gatto, tanto che ogni volta mi pare di sentirne le fusa... o il miagolio, quando la spina rimane inserita troppo a lungo.
Cammino lungo, tra esposizioni di oggetti nuovi e vecchi provenienti anche da paesi lontani. Chilometri e chilometri di collane, bracciali, anelli, con perle e gemme coloratissime il cui luccichio fa pensare al bottino del pirata Morgan dissotterrato in qualche isola caraibica. Una curiosità da primate attira lì lo sguardo di molte donne alla ricerca di qualcosa che ne possa ingannare la provenienza (almeno secondo chi lo indossa...).
Ma ciò che mi provoca maggior stupore sono gli stand pieni zeppi di pellicce di tutte le fogge, indossate un tempo solo in occasioni di estrema sicurezza per timore dei furti. L’usura non ha fatto in tempo a intaccarle, preceduta dalla moda, che prima le ha rese lo status symbol di una classe borghese o aspirante tale, scomparsa o imbastardita, per poi rinnegarle del tutto. Recano sul pelo la bellezza intatta di un troppo poco vissuto. Ed ora eccole appese, l’una accanto all’altra, consapevoli di una dignità ormai inutile che avvolge il nulla, spoglie di un’ignota appartenenza che toglierà loro anche le parvenze del lignaggio di nascita.
In un altro stand vicino ci sono quelle di minor pregio, ma ugualmente belle; la diversità dei colori, della foggia, la lunghezza del pelo... avendo vissuto più a lungo sul fuori moda e sperimentato qualche passaggio di povertà non ne temono un altro. Il capannello di acquirenti, composto per lo più da russe o moldave, badanti che tornando per le feste nel gelido nord ostentano a buon prezzo un’opulenza illusoria; oppure ragazze giovani, molto carine, che le comprano come strumento di lavoro notturno per ripararsi dal freddo che qualche copertone in fiamme non basta a vincere.
E così, dopo anni di clausura dentro gli armadi, scopriranno con stupore che in fondo c’è una vita più movimentata a confronto con la precedente, alquanto noiosa. Le pellicce superstiti mancanti all’appello si possono vedere ancora qua e là ai concerti pomeridiani: sostituiscono la carta d’identità della proprietaria, con i capelli inutilmente camuffati, del colore di quando la pelliccia era anch’essa nuova e giovane.



Il tempo rimosso

Qualche tempo fa, una signora anziana (forse più giovane di me...) stava trafficando con il carrello della spesa che si era incagliato fra due auto parcheggiate troppo vicine e che le rendevano difficile il passaggio. La notò un signore sui cinquant’anni, che si propose gentilmente di aiutarla. Il rifiuto quasi sdegnato lo lasciò perplesso ma non stupito. E rivolto a me, che casualmente gli stavo accanto, disse: “Vede, signora, ogni volta che una persona non più giovane si trova in difficoltà non posso fare a meno di accorrere in suo aiuto. È più forte di me... Forse immaginando che quando arriverà il mio turno qualcuno mi porga la stessa attenzione che io ora ho per loro, anche se non sempre l’intenzione è capita. E ogni volta ci rimango male.”. Gli risposi: “Non si scoraggi... Capita anche a me. Uno agisce d’istinto nel cercare di dare aiuto...”.
Solo ora mi rendo conto di non essermi immaginata nella persona bisognosa di aiuto ma in quella che lo dà. Tale fu la mia convinzione anagrafica del momento, che sono certa averla trasmessa anche al mio interlocutore, tanto da portare avanti riflessioni su solidarietà fraintese.
Ho invertito le parti... Forse il tempo, che mi è compagno da molto, giustificherà queste mie discrepanze. Non lo volevo ignorare... Ero in buona fede. O forse no?



I funerali di una volta

Ai miei tempi si moriva in casa, raramente negli ospedali. Anche perché gli ammalati è in casa che si curavano. Ed erano a volte malattie lunghe, dolorose e spossanti per chi li accudiva. Nottate estenuanti, specie quando il congiunto era prossimo alla fine. Quando questa sopraggiungeva, la stanchezza fisica era tale da attutirne il dolore e trasformarsi in anticipata rassegnazione.
Era usanza non lasciare sola la salma, neanche di notte: si doveva vegliare pregando. Veniva allora in soccorso una donna che, prezzolata, suppliva i famigliari sgranando e bisbigliando all’infinito il rosario. A volte, all’alba la si trovava addormentata con il capo appoggiato sul letto del defunto, in un silenzio... di tomba.
Questa donna, delegata ai dolori altrui, la ricordo bene. Piccolina, capelli grigi, gonna lunga alle caviglie, si chiamava la caporala. Ignoro l’origine del soprannome... Non sorrideva mai. Sul viso l’espressione della perenne tristezza, per non sfiduciare i clienti morituri.
Non so, forse in casa si toglieva la maschera e per equilibrare la postura dell’emotività dolorosa si faceva grandi risate... Gli attrezzi del suo lavoro erano il rosario e la voce, che doveva modulare a nenia dolorante quando seguiva i funerali, segnandone il tempo e il passo, con le dovute pause quando si scomponeva il seguito.
I funerali erano di tre categorie, come i treni: prima, seconda e terza classe, in segno di distinguo sociale. I benestanti, i ricchi, che erano al minoranza della popolazione, sceglievano la prima classe: il carro tirato da quattro cavalli con i pennacchi. Il cocchiere, con in testa il cilindro, di mestiere faceva il carrettiere e si chiamava ‘ché du frà (Michele del frate). Aveva in mano una frusta con la canna dipinta d’oro. Sotto la minaccia di questa e grazie anche alla sua maestria, riusciva a rendere lenta e composta l’andatura dei cavalli. Si giustificava il seguito del lungo corteo che seguiva numeroso il carro – e che nulla aveva mai avuto a che fare con la salma... – col fatto che, a cerimonia terminata, sul sagrato della chiesa, in virtù dell’anima santa, veniva donata una pagnotta. La cerimonia veniva chiamata la duna (la donazione).
Quelli della seconda classe avevano al traino due cavalli, senza pennacchi. E il cocchiere non portava più il cilindro ma un cappello ordinario. La salma apparteneva alla media borghesia. Artigiani, commercianti, noti proprio per i contatti quotidiani con la gente. E di loro si parlava durante il tragitto con benevolenza... una media andatura e una buona partecipazione. Il chiacchiericcio copriva la litania del rosario.
L’ultima, la terza categoria, era quella dei poveri ed era a carico del Comune. La bara di legno grezzo e con le maniglie di ferro. Un solo cavallo tirava il carro che il solito cocchiere, ma con l’abito da lavoro, faceva andare quasi al trotto per sbrigarsi prima. Con il seguito scarsissimo che lo seguiva quasi correndo... Era strano come i poveri, che erano tanti, seguissero in pochi il feretro. Forse rassegnati e coscienti che la miseria non si seppellisce mai.



Rintocchi interni

Guardo l’orologio per eccesso di puntualità e a conferma di ciò che già so, con lo scarto di pochi minuti. La percezione del tempo l’ho acquisita con lui stesso. Non ho posseduto orologi fino all’età di quattordici anni (comprato con i primi guadagni...).
L’orologio grande del campanile scandiva le ore, con la campana che, affiancata, le batteva ogni quarto, giorno e notte. E così il tempo, anziché guardarlo, io ho imparato a sentirlo. Perché è così che si impone ed è così che lo vivo.



Le inquietudini di una cassetta postale

Ogni volta che nell’androne del palazzo, per abitudine, guardo la cassetta della posta, ricevo uno sguardo complice di desolazione scusante dalla fessura introduttiva, tenuta aperta a forza per ingoiare ciò che non la riguarda e per cui non era nata. Prima, molto tempo prima, accoglieva missive il cui contenuto – triste o allegro, riflettuto e impegnato, emozioni forti, bianco su nero – custodiva con un’emozione tutta sua.
Ora è lì, in fila con le altre, a confidarsi rimpianti pieni di contenuti livellati dalle medesime scadenze di bollette da pagare o da proposte per acquisti di sprofondanti divani o scatole promozionali di piselli surgelati. Si rianimano periodicamente a ridosso delle elezioni, ingannate da lettere personali, con l’indirizzo su busta chiusa, sigillata. Il mittente è omesso, per timore di uno scarto immediato e per stimolare l’istinto di apertura – il cui contenuto promette inesistenti soccorsi, favori amicali, bugie sfacciate –, che avviene nell’illusione, fra le tante, di trovarne una vera, una di quelle di una volta, tutta scritta a mano, compreso l’indirizzo.



Tinte e-stinte

Non vorrei più parlare di moda, pur rimanendomi la nostalgia e il ricordo di ciò che è stato. Ora ciò che maggiormente mi stupisce sono i colori inclusi nella moria: prima erano parte della natura e alla natura si affiancavano. In primavera gli abiti avevano colori timidi: il rosa, l’azzurro e il blu. Con l’estate era un’esplosione di gialli, di verdi... primeggiava il rosso dei papaveri ormai estinti, con quella loro tinta accesa e sfacciata, segno di allegria stagionale.
Le ragazze giovani prediligono tutto l’anno i colori ombrosi e vedovili: il nero, al massimo il grigio, eccezione per il blu appassito dei jeans, come un vessillo di ostentata e perenne tristezza che farà anche chic ma genera malinconie autunnali su primavere punite nei colori.



Maledette vacanze!

Le vacanze invernali di molti anni fa esistevano solo per una piccolissima parte di persone: i ricchi che avevano casa in montagna, qualche benestante che si concedeva un paio di settimane in albergo e i più, che con gli sci in spalla partivano in treno al mattino e ritornavano la sera. Di viaggi all’estero non si sentiva parlare, forse neanche esistevano... Per i ragazzi, non andare a scuola era già di per sé una vacanza. Così come anche quelle estive, delle quali non ho un buon ricordo.
Erano le mie vacanze forzate... il distacco dalla famiglia, già spaccata dalla morte di mio padre, avvenuta quando avevo sette anni, e parzialmente ricomposta con il rientro di mia madre in casa dei nonni e di una zia nubile. Gruppo matriarcale che doveva, compatto, fronteggiare mio nonno, persona severissima, di una moralità patologica, intransigente e cattolica.
Andava spessissimo in chiesa... Negli ultimi anni, la sordità gli faceva confondere i rintocchi della campana che batteva le ore con quella che annunciava la messa. Si metteva il cappello e la mantella nera e s’incamminava verso la funzione religiosa. Rientrava torvo e deluso, bofonchiando che la religione scarseggiava anche in chiesa e che questa stessa non era più di parola.
La mia magrezza allora preoccupava tutti. Il medico disse che un po’ di mare mi avrebbe fatto bene. Mi mandarono con mio fratello in un istituto sulla riviera ligure. Lui odiava il mare, e quando era l’ora di fare il bagno si nascondeva dietro le cabine. Ogni volta la ricerca durava più a lungo e cresceva il timore che una volta o l’altra non l’avrebbero più trovato e così avrei perso anche lui. Tornai a casa traumatizzata e senza l’aumento di peso sperato.
L’anno seguente, con il persistere della mia magrezza, decisero che un ambiente familiare sarebbe stato più consono. E mi portarono in Francia, dagli zii. Lui era fratello di mia madre... Uomo bellissimo, ma in casa non aveva voce in capitolo. La moglie, zia Madeleine, aveva due gambe storte che, poggiate su tacchi altissimi, sembravano ancora più arcuate. Sfoggiava un sorriso enorme che evidenziava un canino incapsulato d’oro (allora era di moda...). Pur essendo relativamente giovane, aveva una qualche patologia che le procurava un continuo tremolio delle mani. Quand’era in cucina, era tutta una musica, a seconda dell’oggetto con cui armeggiava: le percussioni, quando spostava la batteria delle pentole; argentina quando in bilico su di un vassoio vi erano dei bicchieri riempiti a metà per timore di un travaso; la caduta sistematica di qualche piatto completava l’esecuzione dell’orchestra.
La figlia, mia cugina Josette, più grande di due anni, comunicava poco con me anche se parlavo francese. Lei era obesa... e vicine, ciascuna rimarcava silenziosamente l’anomalia dell’altra. I problemi opposti creavano una base di inconsapevole invidia, specie a tavola, dove, per diete antagoniste, ognuna invidiava il menu dell’altra.
Il giorno del mio compleanno, come regalo, la zia Madeleine fece confezionare, di suo gusto (che era orrido...), un abito di taffettà celeste pieno di volant, con dietro un enorme fiocco. Una rouche alla base del collo come scollatura ne evidenziava la fragilità, a sostegno del viso quasi scomparso sotto la frangia di capelli che un nastro annodato in bilico sulla testa spingeva verso gli occhi, che vidi sgranati e smarriti quando mi specchiai. Due grissini lunghi e magri sbucavano da enormi maniche a sbuffo. Mi venne in mente subito un portafrutta liberty a più piani che tenevamo in casa e dove raramente c’era la frutta, ma in cui ognuno appoggiava momentaneamente ciò che d’ingombrante aveva fra le mani. Così addobbata mi trovò mia madre quando, proprio il giorno della festa, arrivò per saggiare il mio irrobustimento. Mi tirò fuori dall’abito scrollandolo e verificando che nessuna briciola di me vi fosse rimasta dentro. Mi riportò a casa, e per evitare delusioni, questa volta non mi pesarono nemmeno, decidendo che il mare non mi si confaceva.
Nel frattempo, Mussolini (non tutto era da buttare...) promosse le colonie elioterapiche per meglio irrobustire la gioventù e farla crescere sana per la patria, il duce e il re. E una di queste colonie era in una frazione del mio paese... Ci si arrivava dopo una camminata di venti minuti.
Partenza alle sette del mattino, a digiuno. La colazione a base di caffelatte si consumava sotto il portico della chiesa medioevale della Madonna dei boschi. Non prima, però, della cerimonia dell’alzabandiera, che saliva piano piano fino alla cima dell’asta al canto ripetuto di Viva il duce. Ehia, ehia, allallà. Già dalla prima nota del canto, un po’ per il digiuno, io incominciavo a impallidire; pallore che diventava cadaverico quando la bandiera raggiungeva la cima. Il sintomo ripetuto preoccupò gli insegnanti, che mi esonerarono con la seguente motivazione: “E che sia emotività patriottica?”. Che si spegneva alla prima tazza di caffelatte versata dalle scodellanti.
La cosa tragica erano le docce due volte alla settimana, montate al centro del campo maschile. La gran parte dei bambini non aveva mai fatto una doccia. Ci si lavava dentro una tinozza: d’inverno in casa, riempita d’acqua calda, e d’estate veniva lasciata al sole in cortile. Ci si infilava dentro. Il risciacquo con l’annaffiatoio non aveva la forza dello schiaffo della doccia, che nessuno conosceva.
Ricordo il primo giorno... Si entrava in coppia. Due maschietti un po’ titubanti, ma intrepidi e coraggiosi come li voleva il duce, al primo scroscio gettarono la spugna e l’audacia; incominciarono a strillare come aquile, spaventando chi avrebbe dovuto succedergli. Questi, vedendoli uscire in lacrime e scomposti, scapparono di corsa per tutto il campo, che era grande e recintato.
Fuggirono tutti da quel misterioso inferno. Impossibile convincerli... Vennero convocati i genitori, e fu faticoso persuadere anche loro che quel sito non avrebbe lasciato conseguenze salutari permanenti.
Le vacanze si ripeterono per tre anni, incluse le sabbiature con la sabbia di riporto. Incominciai molto adagio a prendere un po’ di peso. Contemporaneamente seguito da un allungamento che non finiva mai, fino a raggiungere un metro e settantasei...



L’edera dell’abitudine

Quando si è giovani le abitudini, per scarsa manutenzione, non trovano spazi, non riescono a collocarsi. Siamo noi a impedirglielo con il tempo a ritmo veloce e precedendo la loro presa di posizione. A quel punto interrompono la rincorsa, riservando la loro invasione per il dopo.
Ora che non sono più giovane da molto tempo, me ne rendo conto di quanto siano infiltranti anche quelle piccole; prendono pian piano possesso della nostra vita e la condizionano a nostra insaputa. Ogni giorno si legano con collanti alla quotidianità che il tempo ha rallentato, dando loro vantaggio. Si propongono, anzi si impongono, sempre diverse. A volte le vorremmo subito per placare situazioni che non si possono cambiare... e loro arrivano tardi e si depositano su macerie. Altre non le vorremmo affatto... Ma loro, incuranti del nostro desiderio, si presentano per gestire il nostro vivere.
Ne ho avuto totale conferma giorni fa... Abito al nono piano, in un piccolo appartamento con terrazza. La scorsa estate ne ho chiuso un angolo, al quale accedo dal salotto. Da quest’angolo ho una visuale quasi totale di Roma. Vedo, tra le altre cose, la bandiera sulla torre del Quirinale che indica la presenza del Presidente; a cielo terso, anche i Castelli romani, quando a sera si accendono le luci e sembrano piccoli presepi sparsi in un tempo lontano e inconsapevole di se stesso. Un lungo specchio sull’unica parete non a vetro ne raddoppia la visuale, imprigionando a volte il tramonto infuocato di Monte Mario. Tutta questa scena concentrata in quattro metri quadri...
Immaginavo di trovare lì una maggiore concentrazione stimolante per scrivere le mie fantasie letterarie. Ma non avevo fatto i conti con lei: l’abitudine. Il suo subdolo affiancamento, che il tempo non ha ancora reso abbastanza maturo, mi impedisce il possesso totale e psicologico del luogo. Tant’è che in questa piccolissima isola panoramica, seduta a tavolino, non riesco a scrivere neanche una parola. Prevale la timidezza che mi rende ospite di me stessa, in attesa che le radici dell’abitudine crescano e mi diano una rassegnata stabilità.



