La mia vita



Luciano Parte prima

Nacqui (“Io lo nacqui...”, direbbe Totò) il giorno 26 maggio dell’anno domini 1938. Era un giovedì, festa dell’Ascensione. Nell’altro secolo si usava ancora dare al neonato il nome della festività celebrata il giorno della nascita. A mia madre, fortunatamente, venne il dubbio che Ascenzio potesse non piacermi. E me lo mise come terzo nome. Si usava anche dare al neonato primogenito il nome del nonno, e forse questo si usa ancora. Ma anche qui volle evitarmi un’imposizione che da grande avrei potuto rimproverarle e me lo mise per secondo nome. Mi chiamo Luciano, Giuseppe, Ascenzio. Il signorino Ascenzio era il giovinetto di pariniana memoria, di nobile famiglia ma di ignoranza grassa che traduceva in latino esercito distrutto in exercitus lardi. Non ho per fortuna seguito le sue orme negli studi. Anzi me la sono sempre cavata piuttosto bene.

I miei primi ricordi risalgono, ovviamente, alla guerra. Ricordo che, con l’incoscienza dell’infanzia, quando suonava la sirena che preannunciava un’incursione aerea, io correvo ad affacciarmi da una terrazza che avevamo, per guardare la gente che correva in strada e questo mi divertiva molto, mentre mia madre mi cercava disperata per tutta la casa per portarmi giù al rifugio.

Ricordo di una anziana signora ebrea, la signora Tagliacozzo, che abitava al piano di sotto. Il figlio era nascosto altrove e mia madre teneva i contatti tra lui e la madre. La vecchia signora era rimasta in casa non solo per l’età ma anche perché si pensava che le persone anziane fossero al riparo dalle persecuzioni naziste. Un giorno mia madre fu avvertita da qualcuno che i nazisti stavano arrivando per venire a prendere la vecchia signora ebrea. Senza pensarci un attimo l’andò a prendere, la porto su in casa nostra, la fece sedere in salotto e disse a me che giocavo li accanto di chiamarla nonna. I tedeschi arrivarono e non trovando nessuno in casa Tagliacozzo, suonarono a tutte le porte. Suonarono anche a noi. Mia madre li fece entrare in salotto dicendo che non sapeva nulla della signora Tagliacozzo. “Qui, come vedete,” disse “c’è mia madre e mio figlio.” I tedeschi, convinti, se ne andarono fortunatamente via. Cosi la signora fu salvata dalla deportazione. Fu poi portata in un luogo sicuro. Mia madre raccontava sempre che una volta chiusa la porta ai tedeschi, le si piegarono le ginocchia dallo spavento. Solo allora si era resa conto del pericolo corso. Magari se si fossero accorti dell’imbroglio, avrebbero deportato anche noi! Non erano certo teneri. Ma era felice di aver corso quel rischio per la signora Tagliacozzo. E anch’io sono fiero per lei.


Parte seconda

Il lavoro sicuro cambiò la mia vita. Erano gli anni del boom economico e anch’io ne feci parte. Cominciai a viaggiare per lavoro ma anche grazie ai biglietti gratuiti (free) ai quali avevamo diritto come dipendenti di una compagnia aerea.

Parigi, Londra, e poi New York. Dopo qualche anno, però. A quei tempi si aveva diritto a un volo nazionale con un anno di anzianità, europeo dopo due anni, intercontinentale dopo tre. Nel frattempo mi ero iscritto alla facoltà di lingue, all’Istituto orientale di Napoli, dove avevo scoperto che era possibile, insieme alla Ca’ Foscari di Venezia, iscriversi con qualunque diploma di scuola superiore. Ma presto dovetti rinunciarvi.

I professori erano spesso assenti, e andai più volte a Napoli per dare degli esami senza successo. Riuscii a darne solo due, consumando tutte le ferie (a quei tempi non riconoscevano permessi speciali per esami universitari) e usando il mio primo biglietto free per andare a Napoli in aereo (da Roma!!!). Ma tanto non avevo più ferie per quell’anno e tant’era usufruirne.

