Ardengo
La storia d’Ardengo non è una storia di tutti i giorni, ma solo del giovedì e del sabato.
Chi era Ardengo? Era Ardengo e basta. È vero che una volta aveva anche provato ad essere qualcun altro, ma la cosa non era andata bene, anzi, non era andata affatto, al punto che si fu costretti a spingerla.
Chiarito questo punto, possiamo procedere con la nostra storia.
Alla base di tutto ci fu l’episodio del matrimonio.
Per prima cosa fu fissata la chiesa: e fu una fortuna, perché nei giorni precedenti, non essendo ancora stata fissata, dondolava in qua e in là ed era difficile imbroccarne la porta senza sbattere nel muro.
Furono ingaggiati dodici paggi, ventisei Lanzichenecchi ed un numero imprecisato di comparse, che purtroppo risultarono tutte scomparse da tempo.
I fiori furono procurati da un maestro di scherma, mentre i confetti furono recapitati da un capitano d’artiglieria guarnito della sua guarnigione. Il velo lo portò alle tre di notte una donna misteriosa che camminava seminando sgomento e semi di girasole.
L’unico problema vero furono le candele, per le quali si pensò in un primo tempo a Mighe, un artigiano famoso per i moccoli, ma poi si ritenne la cosa sconveniente e si ripiegò sulle solite Champion.
Il giorno delle nozze tutti erano emozionati, tutti meno un tale che nessuno aveva mai visto e che, seduto a un tavolo del Caffè Lungo, si scompisciava dalle risate. Fu tollerato perché la presenza dell’Uomo Che Ride dette alla cerimonia un aspetto vagamente letterario tutt’altro che disdicevole.
Il corteo si formò quasi per incanto. La sposa in testa, portata a spalle dal babbo e da un cognato di Monza. Lo sposo, con la torta sotto il braccio, li seguiva a dodici metri di distanza leggendo un libro di Fantascienza.
Gli zii ed il grosso della comitiva si persero per strada e furono ritrovati alcuni giorni dopo in un paese vicino mentre prendevano parte ai festeggiamenti per il Santo Patrono.
La chiesa vuota fu riempita in fretta e furia, con masserizie che, secondo l’opinione del regista, davano all’ambiente un tono di calda intimità.
Tutto si svolse con estrema regolarità. Il tragitto dalla porta all’altare richiese i regolamentari due minuti e quattro secondi. Lo sposo fu costretto a ripetere la prova avendo effettuato una falsa partenza.
Al momento del si tutti dissero di si eccetto la sposa, che rilevò un difetto di forma nell’esposizione dei fatti. Tuttavia nessuno ci fece caso, data l’euforia del momento.
Seguirono istanti di grande eccitazione; a tre persone venne la febbre e a molti, sia pure a qualche giorno di distanza, venne uno sfogo cutaneo alla regione occipitale sinistra.
Una donna anziana, già provata da precedenti matrimoni, svenne e si perse nella calca. Di lei, quando la folla fu dispersa dalla polizia, si ritrovò una scarpa ortopedica e il testamento, accuratamente sigillato dentro una bottiglia di birra.
Gli sposi furono portati in trionfo attraverso tutto il paese e lungo l’Autostrada del Sole. Al casello, essendo risultati sprovvisti del biglietto, furono multati e si videro ritirare la licenza matrimoniale.
Cosa c’entri Ardengo in tutto questo, se lo stanno ancora chiedendo in tanti.
Giocondo e Tristano
Vivevano una volta, in un paese non lontano da qui, due strani ometti.
Il primo, di nome Giocondo Sereni, abitava in una casetta tutta bianca, con la porta e le finestre d’un bel verde brillante e un bel balconcino sempre pieno di fiori. Sul tetto avevano fatto il nido gli usignoli.
Il secondo si chiamava Tristano Cupi. La sua casa, proprio in fondo al paese, sulla strada del cimitero, era fatta di solida pietra scura, con la porta e le finestre di quercia nera, sempre chiuse, anche durante le giornate più calde e luminose dell’estate. Gli unici fiori della casa, una pianta di crisantemi, nata spontanea accanto alla porta. Sul tetto sembrava si fossero date appuntamento tutte le civette della regione.
Il signor Giocondo era la persona più amabile del paese. Voleva bene a tutti, sorrideva a tutti, trovava tutto bello e tutto giusto, cercando la giustificazione di tutto. Non c’era una cosa che sembrasse dargli noia, niente che lo infastidisse, che lo urtasse. Niente che potesse togliergli il sorriso dalle labbra o che potesse strappargli un giudizio negativo.
Trovava meravigliosa la gente giovane e bella, e interessante quella brutta. Ammirava il ricco per la sua abilità nell’accumulare il denaro e chiamava fortunato il povero per la semplicità della sua vita. Trovava divertenti gli stupidi, interessanti e furbi gli imbroglioni. Riteneva premiate dalla sorte le madri prolifiche, ma diceva fortunate alle zitelle per la mantenuta libertà.
