Per Marta,
con un affettuoso pensiero affidato alla carta...


Il bruco e la tartaruga

Un bel dì una vecchia tartaruga
passeggiava riflettendo sul bagnasciuga.
Incontrò un bruco: anche lui non andava di fretta,
e la costrinse di malavoglia a dargli retta.

Allora lei gli disse un po’ seccata:
«Tu da me devi star distante.
Non lo vedi? Io sono una benestante.
Ho una casa di proprietà,
mentre tu strisci di qua e di là.»


«Oh, questa è bella!»,
rispose mentre gli si torcevano le budella.

In un batter d’occhio
si ripeté il miracolo del cocchio.
E fra, della tartaruga, mille stupori,
gli spuntarono due ali di tutti i colori.

«Noi farfalle siamo così,
la nostra casa è il vento...
Ci viviamo col cuore contento.
Entriamo e usciamo
senza chiudere neanche l’uscio...»

E la tartaruga incominciò a pensare
che forse le stava stretto il guscio.

«Cara mia,
viviamo di fantasia.
La nostra casa sono il sole, le nubi...
Così siamo felici,
e non paghiamo neanche l’I.C.I.»




A Viola,
che di casa è la piccoletta,
dedico questa favoletta.


Il tacchino cerca moglie

Sbarcò un dì all’aeroporto di Fiumicino,
arrivato dall’America, il signor tacchino.
Era di mezz’età.
Lì aveva fatto fortuna...
e aveva avuto cinque mogli più una.

Però gli era andata male:
tutte le volte rimaneva vedovo sotto Natale.
E siccome non gli eran passate le voglie,
venne in Italia deciso a riprender moglie.

Si ricordò di una sua vecchia cugina...
Faceva la sensale, era una tacchina.
Lei passò voce in tutte le aie:
si presentarono in tante, pennute e gaie.

Ad aggiunger confusione
arrivò anche un pavone.
Salì su una sedia vuota
e borioso sfoggiò la ruota.

Arrivò per prima una colombella...
«Troppo giovane, finirebbe subito in padella.»

Poi fu il turno d’una merla...
elegante, tutta nera.
La scartò: «Troppo ciarliera.»
Conosceva perfino la lingua degli umani,
avrebbe parlato oggi e anche domani.

Poi una gazza con una bellissima coda,
tutta frastagliata... come oggi van di moda.
Si informò sulla famiglia:
era soprannominata i piglia piglia.
Prima o poi sarebbe finita in prigione...
Gli piaceva, ma la scarto e se ne fece una ragione.

Arrivò poi un’oca,
e sperando di piacere
rubò due penne al pavone
e se le infilò nel sedere
dicendo: «La penna è il mio blasone.
Con lei, nei secoli, si è scritto a profusione.»

Si fece una risata un vecchio ghiro:
«Ormai sei superata: hanno inventato la biro.»

Arrivò per ultima una gallina,
un po’ claudicante e con un grossissimo sedere.
Tutti si chiesero: «Ma come può pensare di piacere?»
E lui pensò: «Io su quella m’approdo:
son certo che invecchia per via del brodo.»


E la scelta cadde sull’insignificante gallina
che gli avrebbe procurato, col bacon, la frittata ogni mattina.



Pierino e la sorellina

Stava Pierino
a giocar tutto solo in giardino.
Passò di lì sua mamma con un gran pancione,
lo vide triste e ne capì la ragione.
Gli regalò una sorellina molto bella.
Era bionda, la chiamaron Della.
Non la volle. Fece più d’un capriccio
e si rinchiuse come un riccio.
«Portatela via, la voglio veder morta...»,
mentre piangeva dietro una porta.

La madre, disperata,
comprò dell’affettato
E, detto fatto,
glielo mise dentro un piatto.
Lui mangiò una fetta di morta... della,
eliminando di colpo sua sorella.

E credendola così suo fratello,
non fu più solo
e con lui giocò a pallavolo.



Arcibaldo e l’uccellino

Andava forte con la moto Arcibaldo,
come se la velocità fosse in saldo.
E correndo a più non posso,
investì un uccellino
per non finire lui in un fosso.

Si rese conto, fece un salto,
vedendolo esanime sull’asfalto.
Lo tirò su con una mano
e lo portò a casa...
questa volta piano piano.

Lo mise tramortito in una gabbietta
e poi uscì senza alcuna fretta.
Mise prima due grani di miglio
e l’acqua in una ciotolina
sperando di non trovarlo morto
l’indomani mattina.

Si riprese, l’uccellino.
Vide la ciotola, l’acqua e le sbarre,
e in preda alla disperazione
credette di essere finito in prigione.
Si ricordò di essere debole di vista
e si convinse di essere stato lui
a investire il motociclista.



Una favola un po’ osé... sull’arca di Noè

Com’è, come non è...
se ne stava un dì meditando Noè,
quando vide alla sera
avanzare un’enorme nube nera
e poi un lampo precedere un grosso tuono:
il tutto non faceva presagire nulla di buono...
La cosa gli fece paura e non gli piacque.
Capì che sarebbero stati tutti sommersi dalle acque.
E di ciò non aveva tutti i torti.
Se non prendeva provvedimenti, sarebbero tutti morti.