Parigi fu il primo suolo straniero che calpestai. Che emozione. Finalmente nella Ville Lumière!!! I gran boulevard, l’Etoile, la Concorde. E poi il Louvre (la Nike di Samotracia mi affascinò e credo gettò il primo seme per i miei futuri studi di storia dell’arte). Ma anche Place Pigalle con i locali... peccaminosi. Per noi italiani di allora era un altro mondo. Nell’Italietta di quei tempi era proibito perfino Playboy, il famoso magazine americano delle conigliette. E ne comprai varie copie anche per i colleghi. Sotto la Tour Eiffel, mi avvicinò un tale che parlava un italiano strascicato del sud e con fare misterioso mi propose delle foto di donne nude. Intravidi una busta con un ovale dal quale si intuiva un nudo femminile. Volevo vedere meglio, ma lui disse con fare spaventato: “No, no. La police, la police.” Per farmi capire che si trattava di materiale scottante anche per la Francia libertina. Lo presi pensando di far morire di invidia e di desiderio i miei colleghi. Non costava molto. Ma quando lo aprii, mi accorsi che erano, si, nudi femminili. Ma tutti quadri famosi. Leda e il cigno del Correggio, Amore profano di Tiziano, Olimpia di Manet, e cosi via. Insomma, la prima patacca da turista sprovveduto. L’uomo aveva scelto bene. Ero anche molto giovane. Fu anche l’ultima patacca che presi, però. E forse contribuì a rafforzare il mio interesse per l’arte. Diciamo che fu il primo testo sul quale mi... esercitai.

L’anno dopo Parigi, andai a Londra. E nella Londra di allora ebbi la sensazione di essere veramente all’estero, sensazione che non mi aveva dato Parigi forse perché città latina! Ma i cab, le bombette e gli ombrelli dei gentlemen nella City, gli autobus a due piani... Era un altro mondo per me, ma estremamente affascinante. Ho sempre amato Londra. Londra e Parigi sono le due città dove avrei potuto vivere escludendo la mia amata Roma. E il Covent Garden, i musical (finalmente!). Vidi My fair lady con Rex Harrison e Julie Andrews. E ovviamente il British Museum, la National Gallery e tutto il resto. Scoprii anche gli hamburger, per noi quasi sconosciuti. Da Forte’s, a Piccadilly. E venivano fatti sulla piastra con cipolla, senape, ketchup. Che buoni!!! Altro che quelli di oggi, precotti, per cui i ragazzini vanno pazzi!!!

Comprai un settimanale di cinema (altra mia passione). In copertina c’era un fotogramma del film di Kubrick, Arancia meccanica. Il protagonista è in carcere ed è nudo, chino davanti ai poliziotti che devono effettuare un’ispezione anale. Lo misi nel bagaglio a mano. Che fatica all’aeroporto di Roma convincere i doganieri che non si trattava di materiale porno ma solo di una normalissima rivista di cinema! Ora forse si esagera nel senso opposto ma fortunatamente il comune senso del pudore si è molto evoluto.

Le lotte sindacali allora erano solo all’inizio, soprattutto fra noi impiegati, quasi tutti molto borghesi e con l’alibi ho una famiglia e non posso aderire, nemmeno si rischiasse il licenziamento. Ma è anche vero che comunque si era segnalati e messi in una evidenza negativa. Personale di volo, operai e tecnici addetti alla manutenzione degli aerei erano retribuiti molto meglio di noi, non solo per ragioni tipo indennità di volo o specializzazioni varie, ma anche perché facevano valere i loro diritti con più coraggio. Molti di loro, soprattutto operai, erano comunisti, come dicevano i benpensanti, gente da non frequentare. Il tono usato nel pronunciare quel vocabolo era un misto di ribrezzo e distacco, lo stesso usato dal Cavaliere quando parla di loro. Fu indetto uno sciopero generale a cui nessuno di noi impiegati aderì. Hostess, steward e operai degli hangar vennero a protestare sotto i nostri uffici, sede anche della direzione generale. Si limitavano a sfilare in strada silenziosamente e ordinatamente. Nella direzione c’era molto disagio malamente mascherato dal far finta di continuare a lavorare, sbirciando ogni tanto dalle finestre. I borghesi benpensanti forse tremavano, temendo una qualche azione dei... bolscevichi!!! Io stavo alla mia scrivania e ad un tratto mi resi conto che loro, là fuori, sfilavano per il rinnovo del contratto ed eventuali migliorie sarebbero state anche per noi. Loro dimostravano anche per noi. Mi sentii un verme. Posai la penna, mi alzai dalla scrivania, e sotto lo sguardo esterrefatto dei colleghi uscii in strada e mi unii a loro. Ufficialmente non mi fu fatto niente, ma la mia promozione in arrivo fu misteriosamente bloccata per moltissimo tempo. Era l’anno in cui avevo diritto per anzianità ad avere un biglietto intercontinentale. Il capoufficio mi chiamò e mi disse che i voli erano pienissimi e non c’era possibilità di partire per New York. In realtà, comunque, noi con biglietti free non avevamo diritto alla prenotazione. Si partiva solo se c’era posto. Si poteva rischiare di non partire se l’aereo era pieno (ma c’era sempre qualche defezione) e rischiare di tornare a casa per riprovarci il giorno successivo. Quindi la tesi del tutto pieno non reggeva. Fu un modo diplomatico e subdolo di negarmi il biglietto gratuito, che non era un premio ma un diritto del lavoratore previsto dal contratto. Era la punizione, insieme alla promozione mancata, perché avevo fatto sciopero.