Deliriofonia

Una cena in casa di amici per festeggiare un doppio compleanno... Nove adulti e due ragazzi. Tutti muniti di cellulari lasciati aperti per presunte rintracciabilità e per gli arrivi degli auguri ai festeggiati. Qualcuno ne aveva due, uno dei quali con il numero segretissimo, come agenti della CIA. Suonavano a intermittenza con squilli timidi e discreti, altri più potenti e arroganti. La suoneria che aveva scelto uno dei ragazzi era l’abbaiare di un cane, che tutti trovarono molto divertente.
La cena si protrasse a lungo, dovendo inglobare le varie pause telefoniche. Loro, i cellulari, appoggiati ovunque ma tutti a portata di mano, con forme diversificate e molto appiattite, di ogni colore, con prevalenza del color metallo. Undici persone, tredici cellulari! Tutti pancia a terra, come grossi insetti primordiali, ventriloqui di voci sconosciute. Nell’assurdità del clima ho immaginato che cosa sarebbe loro accaduto, lasciati soli, accesi e incustoditi per una notte, tutti in una stanza, pronti ad accoppiarsi per analogia sonora, tranne quello abbaiante, destinato a rimanere single, non trovando riscontro al richiamo; il giorno dopo, una stanza piena di microscopici cellulari, dalle forme più strane, con suoni nati da loro stessi e a noi incomprensibili, cellule imprevedibili e invasive, in parte originate dall’uomo prima di venirne sommerso e travolto. Fantasie? E chi lo sa?

Post scriptum... Non tantissimo tempo fa esisteva il duplex: un solo telefono per più famiglie e con più componenti. Se ne divideva il canone. E gli apparecchi, uno per ciascuno, erano grandi, imponenti, stabili, attaccati al muro, fissi in un angolo un po’ isolato e discreto. Le telefonate, per educazione verso l’altra famiglia, erano brevi e concise. Lo stretto necessario... Tutto il resto si diceva a voce, guardandosi negli occhi con emozioni che nulla avevano di tecnologico. Altri tempi... che sono stati i miei.



Il sobrio mangiar d’un tempo

Non si commettevano peccati di gola... perché mancava l’opportunità. Il piatto base erano le minestre. Quante! Specie la sera... La minestra di riso al latte, quella di riso ed erbette (verso la primavera), la minestra di pasta e patate, l’odiata minestrina se qualcuno non si sentiva bene, imposta per solidarietà a tutta la famiglia, che sperava in una rapida guarigione dell’impositore, che oltre a star male si sentiva anche in colpa. Il minestrone di verdure era il più gradito. Veniva condito con un pezzettino di lardo che andava a chi, per buona sorte, capitava nel piatto (del colesterolo non si conosceva l’esistenza...). Era come una lotteria per gourmant... Quando non capitava a nessuno, perché rimaneva sul fondo della pentola, tutti gli sguardi si incrociavano nel silenzio generale da sfida e si chiedeva il bis del poco rimasto perché il boccone ambito giaceva lì nelle acque basse, in cui la preda, con un po’ di abilità nel maneggiare il mestolo, era più facile pescare.
La carne solo la domenica, il venerdì polenta e merluzzo... Allora costava poco. Ora, che ufficialmente si chiama baccalà, si è montato la testa ed è quotato in borsa... quella della spesa, giocando al rialzo... quello dei costi.
Una leccornia (della quale ho nostalgia) erano i fagioli al forno, quello del fornaio, dal quale si portavano per la cottura dentro l’ula (una pignatta di coccio). Erano conditi con la codina o le costole del maiale, che si compravano nel negozio di alimentari, dove l’animale veniva alternamente macellato; azione segnalata agli avventori appendendo sull’uscio del negozio la vescica del medesimo che, gonfiata soffiando dentro una canna di bambù, oscillava pallida e fragile come un pallone da rugby nato prematuro, bianco e anemico.
Il vino a tavola non mancava mai. Era quello dell’ultima torchiatura e veniva fuori debole, privo di provocazioni eccitanti... solo dissetanti. Consapevole della sua mancanza di gradi, forse non riusciva neanche ad arrossire. Difatti era di un colore rosa mattone. Il vino imbottigliato era solo per le grandi occasioni.
All’alimentari, ai bambini, due volte alla settimana, veniva loro somministrato per volere del Duce, perché crescessero forti e arditi per la patria, l’olio di fegato di merluzzo, il cui sapore disgustoso invadeva gli aliti e si diffondeva poi nell’aula scolastica impregnandola di odore di pescheria che vende pesci pescati una settimana prima e tenuti fuori dal frigo... che allora neanche esisteva. Non ho mai capito perché, con quel sobrio mangiare, ci dovessimo anche purgare almeno una volta al mese... Tiravamo fuori la lingua, che per i genitori era sempre sporca e ne giustificava quindi la somministrazione. Il tutto avveniva al mattino molto presto. Lo rivedo quel cucchiaio, colmo di olio di ricino, denso e puzzolente, da deglutire tutto d’un fiato. E a ruota, la tazzina del caffè per fugare la nausea, che aumentava quando si vedevano le tracce dell’unto precedente lasciate dalle labbra che formavano piccoli occhi gialli, come quelli del gatto, che dal fondo nero della tazza guardavano stupiti e beffardi. A chiusura del rito vi era come premio una caramella, a scelta: alla menta o alle erbe alpine.
Avevo delle amiche invidiatissime che pur seguendo alimentazioni più ricche subivano purghe più gentili: la magnesia San Pellegrino, che era anche un po’ frizzante. Dentro una scatoletta di latta marrone, con sopra la figura del frate col bastone, che con l’aria fra il bonario e il minaccioso faceva capire che era pronto ad adoperarlo qualora non si fosse verificato l’esito sperato. L’intera giornata era dedicata al purgatorio (in tutti i sensi della parola...), perché continuava con il digiuno, interrotto dal brodo di cipolla che completava con il risciacquo il ciclo del lavaggio budellare. Ora che si mangia molto molto di più, ci si purga molto molto di meno. Anzi, mai.



Il foro boario delle vanità

Ho visto casualmente una trasmissione su Canale 5 che mi ha lasciato sgomenta. L’ho seguita per qualche puntata, stupita per l’irriverenza contraffatta di socievolezza nei riguardi delle persone anziane, categoria cui appartengo. Donne non più giovani, altre decisamente anziane, e uomini più o meno della stessa età che cercano un compagno o una compagna. Il quadro è pietoso, a volte spudorato, nel mettere a nudo desideri di velleità amorose macerate in solitudini mal gestite che tentano di truccare, quasi inconsapevolmente, il ciclo della vita spogliando e imbellettando l’evidenza.
Le sessantenni-sessantacinquenni con l’espressione da adesso o mai più... Indossano abiti adatti alle nipoti, che lasciano scoperte carni un tempo appetibili e che ora, scongelate, hanno perso sapore. Il labbro superiore, come va ora, rifatto a becco d’anatra e lo zigomo a palla di biliardo. Si intravedono, dagli spacchi audaci delle gonne, calze autoreggenti che sostituiscono la malizia con lo sforzo coraggioso di sorreggere pesi per i quali non erano state tarate. Molte con gli stivali, scosciate, alla D’Artagnan, di cui hanno anche il piglio quando entrano nell’arena per conoscere l’uomo ideale, che dovrebbe essere gradevole, gentile, benestante, rassicurante, protettivo e con i gusti collimanti. Tutto in una sola persona! Naturalmente, semmai questo essere multivirtuato dovesse esistere non si troverebbe lì.
Al primo colloquio se ne rendono conto immediatamente, ma non mollano subito. Disposte ad accantonare qualche esigenza, provano a recedere da certe pretese per tentare incontri brevi fuori dal set, cene al ristorante a base di conferme delusive, puntualmente spiattellate pubblicamente senza ritegno alla puntata successiva.
Le donne più appetibili, ambite da uomini traballanti, sono quelle che di professione facevano le infermiere... Le persone più anziane coperte di abiti velati alla Salomé per camuffare l’infierire degli anni su corpi che cinture sbriluccicanti evidenziano giri di vita megagalattici... Sorridono a uomini porcellanamente dentierati che trascinano, per meglio conoscerli, in balli languidi, artrosici e scricchiolanti. Vorrebbero, dopo vite ormai vissute, condividere solitudini calcificate. Ma scoprono alla fine che non sempre l’unione le esorcizza... a volte le ingigantisce. Vogliono emozioni che il loro immaginario sollecitato dalla trasmissione produce. Prevalgono le vedovanze... E giustificano l’inconscio tradimento alle buonanime con il vuoto lasciato, artefice di grandi solitudini da dividere con qualcuno.
Gli uomini hanno all’occhiello due rose: una bianca da porgere alla dama scelta per simpatia e una rossa in caso di assenso. Tutto avviene a colpo d’occhio, che non avendo mai le giuste diottrie crea grandi confusioni. Tra il donarle e il riprenderle, le rose appassiscono come gia lo sono i possessori. Tutta questa patetica schermaglia priva di ironia, forse negli intenti dovrebbe divertire gli spettatori a loro spese. Ma ciò non avviene... La partita rimane aperta: sotto a chi tocca.



Réclame

Qualsiasi giornale, anche il più serioso, qualsiasi rivista più o meno frivola, qualsiasi quotidiano, anche il più politicizzato, non possono fare a meno, tra una pagina e l’altra, di qualche modella che reclamizzi il prodotto firmato. Il che fa già pensare che, oltre la firma, l’analfabetismo sia totale...
Ci si mette un po’ per capire qual è l’oggetto proposto. In primo piano c’è lei, l’anoressica, con le sue gambette storte, a quarto di luna, lo sguardo torvo e cruento, le occhiaie profonde da sopravvissuta a orge globali consumate in sanatorio. La postura contorta, che senza grazia porge dalle pagine, con il braccio devitaminizzato, una borsetta, la fa immaginare piena di bollette da pagare. Ma chi la compera? Giusto una masochista...
Altre pagine, stesso genere di modella sofferente che reclamizza un paio di scarpe con la suola a più piani, il tacco a palo e mille cinturini che imprigionano un piede martoriato. La smorfia agonizzante della modella ci convince che lei, di scarpe, porta il numero quarantadue. E lì, sulla pagina, indossa invece un trentotto scarso... Difficile sorridere con ai piedi quel modello martoriante che nessuno si stupirebbe di trovare in un museo delle torture, vicino alla vergine di Norimberga.
Le modelle non sorridono più... I sorrisi si sono persi, sostituiti ormai da sguardi calcificati, grugnosi, e smorfie da paresi facciali. Migliorano i tempi, ma si abbassano gli umori, spogli di speranze comunicative.
A me, che ho un’età avanzata e un’opulenza di ricordi, viene in mente quando, in tempi peggiori, si sorrideva molto di più. Nel 1938 vi erano giornali con pagine intere piene di sorrisi. Aperti, smaglianti, reclamizzanti un dentifricio che si chiamava Durban’s, per il quale un concorso ne sceglieva il migliore, premiandolo con la somma di cinquemila lire... che allora corrispondeva a una buona dote.
Quelle bocche giovani, aperte, comunicavano speranza in tempi bui, carichi di timore e di guerre. Il dentifricio, che allora era serio, non contrabbandava virtù inesistenti. Prometteva solo biancore e pulizia. Io che allora ero una ragazzina, guardavo quelle foto con invidia, consapevole che, qualora maggiorenne, non avrei mai potuto proporne una mia, avendo gli incisivi sporgenti come quelli dei castori e tutti gli altri allineati in maniera anarchica. Adoperavo però ugualmente il dentifricio Durban’s puntando sullo sbiancamento smagliante. Ora i vari dentifrici miracolosi, dalle pagine dei giornali, li reclamizzano i medici in camice bianco, che (secondo loro, dopo lunghe ricerche...) esaltano poteri inimmaginabili contro qualsiasi tentativo di attacco da parte della carie. Il profumato, vietante impurità, sempre secondo loro scende in gola e oltre rinfrescando l’alito e spandendosi a chilometri di distanza. La descrizione di quelle bocche vulcanicamente sterili fa sospettare che vi sia già in agguato una seconda fila di denti, nelle retrovie, pronti alla sostituzione immediata di cedimenti geriatrici della prima fila. Il tutto senza sorridere mai.



Gli attori della politica

Da molto tempo la politica non mi coinvolge più... Mi sono spogliata di ogni emozione, persino di quella negativa, con la convinzione che nessuna critica sarebbe appropriata al degrado che quotidianamente viviamo.
Ignorare i politici a distanza dal voto... Diamo loro più spazi di intervento, ed è proprio ciò che vogliono. Sto facendo il loro gioco, lo so. Ma ho finito la riserva di reazioni; mi è rimasto il rimpianto e la nostalgia di tanto tempo fa, quando ideologie giovanili unite e mille speranze spingevano a partecipazioni rivelatesi poi illusorie. Non rimpiango nulla di allora e ne giustifico la buona fede. Quando le critiche erano mirate riuscivano a centrare l’obiettivo, anche con un fucile a pallini; il bersaglio oggi si è talmente allargato da farne un baluardo resistente a qualsiasi arma d’attacco.
Pessimi attori, pagati da noi per una recita che avremmo voluto più impegnativa. Appena saliti sul palco politico, forti del nostro avallo, recitano da cani una farsa insensata, confusa: litiganti per il ruolo del primo attore che tutti vorrebbero. Ignorano i fischi senza rendersi conto che la platea piano piano si sta svuotando. Capovolgendo ogni regola, costringono gli spettatori a uscire di scena.