Ci penso su, e una grossa barca lui fece
e di animali lasciò entrare una coppia di ogni specie.
Per non creare confusione,
staccò ad ognuno l’organo di riproduzione
a patto che, a diluvio finito,
il pezzo ad ognuno avrebbe restituito.

E così fu. La pioggia finì, il tempo si mise al bello
e lui, come da promessa, incominciò a fare l’appello.
Tutti, in maniera zelante,
si riprendevano il pezzo mancante.
Non rispose subito... esitò un attimo l’elefante.
Era distratto. La sua mente era distante.
Approfitto dell’attimo la pulce... Non ci pensò su parecchio,
e al suo compagno, eccitata, sussurrò qualcosa all’orecchio.
Cosa gli disse lo sa solo Iddio.
Lui esitò un attimo, alzò la zampetta e gridò forte: «Quello è mio!»



La cicala e la formica

Dell’estate era ormai finita la stagione
ed era la vecchia formica prossima alla pensione.
Di artrosi e di fatica tutta dolorante,
riunì le amiche... ed eran tante.
Disse loro: «Non so se e come farò a superare l’inverno.
Il mio cappotto troppo liso non può durare in eterno.»

Decisero le formiche in fretta, in fretta,
di regalarle, di pelliccia, una giacchetta.
Fecero un gran consiglio:
decisero che sarebbe stata di coniglio.
Era tutta una vita che lavorava...
Quel dono proprio se lo meritava.

Entrò per la prima volta in un lussuoso negozio.
Fu invasa da un profumo che ben conosceva: si chiamava ozio.
Era quello della cicala che, sempre cantando,
ben dieci pellicce stava comperando.
E fra una tartina al caviale e un bicchiere di champagne all’arancia,
disse alla formica che stava rientrando in Francia,
dove andava a svernare da un amico molto generoso e galante.
Lui la voleva sempre impellicciata ed elegante.

Le chiese allora la formica se, rientrando, potesse farle un gran favore.
«Ma certo!», le rispose. «Se non è faticoso, te lo faccio di tutto cuore.»
E guardandola da sotto in su
le aggiunse: «Tutt’al più ci mando la servitù.»
«Ti ringrazio. Tu conosci la mia calma zen
e sai che sono paziente anche più di un mulo.
Ma... a Parigi devi andare da un certo signor La Fontaine
e dirgli che, dall’Italia, la formica lo manda affanculo.»



La festa degli asterischi

In una giornata un po’ cupa e mesta
gli asterischi decisero di fare una festa;
una festa ristretta, tutti fra di loro,
nessun altro fuori dal coro...
tutt’al più qualche cancelletto
che frequentavan per lavoro e non per diletto.

Iniziarono la festa e le danze,
ma sul più bello
dalla porta suonò il campanello.

Aprirono stupiti e un po’ diffidenti
e sulla soglia trovarono un puntino che sorrideva a tutto denti.
«Non fatemi rimaner qui fuori...»,
supplicò loro porgendo un mazzo di fiori.
«Ma tu sei solo un lontano parente,
e con la festa non c’entri niente.»
Sgranò gli occhi, li alzò al ciel:
«Ma no, son dei vostri... Stasera mi son messo il gel!»



L’ermellino

L’inverno non era ancora del tutto finito, ma la primavera nemmeno lontana.
Il riccio, stanco del buio, smanioso e impaziente, uscì dalla tana
mezzo assonnato, anchilosato per l’immobilità del lungo letargo.
Stordito da tanta luce, strabuzzò gli occhi e poi guardò in lungo e in largo.

Salutò la talpa che lì vicino stava scavando una galleria.
Semicieca, non lo vide ma riconobbe la voce e rispose al saluto con grande cortesia.

Decise di fare una passeggiata... il lungo digiuno l’aveva smagrito.
Gli faceva pressione, per riprendere peso, un forte appetito.
S’incamminò verso un conosciuto e vecchio casolare:
lì, tra il giardino e l’orto, avrebbe trovato qualcosa da mangiare.

Camminava sovrappensiero, quando, sorpreso, incontrò un ermellino
che lo sbeffeggiò salutandolo con un: «Ciao, porcospino...
Come sei brutto così spinoso!
E con quell’incedere goffo... sei ridicolo... antiestetico... Guardarti proprio non oso.

Contempla me: ora cambio la pelliccia, ne metto una di un altro colore.
Lo faccio ogni anno, quando l’inverno muore».
E tutta bianca, sinuosa e lieve,
scomparve assieme all’ultima neve.

La incontrò l’anno dopo: stava al collo di una signora, attorcigliata;
non si muoveva, pareva addormentata.

Era allora di gran moda...
Lui la riconobbe per quel puntino nero che aveva sulla coda.
Lo salutò, in quella visione assorto,
ma lui non rispose: era morto.

Rifletté: «La bellezza troppo esposta certo attira,
ma poi non si conosce l’intenzione di chi ti ammira».
Un aculeo si legò a una zampa...
e di quel ricordo ancora campa.



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