Parte terza

E venne il giorno della riscossa. Decisi che, dal momento che bisogna lavorare per vivere, volevo fare un lavoro che mi piacesse. Cominciai ad interessarmi di arredamento. Dapprima con qualche timido suggerimento ai colleghi, poi con dei coinvolgimenti sempre più professionali. E allora, forse con l’incoscienza dei giovani, attraversai anch’io il Rubicone. Lasciai il posto fisso per buttarmi a tempo pieno nel lavoro di arredatore. Bisogna anche dire che erano tempi in cui certe follie si potevano ancora fare! E qui inizia forse il periodo più felice e dorato della mia vita. Lo Studio Punto Tre (cosi si chiamava lo studio che avevo aperto con altri tre amici, di cui due architetti) divenne presto un punto di riferimento della vita romana del design.

Era il momento d’oro per l’arredamento di interni. Nuovi materiali come il perspex e l’acciaio o l’ottone cromato, nuove soluzioni, nuove tendenze, un nuovo modo di vivere la casa, certamente meno borghese degli anni ‘50 e primi ‘60. Le case bene di allora erano sempre arredate con mobili antichi. Il trumeau o trumoncino, come lo chiamavano le signore, troneggiava nei salotti, con la ribaltina aperta piena di cornici (rigorosamente d’argento) con ritratti firmati dai fotografi più in voga (le rappresentanti femminili della famiglia fotografate da Elisabetta Petri era un must) o vecchie foto di antenati in seppia per dimostrare un casato antico, per coloro che non avevano ritratti a olio dei bisavoli da esporre. I divani erano verde marcio o con tessuto damascato, i più coraggiosi sceglievano il rosso bordeaux o vinaccia, ma magari in velluto per renderli più preziosi. Per i più moderni c’era lo stile svedese in teak e tondino di ferro. I tradizionalisti col trumeau, riservavano questo stile alle camere dei ragazzi.

Il perspex fu l’elemento di rottura. Le case divennero più solari anche più anticonformiste (come cominciava ad esserlo, fortunatamente, anche la vita nei suoi rapporti sociali). La moda si diffuse rapidamente. C’era sempre più richiesta e oltre ai designer di professione anche personaggi famosi cominciarono a firmare collezioni. Willy Rizzo, celebre fotografo, compagno allora di Elsa Martinelli, cominciò a produrre e diffondere una sua linea di mobili. Ci fu perfino chi si rivolse ad Alain Delon. Una ditta di mobili presentò al Salone del Mobile di Milano una linea firmata dal celebre divo. Lo stand fu tra i più visitati. C’era una ressa incredibile, forse perché tutti speravano di vedere l’attore in persona. Notai che le stoffe che decoravano lo stand con panneggi e tendaggi tipo tenda araba erano bianchi con dei monogrammi in nero, AD, scritti in stile gotico. Mi ricordava qualcosa, dove l’avevo già vista? Poi ricordai. Ma certo! Era la sigla che Albrecht Dürer usava per firmare le sue opere. Che idea! Albrecht Dürer come Alain Delon. Un noto designer romano appartenente al jet-set, famoso playboy, presentò nella sua splendida casa davanti al Colosseo una collezione di oggetti in perspex firmata da Françoise Sagan, la celebre autrice di Bonjour tristesse. La ricordo pilotata dal playboy tra una folla immensa (tutta la Roma che contava, e non solo) che era intervenuta al vernissage, lei intimidita e con gli occhi spauriti da tanta gente che voleva conoscerla. Mi fece quasi tenerezza. Ebbi la sensazione che fosse usata, ma indubbiamente era un grande scoop usare il suo nome per firmare una collezione di oggetti d’arredamento in perspex., il materiale del momento. Nessuno ci aveva pensato, ma la collezione si sarebbe potuta chiamare Bonjour perspèx!

Dopo qualche anno di collaborazione, ci separammo dagli amici architetti. Ma fu una separazione amichevole, e restammo sempre in contatto. Siamo ancora grandissimi amici, tanto che mi sono rivolto a loro per i disegni esecutivi della famosa scenografia per lo spettacolo mai realizzata. Sono Danilo Parisio e Maurizio Macciocchi dello Studio Transit Design, uno dei più affermati studi romani di architettura. Restammo in due, io e Gianni Ungaro, fino all’‘87, quando Gianni purtroppo è mancato per un male incurabile. Era, ahimè, un grande fumatore! Mi manca ancora la sua verve, la sua gioia di vivere, il suo spirito di nobiluomo napoletano, il marchese Ungaro, un vero signore. Ed è a lui che dedico questo mio racconto.