La parrucca

Del quotidiano leggo tutto tranne lo sport, che non pratico più, e la finanza, che non capisco e non mi interessa. Leggo anche con macabra curiosità i necrologi... con la speranza di non trovare il mio.
Oggi mi è saltato agli occhi un cognome appartenente a un esponente politico di tanto tempo fa, del quale l’estinto era parente. Automaticamente ho pescato nella memoria, e nel reparto 1968 ho ritrovato la scheda.
Avevo a quel tempo un’amica carissima, Maria Letizia, molto graziosa e con un viso – credo – non mutato da quando aveva l’età di dieci anni, un viso da bambina su un corpo da adulta. Amava circondarsi di amici che facevano sfoggio di lei esibendola durante un aperitivo a Via Veneto o a Piazza del popolo; erano comunque sempre amici di una certa notorietà.
Lei mi diceva: «Sai... quando entri in un certo giro, uno ti presenta l’altro e io mi tengo in contatto un po’ con tutti perché nella vita non si sa mai».
«Non si sa mai cosa?», chiedevo io.
«Una buona conoscenza può sempre servire, può aprire molte porte».
Non capivo quali porte, in quanto la sua era, a dir poco, spalancata, avendo un marito un po’ più anziano, con un’ottima posizione economica, il quale, viaggiando spesso all’estero, la lasciava molto sola dandole la sensazione di esserlo veramente e spingendola alla ricerca di qualcosa che già aveva ma che evitava: una maturità male accettata.
Una mattina, verso mezzogiorno, mi telefonò pregandomi con insistenza di accompagnarla al ristorante dove era stata invitata da uno dei suoi amici importanti. Aveva accettato dicendo che avrebbe portato anche un’amica, così la mia presenza avrebbe frenato le avances che presumeva le sarebbero state indirizzate.
«Non posso...», risposi seccata della sua certezza sulla disponibilità delle persone.
«Ti prego...», supplicò impostando la voce da regresso infantile.
«Ho i capelli in disordine...», dissi.
«Dai... mettiti una parrucca».
Erano gli anni in cui la parrucca era molto di moda... Ne avevo una, così mi lasciai convincere e andai all’appuntamento che era alle tredici a Piazza Euclide, non lontano da casa mia. Mi avviai a piedi e arrivai contemporaneamente a Maria Letizia, che, carica di sorrisi, posteggiò la macchina in un angolo della piazza che attraversammo per raggiungere lui che aspettava dal lato opposto. Durante il breve tragitto mi disse che era il cugino di un noto politico della DC... Lo abbracciò con grande familiarità , lo baciò sulla guancia, fece le presentazioni...
Era un ometto piccolino, insignificante, con dei baffetti bene in mostra per accentuare la somiglianza con il suo famoso cugino. Salimmo sulla sua macchina, una macchina bianca, lucidissima come una bottiglia del latte, piena di cornetti, santini e manifestini delle passate elezioni.
Il ristorante sulla Cassia era uno di quelli ben frequentati che tanto piacevano a Maria Letizia; difatti, appena entrata, salutò con enfasi due signori di mezza età che stavano seduti in un angolo della sala, i quali si alzarono per baciarle la mano, compensati da una scarica dei suoi migliori sorrisi. I camerieri, evidentemente, conoscevano il nostro accompagnatore, perché venendogli incontro lo fecero accomodare insieme a noi al suo “solito tavolo”.
Maria Letizia, scorrendo il menu, consigliava i piatti più costosi; ordinò il vino di una marca francese che non conoscevo e lo sottolineò imponendone l’annata con la sicumera di chi di solito paga il conto.
Tra una portata e l’altra chiesi all’uomo quale fosse il suo lavoro. «Lavoro per mio cugino», mi rispose dando per scontato che sapessi chi fosse.
«Sono il suo braccio destro... Anche lei fa politica?».
«No».
«Beh, ho un ruolo secondario ma indispensabile alla politica. Vede, mi occupo di pubbliche relazioni a svariati livelli...», replicò.
«Del tipo?», gli chiesi.
«Mi gestisco i lavori e i loro tornaconti, le raccomandazioni e così via...».
Intuii ciò che Maria Letizia aveva ingenuamente capito da un pezzo e vidi nelle pupille di lui lo stemma della Democrazia Cristiana.
«È sposato?», domandai.
«Lo sono stato, ma la cosa non funzionò e ottenni subito l’annullamento dalla Sacra Rota», rispose.
«Di solito sono provvedimenti che, se si ottengono, vanno per le lunghe...», replicai. Socchiuse gli occhi e con uno sguardo a fessura, classico di chi sostituisce la furbizia all’intelligenza, fece con la mano un gesto rotatorio come a dire «...ma tra me e il Vaticano ci sono solidi rapporti!».
Verso le quindici lasciammo il ristorante e nel rientrare in macchina, aperta la borsetta, mi accorsi che nella fretta di uscire da casa avevo dimenticato le chiavi. Un altro paio di riserva le avevo presso una mia vicina che rientrava dal lavoro non prima delle diciassette e trenta, mentre Maria Letizia doveva correre all’aeroporto a prendere il marito. Provai lo smarrimento che provo anche adesso, ogni volta che ciò accade: la sindrome dell’apolide!
Venendomi in aiuto, il nostro accompagnatore mi propose di andare a casa sua a prendere un caffè per ingannare l’attesa. Non avevo molta scelta oltre ad aspettare in qualche bar, essendo quello un orario in cui tutte le persone che conoscevo erano al lavoro.
Abitava nel quartiere Prati, vicino a Piazza dell’Unità, un quartiere con palazzi del primo ‘900, residenza da sempre di una stabile borghesia; appartamenti molto grandi per le famiglie numerose di una volta.
Entrammo nel suo appartamento molto buio che mi costrinse a socchiudere gli occhi per sfumare il contrasto con la luce di fuori. Superato l’impatto, vidi un corridoio lunghissimo con porte che si affacciavano da ambo i lati; in fondo, una debole luce filtrava da una finestra che presumibilmente si affacciava su un cortile interno; la luce non si espandeva, rimaneva ferma, un po’ come quando ci si trova nella galleria del Colle di Tenda, in cui l’angoscia claustrofobica si dissolve solo quando si scorge la flebile luce della fine.
Mi fece accomodare nella stanza che stava di fronte alla porta d’ingresso, dove un divano e due poltrone stile littorio formavano il salotto. Il resto dei mobili scuri finto rinascimento costituivano la sala da pranzo. Veniva da pensare a tavolate parentali in occasione di festività, tavole imbandite da cibi a lungo cucinati... Alle pareti, quadri di antenati dentro cornici per di più ovali, come si usava nell’Ottocento; nessuno con una parvenza di sorriso ma con sguardi sorpresi che esprimevano biasimo per la mia presenza.
Da una delle tante porte sentii provenire un rumore.
«Ma c’è qualcuno?», chiesi.
«Ah, sì... è Giarabub... il mio cane... Ora gli apro la porta e lo faccio entrare...», rispose.
Venne fuori un vecchio bastardino di colore grigio. Non so se lo fosse diventato con gli anni che dovevano essere parecchi o lo fosse originariamente: un occhio tutto bianco per via della cataratta gli impediva la visuale completa durante il percorso verso il padrone, che raggiunse infatti lentamente. Si accoccolò vicino a lui movendo a fatica la coda e dimostrando una scarsa felicità.
«Vedi, lui ha diciotto anni ma è ancora un cane con un’intelligenza formidabile, riesce a fare con la zampa il saluto fascista...», disse. Lo spronò quindi a esibirsi: il povero cane ci provò per ben tre volte, poi cadde all’indietro senza riuscirci. Lo giustificò dando la colpa all’artrite. Poi disse che abbaiando riusciva a pronunciare “Viva il Duce”: gli ordinò di farlo con la voce impostata del gerarca, poiché questa volta non erano ammessi fallimenti. La bestia, con quell’unico occhio spaventato emise un guaito.
«Beh... evidentemente non è giornata...», dissi.
«Come no! Forse non sei stata attenta... Non ha proprio abbaiato “Viva il Duce” ma ha comunque detto “A noi!”», rispose stizzito.
Il cane, stressato, senza alcun movimento della coda si sdraiò su di un tappeto e non si mosse più, desiderando forse di morire per liberarsi di quel padrone che per riprendersi dalla delusione propose di bere un bicchiere di champagne che teneva in frigo.
Lo raggiunsi in cucina pensando che avesse bisogno di aiuto: stava scotendo rabbiosamente la bottiglia il cui tappo, uscito oltre la metà, non riusciva a saltare. Con un ultimo scossone partì a razzo colpendo una pentola di rame appesa alla parete, con l’assordante rumore di un gong che echeggiò come in un santuario tibetano. Contemporaneamente lo champagne, con irrefrenabile irruenza, uscì a fiotti innaffiando tutta la mia parrucca; poi lui deviò maldestramente la bottiglia indirizzando su di sé il getto che, ancorché agonizzante, riuscì a bagnargli tutta la camicia.
Tornammo in salotto e ci sedemmo sul divano per  bere ciò che era rimasto dello champagne: due bicchieri scarsi.
Cercai a tatto di aggiustarmi la parrucca che mi provocava uno strano fastidio. Lui intanto, con scarsa convinzione, tentava qualche timida avance. Mi sottrassi con la scusa di dover fare una telefonata per avvertire la mia vicina di lasciare le chiavi sotto lo zerbino... Mi accompagnò nella sua camera da letto, dove sul comodino da notte vi era il telefono. La camera, che doveva essere stata dei suoi genitori, era molto grande e sul comò vi era un lumino acceso davanti a due fotografie; tutto intorno, mille fogli sparsi ovunque assieme a vari attrezzi da ginnastica. Il letto matrimoniale aveva una coperta di cotone bianco fatta all’uncinetto che troppe lavate avevano accorciato, mentre le frange, divenute più rade, non riuscivano più a coprire i piedi del letto, assottigliati dalla tarme al punto che una più colpita aveva come protesi due mattoni.
Nel frattempo si erano fatte circa le diciassette e prima che io uscissi, guardandomi dal basso all’alto, mi disse: «...in fondo tu mi intimidisci con quell’aria distaccata e militaresca». Militaresca?
Appena rientrata in possesso delle chiavi e con esse della mia vera identità, giunta all’ingresso del mio appartamento mi sono guardata allo specchio: la parrucca aveva ai lati, sotto i finti capelli, due “linguette” che avrebbero dovuto essere posizionate sulle tempie ma che, durante il trambusto dello champagne, si erano spostate una sulla fronte e l’altra sulla nuca, come se indossassi una feluca. La somiglianza con l’ammiraglio Nelson era impressionante!
Oggi con la lettura del necrologio ho riesumato il ricordo di questo episodio, e insieme a un “De profundis” spargo le ceneri e lo riseppellisco per sempre.
P.S.: se vi interessa sapere che fine ha fatto Maria Letizia, fatemelo sapere.



La ricetta

Nei giorni dei vari pagamenti caotici (IRPEF, IMU, TRISE, TARI, TARES, TARSU, MOD. 740, canone TV, ecc. ecc.) sono caduta in confusione totale. La mia parte deficitaria in fatto di numeri è riemersa intatta, non contaminata da complicati e faticosi calcoli per interpretare e conteggiare.
Ho deciso così di rivolgermi al CAF. Quando sono arrivata stavano distribuendo i numeretti: a me è toccato il numero 60, mentre chiamavano all’appello il numero 5! Mi sono seduta in rassegnata attesa, stimata in non meno di due ore. Vicino a me, una donna sulla cinquantina che prima avevo visto litigare con un signore per la priorità del bigliettino. Era elegante o per lo meno alla moda, con stivali al ginocchio e jeans di marca; la parlata con forte accento romano faceva presupporre la provenienza da quartieri periferici. Iniziò subito a dialogare, più che rivolta a me, con se stessa. «Ma guarda un po’ se uno pe’ paga’ deve pure perde’ tempo...». Ebbi la malaugurata idea di intervenire: «Signora, tanto vale aver pazienza... non abbiamo alternative...».
Il mio italiano privo di accenti romaneschi creò in lei un attimo di perplessità. Giusto il tempo di comporre mentalmente una miscela linguistica, che iniziò lo sfogo verbale: «Vede, signo’, qui al posto mio ce doveva esse’ mi’ marito. Ma lui invece sta dando il bianco alla cucina der fratello che è un cretino; più che cretino, un debole, succube de mi’ cognata che se dà arie da gran signora... come nun se sapesse che viene da ‘na borgata! Fa la pretenziosa, li sordi nun le bastano mai... E mi’ cognato, forse perché è piccoletto e lei invece porta la quinta...». Io pensai che si riferisse alla quinta elementare... ma considerando il soggetto forse alludeva alla quinta di reggiseno.
Proseguì: «Pensi che l’ha portata persino a Hong Kong... lei ci voleva andare solo per il gusto di poterlo raccontare. Il viaggio era organizzato dalla Coldiretti... perché mi’ cognato c’ha ‘n po’ de terreno e ‘na vigna, anche se lei dice de esse’ ‘na latifondista. Io manco so che è... Lei lo sa?».
«Sì...» risposi «sono quelli che possiedono molto terreno e lo fanno lavorare da altri».
«E te pareva?! Pensi che da quel viaggio c’ha portato due vestaglie, per umiliarci... perché sa benissimo che mio marito non la porta e in casa sta sempre in canotta. Ma noi pe’ facce vede’ superiori, una sera che vennero da noi a cena... Ah, a magna’ da noi ce vengono sempre volentieri perché lei cucina da schifo, io invece co’ passione. Lei, signora, l’amatriciana come la fa?».
«Io, veramente...» tentai di dire, ma non riuscii a finire la frase e lei incalzò: «...dopo le do la ricetta». E riagganciò il discorso di prima: «Pe’ farla breve, la sera che vennero da noi, per educazione c’infilammo le vestaglie e mentre eravamo affacciati in attesa che arrivassero, entrò mio figlio... po’rello. Se spaventò, pensò d’ave’ sbagliato appartamento... Nun c’aveva riconosciuti, visti de spalle. Sulla vestaglia c’erano due draghi enormi ricamati in oro e altri colori che partivano dar culo e arrivavano fino ar collo, co’ tanto de lingua rossa che sputava foco...».
Esausta, schiacciata da quella valanga di confidenze, mi alzai dicendo che si era fatto troppo tardi e che sarei tornata il giorno dopo.
«Me sa che anch’io farò così...», disse lei. «Così domani le do la ricetta dell’amatriciana e le racconto il resto».
Sfuggii al seguito andando al patronato dell’ACLI e attesi il mio turno su una seggiola, guardandomi bene che fosse isolata e vuota in un angolo.



Gli scomparsi

Non ci sono più le mele di stagione, rosse e lucide, senza una ruga. Un’etichetta di plastica nasconde stagioni passate e ne rileva solo la provenienza. Oggi mangiando una mela ho osservato meglio l’etichetta che, come una carta d’identità, esibiva: nome proprio Mela Melinda, provenienza Val di Non, data di nascita inesistente. In un fondo nero su oro vi era anche un numero, 4015. Forse è il numero del frutteto di concentramento dove, fra vari esperimenti per creare una qualità selezionata più forte, è nata lei, la mia mela.
Non ci sono più i pomodori con il profumo... di pomodoro. La modifica è arrivata anche all’interno, alterando il contenuto con disegni geometrici di colore rosa-biancastro.
Non c’è più l’Idrolitina del dott. Gazzoni, che ci coinvolgeva ritualmente nella creazione di bollicine dopo vari capovolgimenti della bottiglia.
Non ci sono più le caramelle di erbe alpine che facevano concorrenza a quelle di menta, che hanno vinto rimanendo sul mercato.
Non c’è più la scatoletta esagonale della Magnesia S. Pellegrino, quella che aveva la figura del fraticello con il saio marrone e il bastone, nella postura di chi è in cerca di erbe purgative.
Non ci sono più i fiordalisi che tingevano di azzurro i prati lasciando spazio ai papaveri e creando fantastiche combinazioni di colori.
Non ci sono più le lucciole che, come stelle semovibili, la notte percorrevano il cielo.
Non c’è più l’odore del mosto che d’autunno, nei paesi, impregnava l’aria, e chiudendo definitivamente l’estate ci inebriava un poco.
Non ci sono più le trote grigie punteggiate di rosso, nate spontanee, che per prudenza e timore naturale di essere catturate nuotavano vicino ai sassi per trovare più facili nascondigli.
Non ci sono più le caramelle Mou, che gommose si attaccavano al palato prolungando il sapore del cappuccino.
Non ci sono più gli abiti che aggiungevano fascino a chi già ne aveva e ne regalava a chi ne era sprovvista.
Non c’è più sul tram la figura rassicurante di chi controllava il biglietto e a volte perfino salutava; è stata sostituita da controllori che salgono come agenti della Gestapo, creando panico e ansia anche a chi del biglietto è in regolare possesso. Gli sprovvisti che non hanno denaro a sufficienza per il pagamento della multa vengono fatti scendere per andare incontro al plotone d’esecuzione!
Non c’è più il carrettino del gelataio che con pochi gusti, forse anche in maniera poco igienica ma con ingredienti naturali, con il campanello del manubrio avvisava della sua presenza: con un sorriso di benevola intesa aggiungeva un’ultima palettata di fragola che, su di un cono già colmo, miracolosamente si teneva in equilibrio.
Non ci sono più le ricamatrici che lavoravano, con mani leggere come farfalle, biancheria intima di seta color écru, la quale a contatto con la pelle ne faceva un tutt’uno respirando insieme. Erano corredi che duravano tutta una vita... e qualche capo intatto rimaneva in eredità e, mai indossato, moriva in fondo a qualche baule.
Molte cose non ci sono più... Non c’è soprattutto il codice d’onore a cui, un tempo, si dava forse troppa importanza mentre ora troppo poca.



