Salvo, durante uno spettacolo...
Che io sia toscano (di Volterra, per l’esattezza) mi sembra evidente. Gli umori toscani, come tutti quelli viscerali e profondi, sono fin troppo chiari per aver bisogno di presentazioni. Che ci volete fare? “L’uomo ha mille anime”, diceva Pirandello. Io non credo d’averne tante; forse ce n’ho una sola e confusa, ma quella vi offro con queste poesie e queste canzoni. E ve la offro con tutto il cuore, come abbiamo sempre fatto fra amici.

Salvo


Ragazzina

Ragazzina che passi per via,
sotto questo balcone sfiorito,
il tuo cuore cantare ho sentito.
Or ti prego volermi ascoltar:

chi ti parla è una donna sbagliata,
una povera vecchia zitella.
Ma son stata anch’io giovane e bella,
e l’amore ha cercato anche me.

Ho regalato al grano
l’oro dei miei capelli;
ai fiordalisi belli,
il color degli occhi miei.

A un campo di papaveri
il rosso della bocca,
e al vento che ti tocca
tutti i sospiri miei.

Ragazzina che passi per via,
non serbar le tue rose all’inverno
‘ché l’amore non bussa in eterno
ed un giorno sarai come me.



L’uomo invisibile

Parlar di me è assai difficile.
Non so descrivermi, sono invisibile.

Inconsistente, trasparente, sono spray,
come le vostre mille lire, ormai.
Un uomo glass, tipo traslucido,
fatto di gas di cielo limpido.
Per questo so di non piacer,
perché la gente non mi può veder.

Ho moglie e figli: che c’è di male?
Che non mi vedano, oggi è normale.
Sono grasso o magro,
biondo o bruno, chi lo sa?
Avrò la pancia o sarò snello?
Mah?!
Qualunque specchio, quadrato o tondo,
se mi ci guardo vedo lo sfondo.
Neppur la barba mi posso far,
perché non vedo cosa insaponar.

Se una cosa mi stupisce
è la gente che allibisce
se mi guarda e non mi vede
e ancora non ci crede d’esser come me!
Se una cosa oggi è incredibile
è la tendenza all’invisibile.
Tutti sembrano contenti
d’esser trasparenti tali e quali a me.

L’impiegatuccio e il funzionario
sono più diafani d’un lucernario.
E l’industriale, per le tasse è come me:
svanisce, sfuma, non lo vedi eppure c’è.
Quelli che passano la vita intera
fra la TV e la carriera,
è gente che anche se c’è
somiglia tanto a gente che non c’è.
Guarda per strada, sai quanta gente
tu puoi guardare senza veder niente?
Sono campioni dell’invisibilità,
pronti a giurare sulla propria utilità.
Genti che vivono vite furtive,
forse sono morte, forse sono vive.
E allora meglio uno come me:
tu non lo vedi però sai che c’è!



Omaggio a Paolo Conte
(2003)

Sole,
sole fra i rami e rondini.
Voci lontane.

Un tale,
guardandomi al di sopra del giornale,
ha lanciato un’occhiata da murena
sul mio gelato all’amarena.

Dalla radio del bar di fronte,
la voce roca di Paolo Conte
parla di caldo, di gelati,
d’amori torridi, disperati.

Io che non ho amori
o ne ho tanti,
sto seduto fuori,
un foglio davanti,
aspettando che mi nasca
dalla penna un’idea
che, stanca d’aspettare,
si venga qui a sdraiare,
nuda, sul foglio bianco.

Ma oggi non sono in vena.
Intanto,
sotto quegli occhi di murena,
il mio gelato all’amarena,
pian piano,
peccato,
si squaglia.
E il mare,
lontano,
barbaglia.

Du-du-dudu-dudu-dudu-dudu...



Due generazioni

Da qualche anno, se mi guardo attorno,
il mondo non mi sembra più lo stesso:
io non lo so, non ci capisco un corno,
ma più lo studio e più mi sento un fesso.

Quello che c’era ieri oggi è sparito
e quello che c’è oggi, ieri non c’era:
ieri marciavo via dritto e spedito,
oggi ho i dolori e porto la panciera.