Furono anni piacevoli, spensierati, gratificanti. Facemmo molti lavori, e non solo case. All’Hotel Hilton di Roma realizzammo la decorazione del ristorante La Pergola. E poi negozi, uffici direzionali. E non solo a Roma. Napoli, Bari, Porto Rotondo, Punta Ala, ecc. I nostri lavori erano pubblicati dalle riviste più affermate di arredamento: Casa Vogue, Interni, Maison & Jardin, House & Garden, AD, Bazar at Home e cosi via. Ma l’esperienza più bella fu quella di lavorare in Giappone. Realizzammo tre lavori. Kokaido, un bellissimo spazio dove si articolavano con eleganza vari settori dedicati all’arte contemporanea, con sculture e opere dei migliori artisti italiani (quadri di Burri, sculture di Mastroianni) esposte in grande armonia, alla moda, ai gioielli, sempre di firme italiane. Poi una boutique, Taichi, di abbigliamento femminile. Questi due a Tokyo. Ad Hamamatsu, una località sul mare molto alla moda, collegata a Tokyo dal velocissimo treno giapponese, lo Shinkanze, realizzammo il piano bar e il ristorante di un locale. I committenti ci pregarono di pensare ad un nome italiano che ricordasse quello del nostro Studio Punto Tre, e lo chiamammo Tra Numero Club. Era emozionante vedere quanto il made in Italy, ancora un po’ snobbato da noi italiani allora, fosse considerato il massimo. E ci sentivamo fieri per questo.

Gli anni passavano velocemente. Le tendenze cambiavano e si evolvevano, proponendo materiali diversi. Dopo il perspex venne il bambù, il sughero, poi tornarono i legni. La moquette, che conobbe un periodo di grande fortuna, venne sostituita da un ritorno al parquet. Dopo la scomparsa di Gianni Ungaro, lasciai lo studio di Palazzo Lovatelli e aprii una galleria in via Giulia, la bella e monumentale strada romana. Dapprima in società con Ida Benucci, una mia cara amica e cliente, ora celebre antiquaria in via del Babuino (la strada romana degli antiquari per eccellenza, insieme a via Giulia), specializzata nel barocco romano. Poi con Marika Morelli, la moglie di Danilo Parisio. Grazie a lei, ricominciai a collaborare con i miei amici architetti e ci sembrò di tornare indietro nel tempo, come in una recherche proustiana.

Tangentopoli segnò la fine di un periodo dorato, forse giustamente. Ma gli affari cominciarono a risentirne. Era sacrosanto il tentativo di tentare di mettere fine alla corruzione dilagante, ma la gente si chiuse come un istrice e non spendeva più. Dopo il periodo delle vacche grasse, iniziò quello delle vacche magre. Che ci coinvolse tutti. Ma purtroppo quelli che, come me, avevano lavorato senza aiuti politici e conoscenze importanti, ma solo per la propria esperienza professionale, furono travolti dal periodo magro, senza essersi arricchiti durante il periodo delle vacche grasse! A luglio del 2003 decisi di chiudere la galleria di via Giulia. Avrei proseguito la mia attività di arredatore allestendo uno studio in casa, come un... libero professionista. E fu in quel periodo che lessi l’annuncio che scorreva sugli schermi di Rai Tre: Se siete Over 60 e volete partecipare al mondo dello spettacolo, telefonate a... Mi sembrò quasi un segno del destino. Col negozio aperto non mi sarei potuto assentare per tre mesi. E allora, perché no? Telefonai. Partecipai alle selezioni, entrai in finale e poi nella finalissima. Facevo parte della schiera dei dodici eletti. Incredibile, ma vero! E così iniziò la grande avventura dei Super Senior.

Avrei ancora tante cose da dire sulla mia vita, le mie esperienze, ma ho cercato di non dilungarmi troppo per non annoiare i miei lettori, sperando che ce ne siano! Una lunga lettura su Internet non mi sembra troppo fruibile. Ma se qualcuno ha delle domande da farmi, mi scriva pure. Sarò lieto di rispondere. Abbiamo in mente di scrivere un libro a questo proposito. Magari, chissà, un editore che legge sul nostro sito potrebbe proporcelo (sognare non costa nulla). E allora si che mi potrei dilungare, raccontando di tutto e di più, anche sui momenti tristi e dolorosi che, come tutti, ho avuto, ma che ho volutamente escluso da questo mio racconto. E magari mettere a nudo (è vero che ho fatto anche uno strip-tease, andato in onda perfino su Blob, ma parlo in senso virtuale, non vi spaventate!) tanti lati della mia vita, e non solo professionale!!! Ho amato molto e sono stato molto amato, da chi non si sa! Il seguito... al prossimo numero o meglio al prossimo libro. Vedo già che gli occhi vi brillano dalla curiosità, ma resistete, gente, resistete! Eh, eh, eh, eh!

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