L’amica venezuelana

Maria Letizia dovette a malincuore lasciare l’Italia e seguire il marito in Venezuela, dove era stato definitivamente trasferito. In quel periodo l’edilizia era, in tutto il paese, in piena espansione e lui, che costruttore lo era già, lì ampliò con successo la sua attività.
Per creare una società secondo le leggi del Venezuela c’era bisogno di un socio locale che doveva possedere almeno il 52% delle azioni, e lui il socio lo aveva già trovato in un uno dei viaggi precedenti: un nobile discendente da una grande famiglia di origine spagnola, molto conosciuto e di gran peso nell’alta società e nella finanza locale.
Don Felipe Hernandez... ecc. ecc. De La Fuente era un tipo di bell’aspetto, con un sorriso largo e accattivante sotto due baffetti neri. Curatissimo nel vestire, indossava sempre vestiti di lino bianco con la camicia celeste o in alternativa color castagna, come alternato era il nastro del panama portato sui capelli neri brizzolati alle tempie, perpetuando l’immagine degli incalliti conquistadores. Quella totale porzione di fascino gli serviva per avere facile accesso agli alti poteri della politica, come una chiave del cui possesso ognuno è a conoscenza, ragion per cui si aprivano le porte prima che la chiave si infilasse nella serratura. L’accesso a quelle stanze voleva dire generose concessioni di appalti da parte del primo ministro di allora, Carlos Andrés Pérez.
Don Felipe aveva alle spalle parecchi divorzi con donne di alto lignaggio, con le quali continuava ad avere ottimi rapporti. I divorzi in Venezuela non sono quasi mai tragici: il clima e gli infiniti ed abbondanti gin tonic li rendono più lievi e allegri. Don Felipe ora aveva una donna, giovane, molto bella, di nome Flores, che appariva solo quando necessitava; una figura femminile come accessorio indispensabile, insieme alle varie onorificenze con le quali si medagliava il petto dello smoking quando partecipava ai ricevimenti di gala presso le varie ambasciate.
Con un intermediario di quel livello e l’abilità lavorativa del marito di Maria Letizia, le commesse statali si moltiplicarono a dismisura. Maria Letizia non ebbe spazio per nostalgie italiane; la sua sete di conoscenza, alimentata da vanità infantili, lì era molto appagata. La seguiva don Felipe, su consiglio del marito, per impedirle sconfinamenti in ceti inadeguati.
La incontrai a Caracas mentre ero ospite di amici, erano i mesi di dicembre e gennaio. Mi diede appuntamento all’Hotel Tamanaco, che allora era l’albergo più importate della città; al bordo della piscina si ritrovavano uomini di affari di tutto il mondo e di tutte le razze, essendo il Venezuela produttore di petrolio. Lì rividi Maria Letizia. La trovai cambiata... Aveva bevuto più di un gin tonic (ma, di norma, tutti bevevano molto...), era come stordita da una giovinezza che non le apparteneva più ma che l’alcool le faceva rivivere intatta. Con gridolini di gioia si dimostrò felice di rivedermi. Ci sedemmo appartate, non prima di aver ordinato a un ossequioso cameriere due gin tonic... uno anche per me. Mi raccontò la vita che faceva lì. L’esibizionismo straripava dalla sua capacità di contenerlo. «Vedi...» mi disse «io a Roma avevo sempre bisogno di qualcuno che, in caso di necessità, mi potesse dare una mano. Qui, data la mia posizione, si è capovolta la situazione: ora sono gli altri che si aspettano qualcosa da me». Quella confidenza inaspettata mi fece capire la sua esigenza ossessiva di avere sempre bisogno di qualcuno o di qualcosa, anche quando già la possedeva.
La sua era una patologia che aveva origine nell’infanzia, di cui aveva sempre rifiutato di parlare e da cui, anche fisicamente, non era mai uscita. I piedi con le punte convergenti all’interno, il viso che dopo un ritocco dal famoso chirurgo plastico brasiliano Pitanguy nell’intento di attenuare le rughe le aveva un poco bloccato l’espansione del suo famoso sorriso, la cui plasticità lasciava leggermente scoperti gli incisivi come i denti da latte di una bambola di porcellana degli anni ‘20, con la testa agganciata per sbaglio su di un corpo che non le apparteneva. Ero un po’ frastornata e le chiesi d’impeto: «...ma tu sei felice?». Mi rispose: «...mai completamente: se lo fossi smetterei di cercare di esserlo e mi annoierei moltissimo».
Dopo queste affermazioni contraddittorie andammo a raggiungere un gruppo di amici, ai quali mi presentò come “l’amica italiana”. Uno di questi, il classico petroliere texano con il cappello a falde all’insù e al posto della cravatta un cinturino di cuoio con un consistente smeraldo. Doveva essere sulla settantina, ma cercava invano di dimostrare cinquant’anni; la pancia, che esigeva uno spazio adeguato, straripava sopra e sotto la cintura costellata da una grossa e vistosa borchia d’argento. Io non parlo lo spagnolo, ma lo capisco per le molte volte che ho soggiornato a Caracas. Lui non parlava e non capiva l’italiano. Maria Letizia faceva da interprete. Volle sapere in quale parte dell’Italia fossi nata; quando seppe che ero piemontese esclamò: «Ah! Allora suona il mandolino?». Risposi di no, e lui rimase deluso. Maria Letizia spiegò allora che attualmente abitavo a Roma. «Quindi... possiede una gondola?», incalzò. Questa volta risposi affermativamente per non inoltrarmi in complicati meandri geo-folcloristici.
Nel frattempo era arrivato don Felipe a prelevare Maria Letizia, così salutammo il texano con la promessa di ritrovarci insieme ad altri amici per un fine-settimana in barca a Los Roques. Don Felipe ci invitò a pranzo in un noto ristorante spagnolo in piazza Altamira, ma prima passammo nell’ufficio del marito di Maria Letizia per portarlo con noi. Il mega-ufficio era al quinto piano di un grattacielo da lui stesso costruito e di sua proprietà. La vista era chiusa da altri grattacieli, che a loro volta la chiudevano alle favelas che coronano Caracas. Lo trovai un po’ imbolsito e con le palpebre pesanti, gonfie come chi ha accumulato tante insonnie, ma che fingevano un bonario interesse per le banalità che Maria Letizia diceva di proposito e che la spingevano in un represso quanto infantile atteggiamento da bambina viziata che chiede conferme, come nel tacito accordo di un gioco psicologico in cui ognuno recitava il proprio ruolo.
Durante il carnevale andammo a Los Roques, una piccola isola in mezzo ad atolli e altre isolette dove molti italiani, compresa Maria Letizia, avevano una casa. Non ricordo di chi fosse la barca... Era molto grande, e noi un folto gruppo di persone; molte donne attempate, quasi tutte vedove che erano state invitate per l’occasione dal proprietario, vista la concomitante presenza a bordo dei loro broker venuti dalla Svizzera per movimentare gli investimenti finanziari là depositati. Tutti avevano in mano un bicchiere di whisky o gin come una protesi incorporata nell’arto, e il tintinnio del ghiaccio ne localizzava la presenza. Un giovane broker mi si avvicinò chiedendomi come diversificavo l’utilizzo del mio denaro. Non capendo a che cosa alludesse, risposi ingenua: «Pagando il condominio e le varie bollette...». E lui: «Sempre spiritosi questi italiani...».
Stavo per rientrare in Italia quando, alle due di notte, Maria Letizia piangendo mi comunicò che il marito era morto d’infarto. Mi supplicò di rimandare la partenza: aveva un gran bisogno di aiuto. La raggiunsi presto in taxi. Abitava nella zona residenziale di Palo Alto, dove tutte le case sono circondate da filo spinato e un alto muro di cinta; prima di arrivare al portiere vi era una garitta con tanto di guardia armata. La trovai che stava al telefono: immaginando la massa di persone da lì a poco sarebbe arrivata, chiedeva rinforzi. Mi fece cenno di entrare; don Felipe cercava cautamente di consolarla. In quell’immenso salone, lei mi pareva rimpicciolita, così rannicchiata sul divano, gli occhi pieni più di paura che di dolore. Mi abbracciò forte e mi disse: «E adesso cosa faccio?». Poi: «Per il funerale che mi metto?».
Seguì il feretro da protagonista, rubando la scena al povero defunto. Il cappello a larghe tese recava un velo che, coprendole il viso, arrivava al ginocchio; dai lati del velo uscivano le braccia guantate di nero che reggevano un grande bouquet di violette. Avanzava a piccoli passi, come una macabra sposa.
Fu l’unica erede di un cospicuo patrimonio, per entrare in possesso del quale venivano richieste una quantità di pratiche burocratiche, avendo lei la doppia nazionalità. I migliori avvocati cercavano cavilli per contenere le tasse di successione, che si riproponevano sotto forma di astronomiche parcelle. Maria Letizia, consigliata dal suo cervello plastico che si stringeva o si allargava a seconda delle necessità e delle circostanze, in un’ennesima riunione nello studio di un notaio disse con tono da donna matura a don Felipe che le stava di fronte, a capo del lungo tavolo: «Felipe... sposami, così tutto rimarrà come prima!». Lui sgranò gli occhi. Poi li chiuse a fessura, radunando sul viso le tante piccole rughe che si incrociarono sulle guance come un mosaico che il tempo aveva un poco disgiunto. Dopo un silenzio stupito che parve lunghissimo, disse: «Hai ragione, forse è la cosa migliore».
Così Maria Letizia aggiunse alla cancellazione dello stato vedovile il titolo nobiliare. Mi è rimasto di lei, oltre al ricordo, una foto scattata l’ultima volta che la vidi. Un sorriso stanco sul viso che si stava sgretolando, vicino al suo aereo personale, regalo del marito, insieme al pilota che l’aiutava a salire. Sulla fiancata dell’aereo era bene in vista la scritta La libellula: una libellula con le ali stanche, stritolate per averle troppo battute, dal troppo vivere mille se stessa. Interruppe il volo due anni dopo, precipitando con il suo stesso aereo nel Mar dei Caraibi. Aveva... No, meglio di no. Gli anni non li dico. Lei non avrebbe voluto.



Le gemelle

Era il 1930 quando, per fuggire dalla misera, sbarcarono in America, dove la grande crisi dell’anno precedente non era del tutto terminata. Arrivarono dall’Italia del sud. Il capofamiglia, un giovane alto e magro, con i capelli e i baffi rossicci, gli occhi chiari, concentrava sul viso tutte le dominazioni meridionali. Si chiamava Ciro e i suoi muscoli evidenziavano lavori di manovalanza pesanti. Lei minuta, con grandi occhi neri mobili per esercitare il controllo costante dei suoi tre figli che, tenendosi per mano l’un l’altro, le stavano sempre accanto. Il più piccolo di un anno e il più grande di tre. Si chiamava Nunzia; sul volto magro, i residui di una giovinezza mai vissuta. Due trecce nere intorno al capo mettevano in risalto il pallore del viso mentre le occhiaie, un’ancora ignorata gravidanza. Lei aveva vent’anni e Ciro ventidue.
Andarono a vivere nel Bronx, in due camere lasciate loro da due cugini di lei arrivati in America anni prima: la grande depressione li aveva costretti ad andarsene e cercare lavoro e fortuna nelle miniere d’oro dell’Oregon. Presero così possesso della casa. La mobilia consisteva in un tavolo, tre sedie, due reti con materasso, un fornelletto elettrico a spirale, un fornello di mattoni incastrato nella parete della cucina. Di lato, dentro un mobiletto a muro a due ante vi erano quattro piatti, quattro bicchieri e quattro posate. Sulla parete era appeso un calendario italiano, fermo alla pagine del mese di maggio; ora era settembre e assieme a un’immagine della Madonna di Pompei ve ne era un’altra con le fasi lunari la cui validità si era persa durante la traversata. Le due finestre – una della cucina e una della camera – davano su di un vicolo dove venivano appesi i panni ad asciugare, tra i quali molte fasce per neonati. Sotto di loro c’era un piccolo negozio di frutta e verdura, il cui proprietario esponeva cassette piene di merce e imboniva i passanti con richiami in un dialetto che era anche il loro. Quel suono li rincuorava accorciando le distanze dall’Italia.
Ciro trovò lavoro come muratore ma non guadagnava abbastanza per mantenere la famiglia, tanto più ora che la moglie stava per partorire e si sarebbe aggiunta un’altra bocca da sfamare. Gli venne incontro il compaesano proprietario del negozio di frutta, che aveva appena comprato un carrettino a mano e cercava un ragazzo da mandare in giro per i rioni come ambulante; avrebbe preferito un dodicenne ma capì l’esigenza della situazione familiare di Ciro e tre volte alla settimana, compresa la domenica, gli affidò il carrettino che, unitamente al lavoro di muratore, incrementava un po’ gli introiti. Inoltre poteva portarsi a casa le cassette di legno non più utilizzabili e con quelle arredò l’appartamento. Le inchiodò una sull’altra componendo sedie di varia altezza; togliendo la parte laterale e accatastandole costruì due cassettiere, una in cucina alta un metro e cinquanta e l’altra in camera da letto alta circa sessanta centimetri, sopra la quale appoggiò uno specchio mancante di un angolo e regalo di un rigattiere. Lo specchio appoggiato a quel comò trasparente e leggero rifletteva altre cassette, una vicina all’altra, con sopra materassi di fortuna che ne facevano un solo grande letto con un angusto spazio laterale per il passaggio. Ci volle più di un anno per radunare altre duecento cassette e creare un colpo d’occhio che solo un architetto futurista vicino a Marinetti avrebbe potuto immaginare...
Con molto anticipo sul tempo previsto, vennero alla luce due gemelle, piccole piccole, nere nere come olive. Ebbero un unico nome divisibile: Maria e Misericordia, che suonava come un’implorazione alla Madonna affinché mettesse un freno a quell’eccesso di attività riproduttiva. La supplica venne ascoltata e Nunzia per riconoscenza consumò i grani di due rosari.
Dopo quattro anni di riposante pausa la supplica cadde in prescrizione e nacquero altri quattro maschi: i nomi vennero dati loro in base al santo del calendario del giorno della nascita. Uno di questi evitò di chiamarsi Prefestivo solo perché troppo lungo e lo chiamarono con quello del giorno prima: Alvise. In seguito, quando iniziò la scuola, gli insegnanti – dato i tratti somatici poco convincenti – gli chiedevano:
«Ma tu hai qualche parente veneto?».
Lui non sapeva rispondere. Chiese spiegazione ai genitori, che ovviamente esclusero ogni provenienza veneta. Allora il ragazzo disse:
«Per favore, chiamatemi solo Al».
La madre, spaventata, di rimando commentò:
«Così penseranno che siamo parenti di Al Capone... e sarebbe anche peggio!».
«Potrebbe essere anche meglio...», rispose il padre con un guizzo negli occhi. E con tono perentorio mise fine al dilemma:
«Va bene. Al e non se ne parli più!».

Le due gemelline sembravano fondersi l’una sull’altra, diventando un tutt’uno. Crescevano poco... La loro nascita aveva in parte deluso i genitori: due metà non ne facevano una intera come avrebbero voluto, in mezzo a quella schiera di maschi che crescevano fin troppo.
Avevano cinque anni e così accoppiate davano una mano per i lavori di casa, compreso il bucato. Si verificava un fatto singolare: dalla biancheria, una volta al mese, mancavano le mutante di Nunzia. Se le lavava da sola separatamente. Contemporaneamente le gemelle si resero conto che il padre a volte, quando rientrava a casa alticcio, consapevole e irritato del suo stato, in sostituzione di sé stesso, schiaffeggiava la moglie; poi faceva uscire tutti dalla camera da letto, spingeva dentro la moglie e... scomponeva l’ordine delle cassette. Le mutande della madre rientravano così nel bucato comune. Dopo nove mesi nasceva un altro fratello. Per loro, quindi, il mistero della vita e del sesso stava dentro le mutande che ne erano il contenitore, e incominciarono a odiarle.

La famiglia cresceva, la casa diventava stretta. L’acqua corrente era nell’atrio insieme al bagno, in comune con altre due famiglie. Si faceva a turno. La prima ad entrare era Maria, la gemella più attiva, seguita dalla voce di Misery:
«Tienimi il posto...».
Tienimi il posto era il soprannome che tutta la famiglia usava per prenderla in giro.
Un giorno d’estate faceva un caldo che toglieva il respiro... Si presentò a casa il parroco della diocesi, che pur non avendoli mai visti in chiesa era a conoscenza dei loro disagi economici. Aprì la porta Ciro: stupito lo fece accomodare su di una delle tre sedie vere, mentre sulle altre due sedettero lui e Nunzia. Ci volle un momento prima che il sacerdote ansimante prendesse fiato e asciugasse il sudore sul viso e sugli occhiali piccoli e tondi poggiati sul naso importante. Rinforcate le lenti, con lo sguardo roteante, ispezionò la cucina che, stupito e in fondo deluso, gli apparve migliore di come l’aveva immaginata: tutte quelle cassette impedivano un giudizio negativo netto. Su di una sedevano entrambe le gemelle: stavano rammendando un paio di calzini ognuno con un grosso buco, uno sulla punta e l’altro sul calcagno. Un uovo di legno infilato dentro facilitava il lavoro che le loro piccole mani rendeva quasi invisibile. Il sacerdote era di origine italiana, conosceva il loro dialetto, e in italiano insieme a qualche parola di inglese, incominciò a parlare e chiese:
«Quanti siete in questa famiglia?».
Risposero all’unisono. Ciro disse dieci e Nunzia, dimenticando sé stessa, nove.
«Ma come fate a vivere tutti in una camera e cucina?».
«Veramente... tre ragazzi dormono sotto, nel retro del negozio dove lavoro anche io e inoltre mi danno anche una mano. Sto per diventare socio perché Antonio, il proprietario, si è fatto vecchio: ha la cataratta a tutte e due gli occhi che non distingue più i colori... se si dimentica di annusare confonde le mele con le arance o coi pomodori. L’altro giorno, alla richiesta di un chilo di fichi, ha incartato un chilo di aglio dicendo che non erano molto maturi ma che lo sarebbero stati il giorno dopo! Capisce, reverendo, che senza di me il negozio non va avanti? Prima o poi lui dovrà cedere e la frutteria diventerà la migliore del quartiere».
«Bravo», disse il sacerdote.
«Queste prospettive mi fanno piacere. Ma con le due gemelle come la mettiamo? Non sono mai venute al catechismo, fra poco dovranno iniziare le elementari senza un minimo di preparazione...».
«Avete ragione», confessò il padre.
«Sono le uniche figlie femmine e per disgrazia ci sono venute male, sbagliate... Crescono poco... Il maschio più piccolo di tre anni è più alto di loro. È impensabile un rimedio, rimane la rassegnazione: le dobbiamo tenere così come sono».
Loro, chine sul buco delle calze che stavano chiudendo, tremando, temevano un ignoto cambiamento.
«Vi faccio una proposta», disse il sacerdote accomodandosi meglio sulla sedia, giungendo le mani e facendole oscillare avanti e indietro a mo’ di preghiera persuasiva.
«Vicino alla parrocchia abbiamo un reparto che ospita ragazze che provengono da famiglie disagiate. So bene che voi non lo siete...». La frase era lusinghiera e, da buon imbonitore, giocava sulle reazioni a quella.
«Se io metto una buona parola, ora che due ragazze se ne sono andate, possono subentrare loro usufruendo di tutti i benefici».
«E quali sarebbero?», chiese il padre.
«Tanto per cominciare, due bocche in meno da sfamare».
«Ma...», rispose timidamente la madre, «mangiano così poco».
«Potrebbero studiare gratis fino alla quinta elementare, cosa che non fanno i vostri figli maschi fermandosi alla terza. Poi si vedrà... Ci sono corsi di cucito, ricamo, abbiamo un reparto attrezzato per fare corredi con prenotazioni per almeno due anni... A Philadelphia ci sono le ragazze ereditiere più ricche d’America... Se loro saranno brave, potrebbero imparare ed essere in seguito anche d’aiuto economico alla famiglia».
Quest’ultima frase creò l’effetto desiderato, che convinse del tutto. Ciro, con tono da capofamiglia, disse perentorio:
«A noi sta bene». Il noi era riferito solo a sé stesso, dal momento che la moglie non venne neppure interpellata.
Il panico invase le gemelle. Dai genitori non si erano mai sentite amate, ma ora si sentivano addirittura vendute. Erano comunque il loro punto di riferimento, e stringendosi più vicine rinforzarono la saldatura.