Una volta guardavo le bambine
e quelle diventavan tutte rosse.
Oggi guardo alle varie medicine,
quelle per l’asma e quelle per la tosse.

Sto attento alle ventate, e alla Spalletta.
Non mi ci fermo se c’è troppo sole.
Ho abolito il salame e la pancetta,
se mangio il fritto il fegato mi duole.

Vo’ a letto presto, però dormo poco.
E quel poco che dormo sogno male.
Se mi scopro, al mattino sono fioco,
mi vien la febbre e sto tre giorni male.

E l’altro giorno, al pranzo dei Ragazzi
(la classe del trentuno) s’era in tre:
finito di mangiar, roba da pazzi,
gli altri due portarono via me!

Mi portaron di corsa all’Ospedale,
dove il referto fu di congestione.
Io penso invece m’abbia fatto male
la comitiva e la gran confusione.

Insomma, l’ho già detto, hanno ragione
quelli che il mondo vedono cambiato.
Fra la nostra e la tua generazione
il rapporto è freddino, anzi ghiacciato.

Ma sai cosa ti dico? Non m’importa
se in questo mondo mi ci trovo male.
Finché c’è la salute, che m’importa
a far due passi fino all’Ospedale?!



Pittore o scrittore?

Quando m’annoio e non so cosa fare,
mi vien la voglia di piglia’ ‘r pennello
e dipingere tutto ciò che è bello
e disegnare quello che mi pare.

Sento frullarmi storie nel cervello
ed ho voglia di scrivere un racconto,
anzi, per un romanzo son già pronto:
un romanzo d’ambiente, asciutto e snello.

Cerco l’ispirazione e non la trovo;
cerco i colori: mi si son seccati!
Così per tutto il giorno non mi muovo

e i miei progetti sono rimandati.
Ormai è tutta la vita che ci provo.
Basta. M’annoio senza surrogati!



Assaggi di caffè

Una volta in albergo, appena mi svegliavo
con gli occhi ancora chiusi, al bar telefonavo:
“Pronto! Servizio ai piani, ‘giorno signore, dica.”
“Mi mandi un caffè carico, fatto bene, all’antica.”

Arrivava una tazza nera, colma, bollente,
il cui sapore amabile mi svegliava la mente.
Bastavan pochi sorsi del liquido fatato,
mi ritrovavo sveglio, efficiente, sbarbato.

Sono passati gli anni, son cresciuto parecchio,
son diventato grande, poi maturo, poi vecchio.
Tutto è cambiato. Il mondo, no, non è più lo stesso.
Vanno tutti nel bagno, nessuno va più al cesso.

I ciechi son scomparsi, ci sono i non vedenti.
I malati guariti: ci son solo i pazienti.
Anche il caffè è cambiato. Ora si chiama espresso,
e per poterlo esprimere serve tutto un complesso

di regole, di norme, di procedure arcane.
E al povero barista, che si guadagna il pane
con brioche e cappuccini, gli è venuto un complesso:
quando arriva un cliente che gli chiede: “Un espresso”

deve saperlo fare in ventitré secondi.
Venticinque millilitri, esatti, tondi, tondi,
dentro una tazza ellittica, di porcellana bianca.
Tessitura compatta e che non ceda, stanca,

al peso dello zucchero che il cliente, distratto,
ha osato, orrore!, aggiungere al gusto dell’estratto,
guastandone i sentori di fiori, d’insalata,
di mandorle, di noci, di frutta sciroppata.

Ma il profumo più dolce di un tal capolavoro,
quello che rende unico questo nostro tesoro.
La sensazione tattile di questo mio caffè
è che questa tazzina io la bevo con te.



Ancora Limerick

Un signore di Saline
indossava camicie con le trine.
Aspettava al Bazar
l’arrivo dello Zar.
Quello sciocco signore di Saline.

Una donna di Trani
abitava un quartiere di due vani,
e aspettava in salotto
che il pranzo fosse cotto.
Quella vanagloriosa donna di Trani.

Un grosso alabastraio di Volterra
tornato dalla guerra
prese in mano un mattone
e ci scolpì un cannone.
Quel grosso bombardone di Volterra.