Il giorno dopo attraversarono la via con i genitori, giunsero nella piazzetta dove in fondo vi era la chiesa, entrarono da una porta laterale, oltrepassarono la sacrestia e in fondo al corridoio li attendeva don Rocco. Per via di quei soffitti molto alti, lui appariva più piccolo di quando lo videro a casa loro. Li fece entrare in un salottino e li presentò a una suora seduta dietro una scrivania: era la Madre superiora. Una donna piccola, grassottella, le gote rosse e gli occhi vispi. Guardò le gemelle perplessa.
«Quanti anni avete?», chiese in italiano con accento friulano.
«Sono nate nel 1930», rispose il padre. La suora pensò che non poteva essere solo la scarsa nutrizione – per quanto tutta visibile sui visi scarni e pallidi – ad avere impedito la crescita regolare.
La stanza, come tutta la sacrestia, aveva per la famiglia un odore strano, non definito, di cloroformio, di pulizia ospedaliera che escludeva tutti gli altri ma non il loro, odore di sudore e di cucina povera. La Madre superiora ripeté tutto ciò che il sacerdote aveva detto a casa loro, compilò un foglio e lo fece firmare: Nunzia fece una croce e Ciro, con il cappello schiacciato sotto l’ascella, impacciato, scrisse lentamente il cognome, poi alzò il capo e con occhi imploranti chiese:
«...anche il nome?».
«Sì, certo...», rispose la suora.
Intinse la penna nel calamaio e quel nome corto che a lui parve lunghissimo si concretizzò sul foglio seguito da una macchia di inchiostro, come un sigillo a chiusura di un atto.
Sul muro, alle spalle della superiora, era appeso un crocifisso nero e un ritratto di Pio XI con in testa un cappello a tesa larga bordato da un cordone pendente da un lato che terminava con due nappine, lo sguardo assente dietro piccoli occhiali. La suora tirò una cordicella sotto il ritratto: al tintinnio di una campanella le gemelle sobbalzarono e apparve suor Agata, alla quale vennero consegnate.
Salirono al primo piano, dove erano i dormitori: tre camere con sei letti ognuna, una camera accanto con quattro lavandini e, in fila, coperti da una tenda grigia in sostituzione della porta, quattro gabinetti alla turca provvisti ognuno di un secchio di zinco. Sotto una lunga e alta finestra vi era un baldacchino di tela grezza che nascondeva una vasca da bagno in metallo adoperata solo in casi di emergenza (scabbia? pidocchi?)...
Il piano terra ospitava il refettorio con il perenne aleggiare di odore di cavoli e patate: il lungo tavolo accoglieva venti posti, diciotto dei quali numerati. Ogni posto era dotato di un buco in cui al mattino, per maggiore stabilità, si infilava la ciotola della colazione. Al capo del tavolo sedeva la suora sorvegliante, che non aveva né numero né buco. Loro arrivavano affamate dopo la messa delle sei e trenta e la comunione del mattino con relativa lode al Signore... T’adoriam, ostia divina...

Per le gemelle furono giorni di tale smarrimento che dovettero dilatare le pareti del loro esistere con la visuale di un mondo completamente sconosciuto. Il primo anno di scuola, dove tutte parlavano lingue e dialetti diversi, iniziarono dall’alfabeto inglese che diede i suoi frutti l’anno dopo permettendo loro di comunicare più agevolmente pur mantenendo le inflessioni dialettali. Le ragazze erano tutte di capelli e carnagione scura; una era di colore, piangeva sempre e dopo il primo anno se ne andò, sostituita da una ragazza bianchissima di nome Helga. Era di origine irlandese, molto più alta dei suoi otto anni, con trecce biondo-giallo che scendevano sul grembiule nero... sembravano di stoppa. Le ciglia avevano la punta bianca e di giorno le teneva quasi sempre socchiuse come persiane, a protezione dalla luce, nel timore che sbiadisse ulteriormente il colore dell’iride. Magrissima, quasi trasparente, sembrava partorita dalla luna.
Il sabato si teneva la lezione di cucito e su tutte quelle teste chine sul lavoro spiccava quella di Helga, come un’albicocca caduta per caso in un cesto di more. Se ne andò il terzo anno, come fosse evaporata, portandosi dietro la sua anomala luminosità, con grande sollievo delle gemelle, sempre intimorite dalla sua presenza che consideravano proveniente da un pianeta a loro sconosciuto.
Arrivarono alla quinta elementare, essendo le più brave di tutta la classe: ciò che sfuggiva ad una, l’altra lo raccoglieva e delle lezioni nulla andava perso. Con la fine dell’anno scolastico i genitori vennero interpellati: finito il periodo dell’integrazione, bisognava decidere per il futuro. Questi varcarono la soglia dell’istituto con il timore inconscio che volessero rendere loro quelle due figlie anomale. Nunzia si era tagliata i capelli... il viso si era allargato e quel poco benessere l’aveva un poco colorito. L’incontro avvenne alla presenza di don Rocco, della Madre superiora e di un altro prelato, alto, magro, gli occhiali con spesse lenti da miope saldi su un supporto nasale alla san Carlo Borromeo.
«Dunque...» disse «è ora di prendere una decisione. Le vostre figlie hanno undici anni, a giorni finiranno le elementari... O ritorneranno a casa oppure rimarranno qui e impareranno il mestiere per confezionare corredi compreso il ricamo, per il quale dimostrano già una certa attitudine. Trascorsi i primi tre anni, saranno pagate fino all’età di ventuno... al compimento della maggiore età. Nel frattempo, il ricavato sarà vostro».
Ciro ebbe negli occhi il solito guizzo della convenienza e senza aspettare proposte alternative rispose di scatto: «Va bene, va bene...».
Quando comunicarono alle gemelle la decisione presa, queste rimasero impassibili: erano altre le loro aspirazioni. Avrebbero voluto prendere i voti e diventare le spose di Gesù. Non essendo lui materialmente presente, non sarebbero mai state incinte, evitando così tutte le sberle che aveva preso la loro madre ogni qual volta era rimasta coinvolta in una gravidanza.
Suor Agata disse: «Questo non è possibile, vi influenzate a vicenda e Gesù non può fare un doppio matrimonio».

Una volta al mese, la domenica, potevano andare a casa o ricevere la visita dei genitori. Ciò avvenne una sola volta da parte delle gemelle e molto tempo dopo venne a prenderle il padre. Si era irrobustito, le tempie si erano imbiancate... Attraversò la piazza con passo lungo e svelto per ridurre al minimo la visibilità delle figlie, costrette a corrergli dietro a piccoli passi. Quando entrarono in casa i fratelli non le riconobbero. La casa si era allargata, era stato abbattuto un muro divisorio e ne erano venute fuori due camere di proprietà di Amedeo, il fruttivendolo, che in cambio di un accudimento aveva ceduto tutto il negozio a Ciro. Quest’ultimo ne pubblicizzava la proprietà con una grossa insegna: Ciro Esposito - Prodotti italiani. In uno scaffale erano esposte scatole di tonno, di sardine, di conserva di pomodoro e una grossa scatola di latta contenente acciughe salate. Di fronte, un altro scaffale conteneva la pasta, il riso, la farina, quella bianca venduta soprattutto agli emigranti meridionali e quella gialla ai veneti. L’olio si vendeva sfuso – i clienti portavano da casa piccoli recipienti – come pure lo zucchero, che veniva incartato in fogli di colore blu. Il caffè si vendeva in grani e si macinava a casa. Le cassette della frutta, insieme all’insegna, erano esposte fuori, sul marciapiede, e con i loro colori facevano da richiamo. Amedeo ormai non usciva più di casa, le cataratte gli avevano sottratto un altro po’ di vista ma le sagome e l’odore dell’arredo fatto con le vecchie cassette di frutta e con la sollecitazione di un inizio di Alzheimer, lo riportavano con la mente nel suo negozio e di notte o di giorno, ascoltato da nessuno ma infastidendo tutti urlava: «...fagiolini a cinque centesimi!» oppure «...cetrioli e zucchine a metà prezzo... venite, donne!». La cosa ormai si ripeteva troppo spesso e sperando di calmarlo eliminarono le cassette, sostituendole con mobili regolari.
Comprarono da un rigattiere un divano di pelle nera con lo schienale imbottito a losanghe, appartenuto in precedenza a un notaio ormai deceduto. Di fronte, un mobile da cucina con le ante e i cassetti dipinti con residui di vernice di colori diversi. Quell’arcobaleno toglieva al divano ogni residuo di austerità. Le gemelle non riuscivano a immaginare di aver vissuto lì... era tutto diverso, compreso il fratello di un anno più piccolo che, entrato in quel momento, aveva sembianze e statura differenti, come il timbro della voce con cui distrattamente le salutò.
Saltarono a terra dal divano troppo alto per le loro gambe, tutte e due rassettando la gonna con la mano come per scacciare le ultime briciole di angoscia relativa a un vissuto che non apparteneva più loro.
Quell’ultima volta che entrarono nella casa dei genitori, non ne facevano già più parte. La quieta atmosfera dell’istituto le immerse benevolmente in un’oasi protettiva.

Tutte e due insieme ebbero le prime mestruazioni... Qualche macchia rossa sulle mutande le fece piangere: a loro no, a loro non doveva accadere! Dopo tante preghiere dovevano rimanere immacolate. Quando le lavavano nel lavandino, a turno si facevano scherno l’un l’altra e frenavano il loro odio recitando il rosario.

Poco tempo dopo furono introdotte nel laboratorio di sartoria. Misery, titubante, disse:
«Vai avanti tu, io arrivo subito... tienimi il posto».
«No, questa volta no. Dobbiamo entrare insieme.», rispose Maria imponendosi. E così fecero il loro ingresso insieme.
Il laboratorio era molto grande: vi erano quattro macchine da cucire sulle quali pedalavano ragazze più grandi di loro. Tutte le altre erano a testa china maneggiando tessuti di seta su un lungo tavolo da lavoro. Per tre anni si applicarono al massimo. Anni vissuti solo nell’apprendere e nella preghiera, svuotati di ogni altra distrazione, finiti i quali a pieno titolo si potevano considerare esperte del mestiere. Erano diventate le più brave di tutte. Portavano avanti il lavoro a conduzione gemellare in cui Tienimi il posto era più lenta, ma l’altra la compensava. Che erano le più capaci lo capì subito anche l’insegnante, alla quale, non potendo più competere, non rimase che cedere il titolo.
Veri capolavori uscivano dalle loro piccole mani che, come colibrì che intrecciano fili d’erba per costruire il nido, intrecciavano con l’ago fili dai colori tenui depositando mirabili ricami su sete impalpabili. Le richieste di corredi si moltiplicarono e l’andamento del laboratorio dipendeva ormai da loro: le erano state concesse due sedie con le gambe più lunghe e uno sgabello a due gradini per poggiare i piedi. Un piccolo trono per una più visibile aggiunta di comando. I corredi erano composti da dodici capi di tutto: dodici camicie da notte, dodici da giorno, dodici vestaglie (sei estive e sei invernali), dodici pagliaccetti (sottovesti con la parte inferiore a mutanda); poi vi erano le lenzuola con la “risvolta” tutta ricamata, le federe con le cifre in rilievo. Un corredo completo richiedeva mesi di lavoro: il colore di base era il bianco e tutte le tonalità del rosa che nella biancheria intima si intensificavano soprattutto nella parte superiore dei capi, con smerlettature e punti così leggeri da trasformare trasparenze in elaborate ragnatele. La parte inferiore invece veniva trascurata con lo stupore e il disappunto delle clienti che proprio quell’indumento, protagonista principale di schermaglie amorose, ultimo baluardo di pudori, lo avrebbero voluto complice grazie ad adeguati ricami. Ma le mutandine che venivano consegnate, spoglie di ogni ornamento, racchiudevano il mistero e le paure delle gemelle, per questo erano penalizzate con la sola concessione di un elastico in vita.

Non uscirono mai dall’istituto fino al 1968, quando una brutta tosse ostinata colpì Maria che prontamente contagiò anche la sorella.
Avevano sempre avuto la certezza che quando sarebbe venuta la loro ora avrebbero avuto le carte in regola per l’ingresso in paradiso. Il lasciapassare era scontato: chilometri di rosari, quintali di fioretti, tonnellate di pensieri puri unitamente ad una verginità mai attentata che nell’alto dei cieli doveva pur avere un valore.
Maria si spense in un giorno piovoso di autunno con la raccomandazione di Misery di tenerle il posto... Il giorno dopo Misery la raggiunse.
Se ne andarono convinte che ad attenderle ci sarebbero state schiere di angeli ai quali, con o senza elastico, non servivano le mutande.
La famiglia pianse a lungo la dipartita... della loro busta paga che, come da contratto, l’istituto ogni mese faceva pervenire.



Il mio 25 aprile a Boves (Cuneo)

«Ricordo che ascoltavamo Radio Londra, che mettevamo in centro alla tavola. Tutti intorno, come per una seduta spiritica. E facevamo a gara per decifrare quei messaggi misteriosi». Nell’aprile del 1945 Liliana Pellegrino era a Boves. Aveva 18 anni.

Il mio 25 aprile è un programma di Giovanni Paolo Fontana. Regia: Nicoletta Nesler. Produttore esecutivo: Vittorio Rizzo.




La savoiarda

Erano gli anni Ottanta, l’avevo conosciuta nella sala d’attesa del dentista che avevamo in comune: era una donna di mezza età che conservava evidenti le tracce di una bellezza luminosa che resisteva a spegnersi. Abitava in uno dei quartieri alti confinante con il mio. Il dentista, a metà strada tra i due, ne sfumava le diversità. Dopo diverse soste in attesa del proprio turno, spinta dall’accento piemontese che notammo l’una dell’altra, iniziammo a conversare.
Si chiamava Maria Clotilde... ma non capii il cognome troppo lungo e lei, con grande classe, non lo fece precedere dai titoli nobiliari di cui era in possesso. Mi disse, sorridendo, che tutti la chiamavano la “savoiarda” per via delle origini legate alla casa Savoia da parte di sua madre, discendente diretta dei Biancamano. Era nata a Torino e di Torino aveva perenne nostalgia, anche se viveva ormai a Roma da molti anni, da quando si era sposata.
«Suo marito è romano?», le chiesi una volta.
«Sì» mi rispose «...anche se ormai siamo separati da quasi vent’anni, ma ogni settimana, il giovedì, lo vado a trovare».
Non osai fare altre domande, anche perché lei non ne fece a me. Mi disse solo che le ispiravo confidenze.
Le feci i complimenti per la sua eleganza che, pur non confondendosi con l’uniformità della moda in voga al momento, aveva una sua personale attualità.
«Vede...» mi disse «a volte è anche faticoso gestire i particolari ma mi creda, è uno degli elementi che dà l’illusione di rallentare la corsa del tempo, non ingranare la marcia e metterla in folle! Fare proprio un periodo e viverlo come non fosse già trascorso».
Aveva una Giulietta bianca e un giovedì la vidi sotto casa sua che non riusciva a metterla in moto, così le offrii di accompagnarla con la mia Cinquecento. Accettò di salire con la compiacenza di fare un favore a chi il favore lo stava proponendo. Salita, le chiesi di indicarmi la strada... Era quella del cimitero. Nascosi lo stupore e l’accompagnai.
Ci fermammo dinanzi a una cappella ottocentesca che aveva sulla soglia un grande angelo di marmo bianco con le ali spiegate che sosteneva dalle ascelle un giovane morente. Mi fece reggere la rosa rossa che teneva in mano, tirò fuori le chiavi dalla borsetta ed entrammo all’interno. Vi erano alle pareti le fotografie di personaggi a mezzobusto che apparivano più giovani dell’età riportata accanto.
Mi indicò quella del marito... il petto medagliato, la feluca in testa, lo sguardo che non vedeva lateralmente ma puntava solo lei, con un sorriso d’intesa complice di un passato di loro esclusiva appartenenza. Io ero come assente, dissolta nell’aria. Quando rientrò nel presente sostituì la rosa rossa che, semiappassita nel piccolo vasetto di bronzo accanto al muro, faticava a trattenere la caduta dei petali sotto la fotografia del defunto. Con gesti lenti sistemò la carta stagnola che avvolgeva il gambo della rosa per far mantenere l’umidità almeno una settimana.
Durante il ritorno non parlò, piano piano smaltiva l’emozione di cui ogni volta si nutriva. L’accompagnai sotto casa: un palazzo dall’aspetto austero, ministeriale. Il portiere le venne incontro per aiutarla a scendere, nascondendo sotto la visiera del cappello lo stupore di dover aprire la portiera di una Cinquecento!
Per scontata cortesia mi chiese se volessi salire; per malcelata curiosità le risposi di no e dopo quell’incontro la persi di vista per molto tempo.
Quando la rincontrai a una stazione di servizio, era al volante della sua Giulietta, con la capote abbassata in attesa che il benzinaio, tutto sudato, le facesse il pieno. Mi salutò quasi con enfasi, dicendomi che era felice di rivedermi. Era la fine di giugno e faceva molto caldo ma lei, come tutte le persone di un certo livello, non sudava. Stava partendo per le vacanze in Austria, ospite degli Asburgo, dando per scontata la mia conoscenza della loro non totale estinzione.
Rifletté un attimo e scavalcando mentalmente i diversi stati sociali, credo per pura simpatia, mi invitò a un party che dava a casa sua in occasione della partenza. La curiosità già accumulata mi spinse subito ad accettare.
Un vecchio maggiordomo inguantato e con lo sguardo assente mi introdusse nel salone dove, all’entrata, lei riceveva gli ospiti: indossava un lungo abito nero modello sirena, con le maniche di chiffon che, malgrado la discrezionalità di una velata trasparenza, faticavano a nascondere l’ondeggiante tremolio dell’interno delle braccia. L’età media degli ospiti era abbastanza alta e su tutto aleggiava un certo odore di naftalina e di... risorgimento. Abiti annoiati e stanchi di tante sporadiche esibizioni, ormai sbiaditi sembravano anelare un definitivo riposo. Neanche la spilla con il nodo dei Savoia riusciva a rianimarli.
Non appena mi vide, mi venne incontro con il sorriso di chi si compiace di aver fatto un’opera buona. Come da galateo, mi presentò a varie persone per poi affidarmi ad un signore spagnolo, un don... senza età, pochi capelli e baffetti tinti di nero che mi diresse verso un divanetto dove era già seduta una coppia che mi ignorò completamente. Mi disse qualcosa in spagnolo che non capii, non tanto per la lingua ma per la dentiera che traballava e produceva il rumore delle nacchere.
Una porta scorrevole venne aperta su un ampio salone dove era stato allestito un lungo buffet che esponeva una quantità dei soliti cibi... Vi erano pochi tavolini di appoggio rispetto alle sedie e ai divanetti. Molti avevano scelto le postazioni pole position, il collo teso in avanti, pronti per il via all’assalto del buffet. In fondo, un pianoforte nero a coda veniva suonato da un signore dalle guance scavate ma con un allegro papillon a pois blu.
Mi trovai ad assistere un po’ divertita – essendone anche un’impacciata partecipe – a un buffet “nobiliare” che ostentava invece gli aspetti più “plebei” della natura umana.
Se la difficoltà era raggiungere il proprio posto con un piatto in mano figuriamoci il mangiare in piedi senza appoggio, quando lo stare in piedi diventava a volte un problema anche a mani libere. Raggiunto il posto e appoggiato il piatto, si doveva fare un altro giro per prendere da bere; quando si tornava il piatto non c’era più, quindi per darsi un contegno e per consolarsi della sua scomparsa si tracannava il bicchiere tutto d’un fiato. Si ritornava quindi al buffet, dove fra i secondi troneggiava l’immancabile roast beef... esponendoci a un’altra dura prova perché necessitava di coltello e forchetta e nessuno si sentiva di cimentarsi. Ripiegarono quasi tutti sul purè di patate che, reggendo poco anche la traversata del salone, freddandosi, iniziava precocemente a cementare. Nella confusione, se si voleva bere non rimaneva che fare proprio il bicchiere di qualcun altro. I bicchieri erano sparsi ovunque, parecchi appoggiati anche sul pianoforte: i primi arrivati furono bevuti dal pianista che pensava fossero messi li per omaggiarlo. E più beveva, più intensificava il ritmo della musica passando dal romantico valzer delle candele a un frenetico can-can.
Incominciai presto a sentire... carenza di vita reale, di normalità e con una scusa me ne andai prima dell’arrivo dei dolci. Salutai la padrona di casa che, scambiandomi per qualcun’altra, mi baciò sulle guance. Incrociai sulla porta un signore sulla cinquantina, lo sguardo miope sotto gli occhialetti piccoli e tondi... forse era Cavour?
Non ho più visto la “savoiarda”... Come i biscotti, si sarà sciolta nel caffelatte della vita.



La mostra al museo

Ho visitato la mostra degli abiti dei grandi stilisti degli anni che vanno dal 1950 al 1980. È stata allestita al museo MAXXI, a due passi da casa mia: museo all’avanguardia in Italia e in Europa, senza agganci a classicità precedenti ma per me anche spunto di emozioni non tutte positive.
Non ho mai la certezza che le scale avveniristiche, sospese nel vuoto, mi portino dove ho scelto di andare e per avere certezza della mia esistenza nello spazio del luogo, cerco di salire accostata alla parete, che, essendo trasparente, mi dà la sensazione di essere all’esterno, in un mondo ignoto da capogiro. La trasparenza è percepibile anche salendo i gradini, da cui si possono vedere andar su le persone del piano sottostante.
Con la pressione che va in altalena giungo finalmente nella sala dell’esposizione. In effetti avrei potuto utilizzare anche un ascensore, l’unico luogo non trasparente ma dove, in un’esperienza precedente, fui assalita dal timore che potesse sfondare il tetto della megastruttura per proiettarmi verso un altro pianeta. Lo adopero, quindi, solo quando scendo per tornare verso terra: puntare i piedi al suolo mi placa quel vago senso d’angoscia.
Gli abiti esposti hanno tutta la meravigliosità della moda di quegli anni, caratterizzata da lavorazioni artigianali competenti, accurate, minuziose, fatta su stoffe pregiate, sete leggere o pesanti a seconda del modello, di colori tali che accostati tra loro formano un insieme di spettacolare armonia.
Tessuti arricchiti da ore e ore di lavoro delle ricamatrici che attaccavano perle, perline e cristalli Swarovski creando luce e brillanti trasparenze, insieme al taglio impeccabile, e valorizzavano il corpo femminile donandogli un mirabile equilibrio geometrico. Tra gli accessori esposti accanto ad ogni modello, facevano bella mostra di sé perfino le scarpe che, pur avendo un numero grande in rapporto alla statura delle indossatrici di allora, apparivano leggere per via della forma sfilata: la discrezione del tacco e del decolleté le facevano assomigliare a un prolungamento delle gambe.
Persone non più giovani si fermavano a lungo su ogni capo con sguardi carichi di nostalgia che galoppavano verso ricordi lontani; le più giovani, mai abituate al bello, incredule ai racconti delle nonne, osservavano prive di emozioni, con la curiosità dell’archeologo che ha scelto la facoltà sbagliata...
Ne sono uscita con una visione appagata, ma sconfortata dalla consapevolezza che quell’arte sartoriale ha finito la sua era.
Al piano terra mi sono seduta su una panca che sembrava di marmo ma era invece soffice e confortevole, e ho visto passare un’umanità che veste alla moda d’oggi. Il tempo non ha concesso una via di mezzo e si è subito passati al brutto, uniformato e spersonalizzato. Prevalgono magliette con la scollatura lasciata scivolare con finta noncuranza su di una spalla messa a nudo in maniera eroticamente lasciva ma totalmente sopraffatta da un effetto di casalinga trasandata. Le scarpe con doppie, triple suole, cinghie, borchie e ripide tomaie che oltrepassano e immobilizzano le caviglie, sembrano tali e quali a quelle che indossavano un tempo coloro che erano affetti da piede equino... quando il piede equino non era ancora operabile.



Il quaderno dalla copertina nera

Era un autunno piovoso, il vento bizzarro rompeva la perpendicolarità della pioggia spingendola ora a destra, ora a sinistra, e picchiettava sui vetri come invisibili dita. Nel salotto, la mente stipata di emozioni immaginate e mai vissute che il tempo non era riuscito a spegnere. Erano seduti su due poltrone vicine Adalgisa e Gaspare, ognuno la mano appoggiata sul bracciolo dell’altro, creando un ponte di certezza dell’esistenza reciproca. Il buio stava invadendo il salotto sfiorando mobili di due o tre generazioni, gli stili confusi avevano creato un’amalgama stranamente armoniosa.
L’unico corpo estraneo che timbrava il tempo era il televisore, dallo schermo piccolo, quadrato e gobboso appoggiato su di un settimino dai tanti cassetti stipati di depliant che proponevano viaggi verso ogni parte del mondo.
Si erano conosciuti durante i quattro giorni a Pompei organizzati dalla parrocchia cui entrambi appartenevano.
Si erano seduti vicini per caso e avevano scoperto di avere entrambi la passione per i viaggi, anche se quello era stato il primo a... lungo metraggio.
Il successivo li aveva portati a Nizza e in Provenza. Salito sul bus, Gaspare aveva dato per scontato che Adalgisa gli si sarebbe seduta accanto; il gruppo, come sempre, era in prevalenza femminile. Malgrado i molti posti liberi, diverse donne si erano avvicinate chiedendogli:
«Scusi, quel posto è libero?».
«No.», aveva risposto Gaspare, «È occupato».
E per conferma aveva lasciato sul sedile il suo berrettino di tela con la visiera.
Lei arrivò trafelata, aveva fatto tardi; lui stava tenendo d’occhio la porta... Non appena salì, lui alzò la mano urlando:
«Sono qui!».
«Arrivo, arrivo...», rispose lei sedendogli accanto.
Avevano parlato molto, fitto fitto, ognuno scoprendo sé stesso nell’altro. Giunti in Provenza, tra il profumo stordente della lavanda, lui aveva compreso che era la donna giusta per tutta la vita e l’aveva chiesta in sposa; lei, senza titubanza, aveva risposto di sì.
Gaspare lavorava alle poste come responsabile del reparto spedizioni. Con la mente andava appresso a ogni pacco in partenza, scoprendo località a volte ignorate che nutrivano i suoi sogni.
Lei aveva ereditato dalla madre la merceria sotto casa, e tra una cliente e l’altra leggeva romanzi ambientati in terre lontane, la cui collocazione geografica spesso le sfuggiva.
Si erano sposati quattro mesi dopo essersi conosciuti, promettendosi, oltre la fedeltà, che un giorno avrebbero fatto un lungo viaggio attorno al mondo, presumendo che non avrebbero avuto figli... come effettivamente avvenne.
Per portare a termine il loro fantasioso sogno, bisognava quindi iniziare a risparmiare. E fu così che presero ad accumulare tutto ciò che riuscivano.
Oltre il suo lavoro, Gaspare amministrava condomini; lei aveva comprato una macchina artigianale per produrre in proprio ciò che in seguito avrebbe venduto. Erano gli anni ‘70 e si respirava un finto benessere; la gente, in quel boom economico, non badava a spese. La macchina da maglieria era di ferro, lunga suppergiù un metro e mezzo e alta un metro e venti. Vi stava sopra un piccolo carrello pesante e manicato che bisognava spingere da un lato all’altro, dopo aver predisposto i fili di lana dai vari colori che scendevano dall’alto, avvolti in grandi bobine. Adalgisa era esile e piccola, l’apertura del braccio troppo corta per raggiungere i lati, e si doveva spostare correndo da destra a sinistra.
Eludeva la stanchezza con il rumore prodotto dalla macchina, associandolo a quello delle rotaie di un treno che un giorno, assieme a Gaspare, l’avrebbe portata lontano, in giro per un lungo viaggio intorno al mondo.
Gli anni scivolavano oliati dal loro sogno, per il quale avevano risparmiato su tutto. Parlavano del fatidico viaggio solo e sempre in cucina, come per evitare lo spandersi dispersivo delle loro emozioni. La cucina anni ‘50 era di formica color verde pisello; in alto, dentro un pensile, come in un piccolo garage, tenevano un mappamondo grande e a colori, sorretto da un piedistallo e cerchiato dalle linee di meridiani e paralleli. Gaspare annotava le distanze fra un continente e l’altro su di un quaderno dalla copertina nera di plastica quadrettata. Quando lo riponeva, per forza di inerzia, colpito da capogiro e stordito, il mappamondo continuava ancora a girare ancora per un po’.

«Quanto manca?», chiese una sera Adalgisa.
«Secondo me abbiamo raggiunto la cifra stabilita».
«Allora possiamo smettere di accumulare?».
«Non del tutto, perché dobbiamo assicurarci una certa agiatezza per la nostra vecchiaia», senza accorgersi che vecchi lo erano già da un bel pezzo.
Continuava a piovere e il salotto era ora illuminato dalle luci al neon del cinema di fronte, che superato lo sbarramento della pioggia creava sulla parete una cascata luminosa e surreale.
Usciti da quel torpore onirico e dopo aver riflettuto, questa volta con dispiacere, lei, mosse le gambe in su e in giù per riattivare la circolazione, si alzò spronando anche lui a fare altrettanto, ma per ben due volte quest’ultimo ricadde pesantemente sulla poltrona. Lei lo aiutò e disse in tono stranamente perentorio:
«Gaspare, dobbiamo parlare. Ma non qui in cucina!», dove lui d’istinto stava cercando di aprire il pensile con dentro il mappamondo.
«Lascia perdere e siediti», gli disse Adalgisa.
Seduti al tavolo uno di fronte all’altro, appoggiati sui gomiti, iniziò il suo discorso intriso di una momentanea realtà.
«Ascoltami...», cominciò trattenendo le lacrime, «Forse siamo andati troppo in là, superando il nostro sogno. Sii sincero, ti sentiresti ancora di salire su un aereo? Cosa che, per giunta, non abbiamo mai fatto?».
«Non ci ho mai pensato», rispose Gaspare.
«Pensaci, caro. Senza contare la cucina estera, che come abbiamo letto sui depliant è decisamente diversa dalla nostra. Io soffro di reflusso gastrico e Dio sa quanto fatichi a digerire; e tu, a tavola, sei costretto a delle soste per via dell’asma addirittura quando mangi la minestrina!».
Con occhi imploranti, lui guardò il soffitto perché trattenesse ancora un po’ il mondo che gli stava cadendo addosso, e smarrito chiese:
«Ma allora, adesso che facciamo?».
«Ora non solo ci dobbiamo fermare», avanzò Adalgisa, «ma anche impostare la nostra vita a marcia indietro e intaccare il risparmio».
«Tutto ciò che abbiamo accumulato in tutti questi anni con tanti sacrifici?».
«Sì, Gaspare. E dobbiamo anche iniziare presto. Il tempo a disposizione è minore. Sperando che il sacrificio sia più piacevole anche se squilibrante».
Mentre parlava, sentiva la pressione salirle oltremisura.
«Va bene, Adalgisa, forse hai ragione tu... ma da dove cominciare?».
Lei rispose lasciando cadere le braccia con le mani aperte lungo i fianchi in senso di sconforto:
«Ma fatti venire qualche idea anche tu, buon Dio!».
Lui rimase incerto tra l’offendersi e il proporre, poi esclamò:
«Potremmo far venire Carmelina, la donna delle pulizie, anziché tre volte la settimana, tutti i giorni dal mattino alla sera!».
«Ma allora non vuoi capire...», ribatté Adalgisa. «Dobbiamo pensare in grande!».
«Ma... in grande quanto?».
«Molto, Gaspare, se vogliamo fare in tempo. Dormici su e domattina mi dirai cosa ti è venuto in mente».
Lui non dormì affatto. Cercò di pensare in grande per esporre, al mattino, il suo programma.

«Guarda... Io avrei pensato che potremmo comprare un’auto di grossa cilindrata, una Mercedes!».
«Una Mercedes? E chi la guiderebbe?».
«Potrei farlo io».
«Tu??? Ma se son più di dieci anni che per via della vista non ti hanno rinnovato la patente...».
Dopo un attimo di riflessione, Gaspare ripartì alla carica.
«Potremmo pagarci anche un autista!».
«Ma... per andare dove?».
«E che ne so?... Dal barbiere, per esempio».
«Dal barbiere? Ma se ci vai una volta ogni due mesi per farti accorciare i pochi capelli laterali che ti sono rimasti...».
Lo sconforto di lui era talmente evidente che Adalgisa, intenerita, lo prese per mano, lo condusse in salotto, lo fece accomodare in poltrona, gli sistemò gli occhiali, gli accarezzò il viso e gli si sedette accanto, in attesa che si quietasse e che la sua pressione scendesse al di sotto dei duecento e smettesse di accendergli il viso. Dopo una pausa gli disse:
«Ascolta, Gaspare, io un’idea ce l’avrei. Potremmo ugualmente realizzare il nostro sogno. Basterebbe accorciarlo un po’. Potremmo andare a Rimini, al Grand Hotel di Rimini».
«Per me va bene.», rispose lui. «Anche se, certo... lo accorceremmo di molto».
«Sì, ma altrimenti di molto accorceremmo anche il risparmio, malgrado i buoni interessi bancari...».
Dopo un breve momento di riflessione, lei esordì con la solita frase femminile... questa volta al plurale:
«Ma che indosseremo al Grand Hotel?».
«Niente di vecchio! Compriamo tutto nuovo».
Lei fece gli occhi a fessura e disse:
«Io di vecchio – che poi è quasi nuovo – porterò solo il prendisole».
Lui, invece, gli occhi li sbarrò e quasi urlando chiese:
«Quale? Quello con le spalline larghe, la scollatura quadrata e la martingala dietro?».
«Sì, proprio quello».
«Quello a righe nere e gialle bordate di rosso che ti faceva sembrare una salamandra?».
«Una salamandra? Perché non me l’hai mai detto?».
«Be’, te lo dico ora...».
Lei avrebbe voluto offendersi, ma era trascorso così tanto tempo che l’offesa era scaduta.
«Va bene, lasciamo stare...» disse Gaspare. «Ma è meglio che di queste spese ti occupi tu, che sai tirare sul prezzo. Del resto, conosci la mia taglia... Voglio dei pantaloni uguali a quelli che ho già, solo di colori diversi».
«Ma hanno un taglio vecchio! Non sono più di moda...».
«Il classico è sempre di moda!», sentenziò. «Piuttosto, non ti fermare al solito carrettino. Entra in una boutique e prenditi un abito firmato».

Adalgisa si arrese facilmente all’idea e il giorno dopo si recò proprio nel negozio la cui soglia prima non si sarebbe neanche immaginata di varcare. Le venne incontro una signora che la guardò come se avesse sbagliato porta; lei, con solerzia, le disse di essere interessata a un abito blu firmato Armani che aveva adocchiato in un programma televisivo. La signora chiamò la commessa, una stangona alta due metri che aveva appena terminato di allestire la vetrina. Questa introdusse Adalgisa in un camerino tutto specchi, la aiutò a infilarsi il prezioso abito e insieme alla sarta iniziarono con le innumerevoli modifiche, puntando spilli ovunque. Quando finalmente lo piegarono accuratamente e lo infilarono dentro una busta firmata, l’abito aveva subito così tante mutilazioni che delle sembianze originali era rimasto solo il colore.
Adalgisa si avvicinò alla cassa e chiese il saldo. Sentita la cifra, la sua pressione non si limitò a calare: fece un gran tonfo. Impallidita, all’improvviso non si sentì più le gambe; si appoggiò quindi al bancone, non proferì altra parola, pagò, e quando la signora ossequiosa la accompagnò per aprirle la porta, se ne uscì senza salutare ma con in testa chiara la possibilità di andare immediatamente al commissariato per denunciare un furto. Poi, per decompressione psicologica, si infilò in un negozio cinese e acquistò sei abiti svolazzanti, tipo caftano, fisicocoprenti, equivalenti al prezzo di un solo bottone di quello Armani. Stipò tutti gli acquisti nella medesima busta ed entrò in un negozio di abbigliamento maschile per uscirne pochi minuti dopo e avviarsi verso casa.