Un ottico di Pallanza
metteva gli occhiali ai pesci di paranza.
A un pesce gatto
mise lenti a contatto.
Quel maniaco ottico di Pallanza.

Un materassaio di Assisi
alle pecore faceva grandi sorrisi.
Le teneva in gran conto
per avere la lana con lo sconto.
Quel furbo materassaio di Assisi.

Un astronomo di Segesta
per vedere le stelle
si dava gran legnate sulla testa.
E se usava l’abete
vedeva le comete.
Quello studioso astronomo di Segesta.

Un presbite priore di Fauglia
saliva sopra il duomo, su una guglia.
Per vedere dall’alto
i buchi nell’asfalto.
Quel curioso priore di Fauglia.



Dodici amici

Dodici amici
vivevano infelici
a Parigi.
Uno viveva qua,
l’altro abitava là,
uno viveva su,
un altro abitava giù.

Passò più di un mese,
nessuno parlava francese.
Nessuno di quegli infelici
sapeva degli undici amici
che aveva a Parigi.

Lo stesso giorno
tutti fecero ritorno.
Era un giorno sereno
quando presero il treno.
In dodici scompartimenti
viaggiarono soli e scontenti.

Si trovarono a Milano, tutti lì
aspettando un tassì.
Nessuno dei dodici infelici
disse agli amici
d’essere stato a Parigi...



Amore al sole

Sei uscita dal mare, bagnata.
Com’eri bagnata!
Ti sei sdraiata al sole
e ti sei asciugata:
com’eri asciugata!
Considero:
l’acqua ti bagna, il sole t’asciuga.
E io che faccio?
Ti guardo.
E guardandoti
né ti bagno, né t’asciugo.
Il mio sguardo t’è indifferente,
non ti serve a niente.
Ahimè, mi stendo al sole,
gli occhi socchiudo
e, dopo poco,
sudo.



Volterrani in vacanza

Un tale di Via Guidi
andò in vacanza al Polo Nord.
Andò fra i ghiacci eterni
volando sul Concorde.
Ma un giorno che pescava
dentro un buco nel ghiaccio,
gli venne all’improvviso
voglia di castagnaccio.

«Pensa a quest’ora, alla Spalletta.
Che frescolino, che bella arietta!
T’affacci al muro, guardi laggiù,
vedi Saline, che vuoi di più?»


Un Tizio di Via Sarti
capitò un giorno a Parigi,
passeggiò sui Boulevard,
sotto i grandi cieli grigi.
Per motivi d’appetito
Chez Maxime frequentò,
ma, fra ostriche e champagne
un pensiero lo turbò.

«Un bel panino con il melone
giù da Badò, alla stazione!
Poi da Ciriè un buon bicchiere:
Parigi è quella, quella è la Ville Lumiere!»


Un tale del Golfuccio
giù in Egitto si recò.
Le Piramidi e le Sfingi,
anche le tombe visitò.
Ma un giorno che da solo
girellava nel deserto,
gli sembrò che quell’ambiente
fosse un po’ troppo all’aperto.

«Qui nel deserto
uno c’impazza!
Trovi più gente
ai concerti in Piazza.
Non fo per dire, la cosa è chiara:
è più viva Volterra del Sahara!»




Cingallegra Smith

Il bucaniere Cingallegra Smith,
si veste solo in Carnaby Street.
È un brigante, un tremendo briccone,
ma impeccabile in ogni occasione.

Ha le scarpe brillanti, di vernice,
con una fibbia d’oro laterale.
Porta calzini occhio di pernice,
colore strano, si descrive male.

I pantaloni poi, sono un bijou!
Stoffa antipiega, tutta pura lana,
un pantalone rosso e l’altro blu,
sbuffanti ed ampi come una sottana.

Sorregge i pantaloni una cintura
tutta in cuoio di Russia e brillantini
e, intorno, di perline un’impuntura
fino alla fibbia d’oro e smeraldini.

Per colmo di prudenza e per paura
che qualche sciabolata abbia a tagliarla,
ha le bretelle oltre alla cintura,
oggetto di cui tutto il mondo parla!

La camicia, con trine ricamate,
in pura seta rosa di Shanghai,
ha sul petto le cifre arabescate
e il disegno leggero di un tranvai.