Gaspare la stava aspettando impaziente. Deposta sul tavolo la busta firmata, Adalgisa si lasciò cadere sulla poltrona; un piede aiutò l’altro a sfilarsi le scarpe, si massaggiò pian piano le caviglie, prese fiato e si apprestò a raccontare.
«Cercando per te, non ho trovato nulla dal taglio classico che pensi non passerà mai di moda... mi hanno detto che non solo quel taglio è passato, è addirittura defunto! Era rimasto un solo capo, un fondo di magazzino: doppiopetto nero a righe sottili bianche, ma era abbinato a un cappello nero con banda bianca... e tu non sei certo il tipo che indossa il cappello. Fortunatamente, invece, io ho trovato tutto ciò che mi occorre, ora ti mostro...».
Adalgisa portò la busta in cucina, indossò dapprima tutti gli abiti cinesi e sfilò in salotto con movenze civettuole sotto lo sguardo approvante di Gaspare. Quando apparve con l’ultimo abito, il famoso Armani costato un occhio della testa, lui sgranò gli occhi ed esclamò:
«Ci avrei scommesso che, alla fine, qualcosa dai carrettini l’avresti comprato!».

Dormirono grazie a una doppia camomilla, e il mattino successivo Gaspare propose di partire.
«Abbiamo tutto! Io indosserò i miei vecchi pantaloni di tela».
«Quelli a vita alta???».
«Sì, quelli! Insieme alla camicia azzurra a mezze maniche di quando lavoravo in posta. Poi, una volta sul posto, comprerò ciò che mi serve. Ma... a gioielli come stiamo?».
«Lo sai benissimo come stiamo! E non definirei proprio gioielli la catenina d’oro che tua madre mi regalò il giorno delle nozze, talmente sottile da scomparire tra le pieghe del collo ogni volta che abbasso il mento. Per non parlare del braccialetto regalatomi dalla madrina della cresima... Da anni non posso più metterlo perché non riesce a fare il giro del polso...».
«Allora questa è una buona occasione per andare da un gioielliere!».
Vi si recarono insieme e posarono lo sguardo su una splendida spilla di brillanti. All’udirne il prezzo le schiene di entrambi, piuttosto curve, si drizzarono di scatto, come se avessero ricevuto una fucilata al petto.
A mente, calcolarono gli anni di risparmio che pareggiavano il costo di quell’oggetto prezioso... Il gioielliere li guardò uscire senza manifestare il benché minimo stupore.
La coppia si sedette su una panchina. Dopo un po’, Gaspare ruppe il silenzio.
«Ragioniamo con calma...», disse. «Dobbiamo cogliere i benefici nell’immediato. Quella spilla sarebbe sicuramente un buon investimento, ma perché continuare a investire... nel dopo? Viviamo l’ora! Eh? Che ne dici? Hai capito?».
Lei assentì anche se non era vero.
Giunti a casa si accorsero di avere entrambi qualche linea di febbre... Si misero quindi a letto senza neanche cenare. Prima di cedere al sonno, Gaspare sussurrò:
«Non avrei mai immaginato che spendere sarebbe stato così stressante...».
Adalgisa lo consolò:
«Il fatto è che non ci siamo abituati, abbiamo sempre fatto il contrario. Imparare richiede tempo...».
«Ma noi, di tempo, quanto ne avremo ancora?».
«Faremo un corso accelerato».
E si addormentarono sfiniti.

Tutto era ormai pronto alla partenza: il taxi Mercedes prenotato, le valigie fatte. Controllarono più volte sia il gas, sia i rubinetti, avvitandoli con forza ogni volta di più. Prima di uscire di casa, volendo ancora bere un bicchiere d’acqua, non fu più possibile aprirli.
Raggiunsero l’hotel di Rimini verso sera. Mentre il taxista depositava le valigie nella sontuosa hall dell’albergo, un valletto in divisa si apprestò subito a raccoglierle con un certo stupore: erano di cuoio, con chiusure laterali a scatto, le stesse del loro viaggio di nozze. Gaspare colse quello sguardo e gli si rivolse dicendo:
«Siamo i signori Diotallevi e abbiamo prenotato una camera».
Il valletto li pregò di attendere, quindi raggiunse la reception per parlare con un tipo in divisa che, sfogliato un elegante registro, fece cenno di sì col capo.
Adalgisa notò due chiavi d’argento ricamate sui risvolti della giacca; a quel punto, per lei poteva anche essere San Pietro... ma non perché si sentisse in paradiso, al contrario, stava lì, del tutto inadeguata a tutti quei rituali che la stavano spogliando di quella poca sicurezza di cui si vestiva per ingannare se stessa.
Il concierge consegnò loro le chiavi con tono distaccato, indicando l’ascensore:
«Secondo piano, corridoio a sinistra, camera 52».
Gaspare chiese:
«A che ora si cena?».
«Perché? Avete intenzione di cenare qui?».
«Sì, avevamo pensato di sì...», rispose esitante.
«L’orario è piuttosto elastico: la sala è aperta dalle 19 alle 23».

Entrarono in ascensore, la tastiera dei pulsanti appariva così lucida e riflettente da intimidirli. Attesero un attimo, prima di premerne uno.
Percorsero il lungo corridoio silenzioso, dove echeggiavano solo i loro passi lievi. A separare le porte delle numerose camere si ergevano specchi dalle grandi cornici dorate. Vi si scorsero più rimpiccioliti e anziani di quanto lo specchio benevolo del bagno di casa li avesse mai riflessi.
Varcarono la soglia della loro stanza e si trovarono in un ingresso spazioso, dove invano cercarono i letti. Le valigie erano state poste una accanto all’altra, corpi estranei all’ambiente, che ancor più poneva in evidenza le graffiature e le piccole crepe causate dal tempo... sulla loro pelle. La camera da letto era nella stanza attigua: due letti da una piazza e mezza divisi da un elegante comodino.
Si sedettero sul divano accanto alla porta tenendosi per mano, ma anche quel piccolo conforto si affievoliva a poco a poco senza che ne comprendessero la ragione.

Ad un tratto qualcuno bussò ed entrò senza attendere risposta. La cameriera era vestita di nero e portava sul capo una crestina di organza bianca. Accese la luce e si apprestò a porre due cioccolatini sui cuscini, risvoltando il lenzuolo ai lati del letto. Adalgisa e Gaspare rimasero immobili con gli occhi chiusi.
La cameriera li vide solo dopo essersi voltata per uscire:
«Ah! I signori sono qui?», esclamò con tono sorpreso.
«Sì e no», risposero i due in coro.

Intanto si erano fatte le otto. Con un certo appetito si avviarono verso la sala da pranzo, al piano di sotto. Oltre a loro c’erano solo i camerieri in divisa che prendevano ordini dal caposala: un signore di mezza età dai capelli grigi che, con sguardo indagatore, ispezionava tutti i tavoli apparecchiati e che, dotato di buona perspicacia addestrata da una pratica quotidiana, non falliva mai nel catalogare i soggetti. Questi, osservata l’anomala coppia, intuì subito il disagio e andò loro incontro con un sorriso rassicurante, accompagnandoli al tavolo d’angolo in fondo alla sala, protetto dagli sguardi dei clienti abituali. Poiché era l’unico non apparecchiato, i camerieri provvidero immediatamente, con posate a destra e a sinistra, diversi bicchieri e altri piccoli oggettini in argento che Adalgisa e Gaspare osservarono con perplessità ignorandone del tutto l’utilità. Ripensarono entrambi, con celata nostalgia, alla cara trattoria in fondo alla strada, a pochi metri da casa, dove erano soliti recarsi una volta al mese dopo aver ritirato la pensione. Si chiamava Otello, nome che aveva sostituito il precedente Il modico, dato che molti clienti, leggendo erroneamente Il medico, disertavano il locale.

Il cameriere porse loro il menù in carta pergamena dai bordi dorati, riposto in una cartellina di pelle color tabacco, e attese. Lo aprirono con eccessiva calma, nella speranza che questi si allontanasse, ma lui rimase lì, fermo. Scelsero ciò che riuscirono a capire: minestra di legumi e patate al forno, contorno di un certo filet mignon di cui ignoravano l’esistenza e che li spinse a confidare fortemente nella provvidenza. Lo stress spegneva pian piano le cinque stelle del Grand Hotel e le sostituiva sempre più con il ricordo della trattoria Otello, dove le tovaglie erano di carta e il menù scritto a mano era affisso alla porta a vetri recitando così: “Specialità della casa: mercoledì TRIPPA, giovedì GNOCCHI, sabato BACCALÀ”.

Sopraggiunse un altro cameriere con la lista dei vini. Scelsero uno champagne: cento euro una bottiglia... e non la più costosa. Il cameriere cercò con lo sguardo il caposala, che non li aveva mai persi di vista. Colto al volo il problema, questi si avvicinò e con fare garbato fece loro notare che gli zeri erano due, non uno come forse loro avevano immaginato. Gaspare rispose indispettito:
«Abbiamo letto e capito benissimo. È esattamente ciò che vogliamo!».
Così lo champagne arrivò in un secchiello pieno di ghiaccio, il collo della bottiglia ricoperto da un tovagliolo bianco. Il sommelier lo versò nelle coppe, aspettando di sapere se fosse di loro gradimento. Gli arrivarono subito all’orecchio due rutti mal trattenuti, al che il caposala, sempre sorridente e delicato, si avvicinò per consigliar loro un ottimo Sangiovese, vino locale altrettanto frizzantino ma privo di sgradevoli sorprese. Lo champagne fu fatto portare in stanza e venne sostituito da quel vino rosso che sortì un effetto così benevolo da far dimenticare loro le scale, preferendo di gran lunga l’ascensore al momento di rientrare in camera.

Vi si accomodarono meno timorosi, accendendo il lampadario centrale. La luce gli schiaffeggiò gli occhi. Spento subito l’interruttore, preferirono il lume sul comodino, il cui effetto ridimensionava l’altezza dell’ampio soffitto.
Gaspare si sedette sul divano prima di affrontare l’incognita di quel letto di anomale dimensioni in cui avrebbe dormito da solo. Adalgisa, grazie alla forza propulsiva residua del Sangiovese, gli sussurrò:
«Chiudi gli occhi caro, voglio farti una sorpresa...».
Aprì la valigia per estrarne una vecchia busta in plastica con dentro un completino intimo baby-doll acquistato non ricordava neanche quanti anni prima e che non aveva mai avuto il coraggio di indossare. Cercò di infilarselo con enorme fatica, ma il frivolo indumento non riuscì a sorpassare il valico del seno, sul quale si appoggiava il volant dell’orlo. Rimanendone imprigionata, chiese aiuto a Gaspare per sfilarselo da dosso e questi, che nel frattempo si era assopito per un po’, non capì davvero che razza di sorpresa fosse quella!

Con coraggio, evitando accuratamente di pensare a tutto il costo psicologico e materiale di questa esperienza, si infilarono ognuno nel proprio letto. Allungarono le braccia sperando nel conforto di un contatto, ma non riuscirono a raggiungersi. Cercarono di dormire, concedendosi intervalli di sonno da cui, di tanto in tanto, emergevano chiedendo:
«Ci sei ancora?».
«Io sì... e tu?».
La lampada sul comodino era rimasta accesa e illuminava il tavolo dove era stato posato il secchiello con il ghiaccio ormai sciolto, in cui la bottiglia di champagne giaceva con l’etichetta parzialmente scollata che in parte fuoriusciva dal bordo, come una bandiera ammainata poco prima di affondare.

Si svegliarono il mattino dopo con un forte cerchio alla testa e saturi di emozioni a cinque stelle. Con tacito accordo chiusero le valigie, raggiunsero la reception e chiesero il conto. L’addetto lo porse aspettando di scorgere sui loro volti uno sguardo sconcertato, ma fu lui a rimanere sorpreso quando Gaspare, senza muover ciglio, gli chiese:
«Desidera un assegno o li preferisce in contanti?».
Fu in quel momento che Adalgisa si sentì davvero una signora, anzi, la sua signora!
Pagarono in contanti estraendo biglietti di grosso taglio dal portafogli gonfio; poi, con imprevista generosità, Gaspare allungò una banconota da cento euro con mano malferma. E con voce impostata aggiunse:
«Da dividere con il personale dell’albergo...».
L’addetto ringraziò e deglutì.
Uscirono dall’imponente ingresso stremati, ma con la parvenza di una coppia normale.

Fecero colazione in un bar all’aperto e mentre Adalgisa indugiava a intingere il cornetto nella tazza di cappuccino fumante, distratta dal transito dei villeggianti, Gaspare le chiese di attenderlo seduta lì. Attraversò quindi la strada, si infilò in un grande magazzino che stava proprio di fronte e ne uscì poco dopo indossando una camicia hawaiana a fiori, dei pantaloni viola che gli arrivavano giusto al ginocchio e un cappello avana calcato in testa, con la tesa calata sulla fronte. Raggiunse Adalgisa e le si sedette di fronte.
«Scusi, ma quella sedia è occupata da mio marito che sta per arrivare», disse lei non avendolo riconosciuto.
Ripresasi dalla sorpresa si alzò e insieme abbandonarono il tavolino del bar per raggiungere l’agenzia viaggi più vicina, in cui cercare offerte per pensioni di un certo livello e a dimensione umana. Fu così che trovarono Le caravelle.

Si trattava di una pensione ricavata da una graziosa villetta fine Ottocento. Dopo vari passaggi di proprietà, la dirigeva ora una signora sulla cinquantina, di origini genovesi, il cui dialetto ogni tanto si infiltrava nel romagnolo acquisito. Viveva con lei il padre ottantenne, marinaio di lungo corso che aveva trascorso gran parte della sua vita sulle navi mercantili. La signora cucinava e riceveva i clienti, e fra questi giunsero Gaspare e Adalgisa. La stagione stava volgendo al termine e delle sette camere a disposizione solo tre erano occupate.
Era libera la più bella, quella d’angolo, con la terrazza sporgente sul mare. Era anche la più cara e fu scelta proprio per questo. Il personale era composto da una ragazza del luogo, addetta alle camere, e due ragazzi senegalesi impegnati uno in cucina e l’altro ai tavoli. Un ragazzo cingalese curava il giardino; vi si stagliavano, formando un arco, un glicine e una vite sterile, fusi dai rami intrecciati. La vite era tutta rossa, e pareva che manifestasse pudore per quell’inconsueto intreccio amoroso.
Sotto quei rami, che formavano un bel pergolato, alcune sedie di vimini creavano un piccolo salotto. Seduti lì non si vedeva il mare, tuttavia se ne sentiva sia il respiro che l’odore.

Adalgisa e Gaspare facevano colazione sul terrazzo della loro camera da letto ogni mattina. Poi lei, seduta sulla sedia a sdraio, vuota di pensieri, si perdeva a fissare il mare, mentre lui, scansate le tazze, poggiava sul tavolo il quaderno dalla copertina nera, in cui, oltre alle rotte dei loro viaggi immaginari, aveva segnato i prezzi approssimativi, assai distanti dal costo della stanzialità attuale. Anche Gaspare, quindi, si sedeva con prudenza e fatica sul parapetto del terrazzo, respirava a lungo, chiudeva gli occhi e si immaginava su una nave diretta verso le isole del sud. Il cameriere di colore, che entrava per sparecchiare il loro tavolo, alimentava in modo assurdamente reale il suo sogno.

Il pomeriggio, in attesa della cena, sedevano sotto il pergolato in compagnia del padre della proprietaria, che raccontava loro le varie tappe in cui le sue navi avevano fatto sosta. Ogni volta entrava in perdente competizione con Gaspare che, pur non avendo mai viaggiato, conosceva a memoria, centimetro per centimetro, le linee che si incrociavano sul mappamondo che instancabilmente aveva percorso per anni nella cucina di casa sua.
Un pomeriggio, arrivò alla pensione una coppia di signori bolognesi, appena rientrati da un viaggio in Namibia. Intendevano riposarsi per un paio di giorni. Gaspare, per coinvolgere Adalgisa che da un pezzo era uscita dal sogno, le chiese in quale continente si trovasse la Namibia, ma lei rispose:
«Non so come faccia quella signora a camminare su quei tacchi!».
E la conversazione finì lì.

Un temporale in agguato preannunciava l’autunno. Rientrarono in salotto, dove li aspettava il camino acceso. Gaspare salì in camera per prendere il quaderno dalla copertina nera, strappò i fogli uno ad uno e li gettò nel fuoco, alimentandone le fiamme. Per ultima la copertina, che resistette più a lungo e si spense con un fioco bagliore, formando per un attimo un’eterea scultura contorta e trasformandosi poi in cenere. A quel puntò fissò Adalgisa negli occhi e dolcemente le disse:
«Domani torniamo a casa».