Il giacchetto tre quarti a bolerino,
con i revers sciallati in raso rosso,
ha dal lato sinistro, sul taschino,
un teschietto d’avorio con un osso.

I guanti, tipo guida, traforati,
con le dita di fuor, sono un modello
uso Les Mans; son molto ricercati
da chi fa professione di duello.

Una pezzola a scacchi, bianca e nera,
lo ripara, fissata con tre spille,
dal fresco penetrante della sera,
essendo delicato di tonsille.

E quando, negli scontri più cruenti,
lui vola all’arrembaggio sciabolando
e cala sul nemico gran fendenti,
mentre la ciurma sua lo segue urlando,

più che il terror di quello sciabolone,
quello che blocca i poveri assaliti
di fronte al Cingallegra, è ammirazione
per l’eleganza di quei suoi vestiti.

Ma la cosa di cui lui va più fiero,
quello che lo distingue dalla massa,
è un cappello a tre punte, tutto nero,
che sull’occhio bendato gli si abbassa.

Ha una leggera trina, tutt’intorno
alla parte centrale fatta a maglia.
C’è il pozzetto del ghiaccio, per il giorno,
quando il calor del sole lo bersaglia.

Una piuma di struzzo, tutta bianca,
gli scende dal cappello sulla spalla.
E davanti e di dietro, a dritta e a manca,
mentre quello cammina, ella traballa.

E nessuno perdeva l’occasione
per elogiare queste sue virtù:
“Perché non pianti questa professione?
Perché non provi a darti alla tivù?”

E il nostro bucaniere fanfarone,
pago più dell’applauso che dell’oro,
decise di cambiare professione,
di far qualcosa di maggior decoro.

Dette l’addio alla ciurma affezionata
con una cena a La tortuga zoppa.
Vendette la sua nave da pirata,
dato che per lui solo ormai era troppa.

Piantò le tende in una gran città,
cercò di farsi amico d’un regista
capace di sfruttar le qualità
tanto evidenti del brigante artista.

Coi bei vestiti dentro un valigione,
girò per mesi da un vedremo all’altro.
Apparve un martedì in televisione
come comparsa nel Brigante scaltro.

Da quel giorno mancarono i messaggi
di Cinga, il bucaniere elegantone,
che scampò alle battaglie, agli arrembaggi
e andò a morire alla televisione.



Ave Caesar, morituri te salutant!

Un po’ alla volta se ne van tutti di qua,
lasciando affetti, effetti e civiltà.
Sian poveracci, ricchi, belli o brutti, chissà
cos’è che li convince ad andar di là!
Se il ricco non fa il ricco, muore come un travet,
se muore il poveraccio e muore il Re,
grida l’Ambasciatore: “Muore l’Imperatore!”
e dopo crepa anche l’Ambasciatore.
Poi muore il Finanziere, soccombe il Ragioniere,
schiantano il Rotariano e il Giardiniere.
I Generali, in genere, non muoiono in battaglia.
Con il Soldato, invece, non si sbaglia.
Si spezza l’Impiegato, invece il Pensionato
di regola finisce disseccato.
Ammira l’Ammiraglio, mentre muore per sbaglio
(non si trova a suo agio in un naufragio).
Coerente l’Uomo Di Mondo che va nell’altro mondo
col frac e lo sparato: s’è sparato!
Ed un Calcolatore che non ha calcolato
che un calcolo l’avrebbe assassinato.
E muore dal gran ridere un famoso Umorista,
ma proprio mentre muore si rattrista.
Muoiono i Dirigenti (e tutti son contenti),
muoiono gli Operai (ma questo non lo sai).
Ogni morte di papa muore un Papa,
ma ogni volta che un Papa in Paradiso sale
nasce (miracoloso!) un Cardinale.
Stranamente allettati muoiono gli ammalati.
I Sani se ne van motorizzati.
La Vedetta Lombarda un minuto non tarda,
ed ogni giorno cade a mezzogiorno.
I Mafiosi, festosi,
si tendono gli agguati
e si stendono poi morti ammazzati.
Muoiono gli Ignoranti
e muoiono anche i Dotti,
ma l’unico immortale è l’Andreotti.
Muoiono i furbi e muoiono i coglioni.
Anche quelli che votan Berlusconi.



Beppino e la draga

Beppino era l’operaio della draga,
quella che il fiume scava
e porta su la sabbia.

Beppino tutti i giorni la curava.
Quella nel fiume andava,
e carica di sabbia ritornava.

Ma un giorno, il buon Beppino
purtroppo si ammalò.
E la draga, fu destino,
quel giorni si guastò.

E Beppino fu costretto
a buttarsi giù dal letto.
Corse al fiume trafelato,
nella sciarpa infagottato.

E mentre il macchinone controllava,
sentì che una vocina lo chiamava...

«Beppino, Beppino...»

«Chi è? Chi è? Chi è?»

«Siamo i carrelli della draga,
stufi d’andar nel fiume:
c’è umido, sudiciume...
Basta! Nel fiume più.

Vogliamo andare su per aria,
tra i fiori, con gli uccelli.
Digli alla cinghia che i carrelli
in fondo al fiume non ci vanno più.»

E Beppino, meravigliato, si provò a parlare alla cinghia...

«Ma cosa vogliono questi carrelli?
Vivono alle mie spalle...
Ma raccontino meno balle,
e poi vadano pure in su!

Anch’io son stufa d’andare nell’acqua.
La ruggine m’affligge.
Ma chi comanda qui son le pulegge.
Me non m’ascoltano: chiediglielo tu.»

E Beppino, sempre più meravigliato, girò la domanda alle pulegge.

«Ma che s’è messa in testa la cinghia?
Le girano i bulloni?
Certe rivoluzioni
ormai non si fanno più.

L’ingranaggio comanda.
Noi siamo solo povere pulegge
e dobbiamo obbedire alla legge.
Agli ingranaggi chiediglielo tu.»

E Beppino, ormai stordito, si rivolse agli ingranaggi.

Così risposero gli ingranaggi,
parlando insieme fra i denti:
«Che pulegge esigenti!
Son due zitelle, si sa.

Noi lavoriamo in gruppo.
Siamo tanti, tutti incastrati.
Dal motore siam comandati.
Ci rompe i denti, se non gli obbediam.»

E Beppino, un’altra volta, si rivolse al motore.

«Senti chi parla», ronzò il motore.
«Sto qui a girar su me stesso.
Faccio tutto da solo, e mi scasso,
il lavoro di trenta caval.

Gli altri lavorano insieme;
vanno in acqua, vedono gente.
Io, quando arriva la corrente,
eccitato mi metto a girar.»

E Beppino, stupito e ansioso, si rivolse alla corrente.

«Caro Beppino, mi meraviglio
che tu faccia codesta domanda.
Sai benissimo qui chi comanda:
sei tu con l’interruttor.

Tu mi comandi d’andar nel motore.
Tutto il resto è conseguenza:
quindi ognuno porti pazienza.
Sei tu il padrone, decidi tu.»

Beppino era il padrone della draga.
Questo non lo sapeva, non se lo immaginava.
Ed ora, riparando il macchinone,
una rivoluzione,
con chiavi e cacciavite, soffocava.

E allora, tutto a un tratto,
si ricordò Beppino
di quando era più giovane
e voleva far casino.

E pensando a quei modelli,
dette ascolto ai suoi carrelli,
alle cinghie ed ai motori,
che chiedevano cielo e fiori.
Bastò soltanto un po’ di dinamite
e le richieste furono esaudite.

BUM!!!



Qui un giorno

La storia è sempre uguale,
da sempre... per sempre.
Non è cambiato niente...
ma niente, ma niente!
Cambia solo la gente
che nasce, che muore,
che vive come te.
Tu credi di contare
qualcosa nel mondo.
T’illudi di cambiare
la faccia del mondo.
E invece c’è qualcuno
già pronto al tuo posto
che ti sostituirà.
Se la cosa ti può consolare,
pensa che non c’è niente da fare.
Tocca a tutti il bel gioco lasciare
senza pianto né traccia di sé.

La storia è sempre uguale,
da sempre... per sempre.
Non è cambiato niente...
ma niente, ma niente!
Cambia solo la gente
che nasce, che muore,
che ti sostituirà.


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