Tendenze

Fatico non poco a capire perché si debbano capovolgere certe funzionalità collaudate senza ricavarne vantaggi, anzi sminuendo quelli per le quali erano state create...
È la tendenza? È la moda? Ma la moda significa inventare qualcosa che sia soprattutto bello da vedere... Ora non è più così: arrivano messaggi scomposti, stupidamente trasgressivi...
Scarpe con i buchi per infilare i lacci, in particolare quelle di foggia sportiva: i lacci non vengono adoperati oppure addirittura tolti e quindi la chiusura completamente inutilizzata.
I ragazzi portano il berretto con la visiera (nome che non permette di sbagliare una specifica collocazione...) al contrario, cioè sulla nuca. Dovrebbe chiamarsi, anziché visiera, nuchiera. Il risultato è che l’elastico regolatore finisce sulla fronte, giusto ad incoronare una stupida contraddizione nella giusta sede.
E che ne dite delle mutande a vista? Siccome fanno parte dell’intimo, si rendono pubbliche, con la marca in bella mostra, evidenziando quel gran genio del produttore di un indumento già noto nel medioevo.
Posso suggerire a queste menti da premio Nobel una rivoluzione in più? Infilatevi le calze sopra le scarpe senza lacci, poi scambiate la destra con la sinistra e... fatevi qualche chilometro di corsa. Se non dovesse bastare per mettere a riposo la mente produttrice di banalità di cui non si avverte il minimo bisogno, allora permettete un ultimo e definitivo consiglio: prendete un fucile, capovolgetelo come fate con il berretto a visiera e sparate. Come va, va.



Il Ponte della Musica

Ponte della Musica ''Armando Trovajoli'', Roma La mia passeggiata giornaliera terapeutica è sempre scarsa di entusiasmo iniziale, ma poi si carica cammin facendo.
Attraverso il Ponte della Musica, mi fermo a metà e guardo il Tevere scorrere lento, sfiorato solo dalle ali dei gabbiani: il loro stridio acuto non scompone la stanzialità delle papere che, galleggiando in piccoli gruppi famigliari, ripetutamente spingono il capo nell’acqua come a voler cercare qualcosa che non trovano e ne danno delusa conferma con lo scuotere della graziosa testolina in senso negativo. Ma non si arrendono e replicano la stessa mimica.
Scendo poi le scale e cammino lungo l’argine con passo che vorrei più leggero e veloce: procedo sulla pista ciclabile perché il terreno non è accidentato. I ciclisti e i maratoneti, con caschi da astronauti e contachilometri appeso al collo, in virtù della mia età mi permettono l’invasione di campo con sorrisi tolleranti e benevoli. Mi sfrecciano vicino ad alta velocità mentre io mi sento un bradipo che si è fermato per una sosta e... a sua insaputa sta continuando a camminare.
Un giorno, dall’altra parte della strada, avanzando in senso contrario al mio, un signore che sfoggiava una tuta color avana mi venne incontro per chiedermi dove portavano i gradini che da un lato salivano al piano stradale. Sembrava smarrito, capitato lì per caso: poteva avere dai settanta agli ottant’anni, comunque ben portati. Stava pulendo gli occhiali tenendoli in mano, mentre mi guardava con gli occhi miopi a fessura che certamente non gli permettevano di mettermi a fuoco chiaramente. Tradito dal tono della mia voce, che stranamente è l’unico elemento che non segue il processo di invecchiamento, riemerse istintivamente in lui l’atteggiamento e la postura del seduttore di un’epoca che fu. Ma l’incanto durò poco: il tempo di inforcare gli occhiali, guardarmi e fu subito chiara la sua delusione. Capii, finsi di ignorarla, gli diedi le indicazioni e per bontà d’animo aggiunsi che non l’avrebbe certo spaventato quella gradinata, data la sua ancor giovane età e l’agile figura. Si riprese subito dal rammarico... e nel salutarmi accennò all’atto di un baciamano mentre eravamo vicini a un cassonetto della spazzatura ricolmo di ogni tipo di pattume e con diverse bottiglie di birra a terra. Con un saltello raggiunse i gradini e arrancando iniziò la salita, ma feci ancora finta di non accorgermene.
Attraversai l’arco di un secondo ponte, il Duca D’Aosta, e mi lasciai cadere come un naufrago su una panchina, traguardo della mia passeggiata e sosta indispensabile al recupero delle energie necessarie per il ritorno. Fui invasa mio malgrado da un sottile disappunto per i miei vicini novant’anni, che chiudono ermeticamente ogni velleità come quella riaffiorata inconsciamente in quel brevissimo incontro che aveva portato in superficie emozioni troppo lontane di un tempo ormai passato ma vissuto.

Oggi la giornata è grigia, minacciosa di pioggia, il cielo è basso, incide sull’umore e pesa sul fisico. Mi faccio una violenza e munita di ombrello, sul quale mi appoggio sperando di non doverlo aprire, intraprendo la solita passeggiata senza l’illusione di un miglioramento fisico ma nella speranza di mantenere il più a lungo possibile l’attuale stato.
Giunta alla mia panchina (ce ne sono tre...), vedo su un’altra una donna non più giovane che appoggiata allo schienale faceva delle flessioni. I capelli, caduti in avanti, le coprivano il viso e mostravano alla radice le tonalità arcobalenanti dei tentativi di coprire quelli bianchi che, ostinati, prevalevano su tutti gli altri dopo aver oltrepassato la soglia del grigio, che aveva comunque contaminato tutti i colori.
Dalla mia postazione osservavo le sua guance rugose che d’un tratto si erano fatte rosse, congestionate. Con una vocina adeguata allo sforzo che stava compiendo, mi chiese se potevo darle una mano aiutandola ad alzarsi, perché era rimasta bloccata. La faccenda si stava facendo seria... e le mie mani non hanno più la forza di un tempo.
«Guardi...» mi disse «se lei si avvicina io mi appoggio alla sua spalla sinistra».
«No, no.» risposi. «Quella è troppo artrosica... Semmai a quella di destra, che ancora regge».
Feci una giravolta, mi posizionai e lei si aggrappò artigliando il braccio per arrivare alla spalla; temetti che il suo peso consistente potesse compromettere anche quella e non avendo più altre spalle su cui contare, entrai nel panico. A manovra conclusa si sedette vicino a me e prese atto della situazione che non era momentanea e che non le lasciava scampo, visto che era conseguenza di un vigore giovane che stava finendo. Avvilita mi confidò l’età che aveva, che era molto vicina alla mia. Lei si sentiva sconfitta dal peso degli anni e dopo aver preso fiato, sotto un cielo sempre più plumbeo, mi disse che non le rimaneva che la rassegnazione.
«Guardi...» risposi «io ci sono già arrivata a quell’età e mi sto adeguando...».
«Beata lei... io non ci riesco, faccio fatica, capisco di non avere alternative e tristemente mi viene in mente Nerone, quando spodestato e inseguito dai nemici, assieme ai suoi schiavi fedeli che lo aiutavano nella fuga verso la Piazza del popolo, gli fu consigliato di fermarsi per non dare loro l’onore e la soddisfazione, anticipando ciò che questi avrebbero fatto comunque. Dopo vari tentativi di suicidio, gli schiavi gli fecero presente che togliersi la vita non era una disgrazia, tutto sommato. Lo avrebbe preservato dalla decadenza e dalla vecchiaia, che sarebbe stata spietata. Se lui non ne aveva il coraggio, lo avrebbero aiutato loro. E mentre gli tenevano ferma la mano, gli elencavano ciò che la morte gli avrebbe risparmiato: l’abbassamento della vista, dell’udito, il cammino incerto se non l’immobilità, l’impossibilità di una buona masticazione per la perdita dei denti, il dolore delle articolazioni... A quel punto Nerone disse, piangendo: “Affondate!”».
Finito il racconto la signora si presentò: si chiamava Vita, diminutivo di Evita.
Ci incamminammo su strade opposte. Avevo voglia di piangere... Lo fecero per me le mille lacrime di pioggia che incominciarono a scendere copiose.
Pensai: «Apri l’ombrello... Domani chissà... forse ci sarà il sole».



Le votazioni del ‘46

La testimonianza di Liliana e di altre donne, a settant’anni dal referendum che portò gli italiani e le italiane (ammesse al voto per la prima volta) a scegliere tra monarchia e repubblica.

Volere votare è un programma di Giovanni Paolo Fontana. Regia: Fedora Sasso e Graziano Conversano. Produttrice esecutiva: Sara Mariani.




La retina

Non era molto alto, ma lui non ci faceva caso. In fondo – diceva – la sua era la stessa statura di Gabriele D’Annunzio, del quale, in compenso, aveva la medesima fama amatoria. Era dotato di sguardo accattivante e ironico che lo rendeva simpatico.
Aveva superato la cinquantina... Lievi problemi cardiocircolatori l’avevano costretto a stringere il campo di conquiste a due donne, unificando in loro il suo ideale di fisicità femminile: la moglie era dotata di un sedere a due piazze ma scarsa di torace, biondastra con capelli radi e sfibrati, lo sguardo indagatore, in perenne ansia dubitativa mentre frugava per cercare conferme di un tradimento di cui aveva sentore ma non le prove; l’amante si chiamava Eva, piatta di sedere ma con un seno generoso e straripante, il giro vita abbastanza sottile. La parte abbondante di sotto dell’una e la parte abbondante di sopra dell’altra... Come una clessidra. Avendone lui la disponibilità, gestiva alternativamente le sue fantasie erotiche felliniane.
La madre era insegnante, e per pubblicizzare la sua cultura gli diede il nome Omero; la bassa scolarizzazione di allora nel paese faceva sì che quasi tutti ignorassero quale fosse il personaggio di riferimento e lo chiamarono più convintamente Òmero l’anno successivo, quando nacque sua sorella, supponendo che, data l’eccentricità dell’insegnante, l’avrebbe chiamata Tibia: soprannome che le rimase appiccicato per sempre e in fondo da lei preferito a quello vero e ingombrante di Penelope.
L’amante Eva era vedova da parecchi anni, con alle spalle parecchie esperienze consolatorie nelle quali aveva affondato il dolore per la perdita del marito. Ora aveva stazionato le sue emozioni presso colui che le gestiva con consolidata perizia. Eva aveva capelli ricci che, se non lo fossero stati, le sarebbero arrivati alle caviglie. Erano tanti e faticava a gestire quel trofeo; li teneva a bada in un recinto di retina dello stesso colore rossastro, con i quali si confondeva e che – a raduno avvenuto – chiudeva alla nuca con un nastro che, poggiato su quella massa, quando lei camminava, dondolava sulla schiena.
La liberazione della criniera avveniva una volta a settimana, il sabato, quando lui l’andava a trovare; ogni otto giorni, calcolati rigorosamente per enfatizzare le emozioni dall’attesa all’incontro. Per l’evento, lei, lavati i capelli, li sciacquava con un infuso di fiori di verbena che coltivava appositamente sul balcone. E la liberazione della chioma avveniva quando lui arrivava e piano piano le sfilava la retina con la voluttà feticista di un indumento intimo. Alla sua comparsa, lei, aperta la porta, gli tendeva le braccia con la solita frase da copione che a lui piaceva tanto, sorvolando sulla confusione tra storia e leggenda: «Oh, Omero, mio Omero...». Lo stringeva al seno calandosi nei panni di Giulietta, una Giulietta un po’ attempata e senza la classica treccia. Si sedevano sul divano... Lui con le mani le scuoteva la chioma che, se prima domata, ora si espandeva da protagonista in completa libertà. Le copriva anche il viso, arrivando oltre le spalle: era come un tucul africano dove Omero faticava a trovare un ingresso per infilarsi e inebriarsi del profumo di verbena e dare sfogo alle sue fantasie erotiche. Lei, coperta solo di sé stessa, si sentiva realizzata, unica protagonista al centro della scena; sentiva esaltare il suo ego, del quale stava scoprendo solo così l’esistenza.
Omero, dopo l’incontro, appagato, faceva due volte il giro del paese per smaltire l’euforia provocata dall’adrenalina. Rientrando in casa e prevedendo lo sguardo dubitativo e rimproverante della moglie, giocava d’anticipo, giustificando il ritardo con le braccia in alto a cerchio che allargava e chiudeva come a dire «Basta con la solita storia. Non ne posso più». Poi le lasciava cadere lungo i fianchi con finto scoramento, come fa l’uomo con la bandierina a scacchi che dà il via alle corse automobilistiche, senza rendersi conto che anche lui la bandierina ce l’aveva, ma non era a scacchi... Era la retina di Eva, rimasta impigliata nell’ultimo bottone della manica della giacca. Svuotata del suo contenuto istituzionale, svolazzava sgonfia e inerme, spia involontaria del tradimento. In quell’attimo Omero pensò con quale mezzo avrebbe potuto eliminare per sempre la moglie: spezzare quella clessidra, buttare la metà appartenente a lei, capovolgere l’altra metà per formare un calice e brindare alla libertà, adagiato su di un cuscino cosparso di capelli odorosi di verbena.



La bicicletta Legnano

Appena raggiunti i diciotto anni, ai giovani di oggi viene regalata un’automobile... come premio per gli esami di maturità superati e non. Già durante le medie vengono in possesso di vari tipi di motorino, per abituarli a velocità... su gomma.
Io ho avuto la bicicletta quando avevo quindici anni, non prima di aver ricevuto il consenso da parte di tutta la famiglia, riunita a consiglio in occasione dell’acquisto. Avevo imparato a pedalare su quella di una vicina di casa che lavorava in un cotonificio; quando faceva il turno di notte, dormiva di giorno e la bicicletta l’appoggiava al muro sotto il portico.
Io la prendevo sperando che non se ne accorgesse; le prime volte senza salirci, spingendo il manubrio e facendo il giro della piazza, per entrarci in confidenza, un po’ come si fa con i cavalli. Poi, avvertendo una reciproca fiducia e sperando che non mi disarcionasse, salivo in sella mantenendo un equilibrio dapprima tremolante e man mano più sicuro. Infine la riponevo sotto il portico con la convinzione che la proprietaria non se ne sarebbe accorta.
Ma non andò così. Dopo un po’ di tempo, avendo subodorato qualcosa, iniziò a portarsela dentro casa. Fu a quel punto che implorai di averne una tutta mia.
Cadute le resistenze, si decise che l’avrebbero acquistata. Ma poiché la spesa era ingente, insistettero che fosse di buona marca, per fugare il timore di una rottura dopo appena cinque o sei anni. Chiedemmo così consiglio a uno zio che, essendo meccanico, se ne intendeva. Ci disse che la migliore in assoluto era la Legnano, che portava ben visibile il marchio sulla fiancata e che sarebbe durata tutta una vita, non mettendo in conto che sarei arrivata a novant’anni...
Il prezzo, in base al costo della vita, era in effetti molto alto. Tuttavia si decise di proseguire con l’acquisto e si contrattò su ogni accessorio, poiché in base a quelli la somma da pagare sarebbe aumentata. Gli accessori consistevano in una retina che avrebbe coperto la ruota posteriore, al fine di impedire che la gonna si infilasse nei raggi. Indossare i pantaloni era allora impensabile (io li mettevo quando andavo a sciare, subendo un pieno di critiche)... Ci sarebbe stato poi il contachilometri, ma fu ritenuto del tutto inutile e quindi scartato. Stessa sorte toccò alla forcella vicino ai pedali, che abbassata permetteva alla bici non in movimento di rimanere in piedi senza appoggio.
L’unico altro accessorio preso in considerazione fu il campanello, che con il suo tintinnio avrebbe evitato scontri e investimenti. «Ormai», disse mia madre, «fatto trenta, facciamo trentuno». Venne installato sul manubrio; era d’acciaio lucido, grande quanto una grossa cipolla, e funzionava spingendo una lametta laterale con il pollice, senza staccare la mano dal manubrio.
Quando finalmente entrai in possesso della bicicletta e vi montai sopra, ogni motivo era valido per suonarlo quel campanello. Anche se vedevo un gatto a distanza tale che, prima di essergli vicino, se ne sarebbe andato spontaneamente. Ma io avevo la sensazione di suonare il clacson di una Ferrari...
Sono passati molti anni e il ricordo si era affievolito, quando per caso l’ho rivista attaccata al muro del solaio, a testa in giù. Aveva conservato l’orgoglio del suo lignaggio, la scritta Legnano ancora visibile. La polvere l’aveva un po’ ingrigita, ma molto meno di quanto lo fossero i miei capelli. Anche la retina aveva perso i suoi colori, ma era ancora lì come una grossa ragnatela, in attesa del vento che la ruota immobile non avrebbe più prodotto.
Solo il campanello aveva mantenuto la lucidità di allora. Premetti la lametta con la poca forza che mi è rimasta nel pollice. Ne uscì un suono che tradì gli anni: rauco e intermittente, come un lamento non rassegnato al tempo.



Mutamenti

I giovani non hanno nostalgie per ciò che non è un loro vissuto, e sono esenti da paragoni. Nulla perdono, perché nulla hanno conosciuto.
Si nutrono di un presente che non lascia tracce, spinto dal domani che, per la fretta, calpesta l’oggi e non produce ricordi, abortiti prima di nascere. L’inevitabile corsa della tecnologia impedisce il formarsi della cellula che trattiene la memoria.
Non esprimo giudizi, è una constatazione, faccio un paragone con... i superstiti della mia generazione, che ne separa ben quattro dalla loro. I ricordi prodotti dal lungo vissuto hanno lasciato nella memoria incisioni che creano rimpianti e nostalgie di quotidianità lontane. Ad esempio, un tempo, entrando in casa, il profumo annunciava la presenza di un cesto di fragole sul tavolo della cucina. Ora, anche se il cesto c’è, è privo di odori e le fragole, per un’artificiale mutazione genetica, sono diventate grosse come pomodori; l’interno di questi è mascherato da un’esteriorità con un maquillage carico di rosso vermiglio che ne contrasta il vuoto interiore, diviso in compartimenti biancastri contenenti semi verdi che assicurano il peggioramento della dinastia futura. Sono longevi, durano tutto l’anno... anche oltre.
Solo le stagioni avevano la formula per gli ingredienti giusti e ne stabilivano l’interno compatto, la durata. È il ciclo della vita: si nasce e si muore. Ora non muoiono più. Come Dorian Gray, hanno stretto un patto con il diavolo, al quale hanno venduto il sapore, la forma e il profumo.



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