Il signor Tristano era un tipo completamente diverso. Trovava da ridire su tutto. Nessuno poteva dire d’averlo mai visto sorridere. Niente al mondo era giusto, ben fatto o riuscito. In tutto, anche nelle cose che agli altri apparivano perfette, trovava qualcosa di storto, di sbagliato.
I poveri gli davano la nausea, ma i ricchi gli facevano schifo. I sani erano degli incoscienti: gli ammalati di domani, che poi si sarebbero lamentati di quanto essi stessi si andavano procurando.
Il profumo dei fiori fa male alla testa, il sole rincretinisce, il freddo fa venire la polmonite, gli uccelli sono nocivi perché mangiano il raccolto e i cacciatori crudeli perché ammazzano gli uccelli. Su tutto, insomma, aveva un giudizio negativo.
Le sue parole erano poche, taglienti, dure, spesso anche giuste, ma sempre negative.
Logicamente gli abitanti di quel paese non avevano molta simpatia per il signor Tristano, anche se nessuno aveva mai avuto il coraggio di contraddirlo nei suoi giudizi, che, per quanto negativi fossero, erano sempre estremamente lucidi e motivati.
In compenso, col passare degli anni, anche il signor Giocondo aveva visto decrescere la simpatia degli altri nei suoi confronti. La gente non provava più il piacere d’una volta nel ricevere i suoi sorrisi e i suoi complimenti. Non è simpatico a nessuno chi trova buono e giusto il tuo operato e poi apprezza in ugual misura quello che fa il tuo vicino, col quale non ti parli da anni. Un buon giudizio lusinga quando riguarda uno solo, o pochi. Quando invece riguarda tutti, finisce col non interessare nessuno.
Il signor Giocondo capiva lo stato d’animo dei suoi compaesani e, tanto per non smentirsi, lo trovava giusto. Anzi, il fatto che tutti ormai la pensassero alla stessa maniera nei suoi confronti gli confermava che il paese era fatto di gente brava a sincera alla quale non si poteva non voler bene.
Le cose erano andate avanti cosi per anni. I due si conoscevano di vista e di fama, ma avevano sempre evitato ogni rapporto personale.
Tristano pensava che Giocondo era uno sciocco superficiale, e Giocondo trovava Tristano commovente per tutta la tetraggine che era costretto a portarsi addosso.
Siccome gli anni passano per tutti e per tutti, indipendentemente dal carattere e dalle qualità personali, arriva il giorno della partenza, anche per i due ometti venne il momento d’andarsene da questa terra.
Destino volle che se ne andassero insieme, lo stesso giorno, quasi la scomparsa dell’uno rendesse inutile la permanenza dell’altro.
Al momento decisivo, il signor Giocondo pensò che non era bello andarsene cosi da un mondo tanto bello e piacevole. Fu il suo primo pensiero triste e, guarda caso, fu anche l’ultimo.
Il signor Tristano ebbe invece il tempo di pensare che poteva considerarsi lieto d’andarsene da un mondo tanto sbagliato, al quale lui non aveva certamente lesinato critiche e rimproveri. E fu così che lasciò la vita con un piccolo sorriso sulle labbra: il suo primo sorriso.
Essendosene andati insieme, furono messi a riposare uno accanto all’altro nel piccolo cimitero a pochi passi dalla casa del signor Tristano. Sulla terra che copriva le loro nuove residenze nacquero spontaneamente erbacce e margherite, quasi a formare una coperta che li riparasse entrambi.
La gente, passando lì davanti, non rideva più dei sorrisi di Giocondo e non temeva più i giudizi di Tristano, ma li ricordava. E nel ricordo li fondeva insieme, quasi si fosse trattato di una sola persona nella quale, bonomia e saggezza, severità e rigore, avessero trovato un raro, meraviglioso equilibrio.
Una storia di spiriti
C’erano una
vodka due fratelli,
J&B, entrambi innamorati di
Julia, un vero
fior di vite, figlia di
Carlos Primero e nipote di
Pedro Domeq, suo
cognac, un tipo
bourbon e
Courvoisier.
Quando
Carlos seppe della cosa, esclamò: “Per Bacco!”. E mandò subito a chiamare
Gin, l’amico
fizz.
Gin arrivò e bussò al
porto:
stock stock.
Venne ad aprirgli
vernaccia, la vecchia governante che lo fece accomodare nel
Ballantine.
Gin, che temeva d’essere in ritardo, chiese: “Che
liquore sono?”. E subito dopo ripeté, gratis, in portoghese: “
Curaçao?”.
Proprio in quel momento la pendola
Batida le
seltz e un quarto (di vino).
Gin, che sentiva il bisogno di una
Cachasa, aprì la porta della
bagna, dove
Carlos Primero, nudo come un
vermut, stava facendo
OP, decantando un’aria tratta dal
Dom Perignon.
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“Chianti ha fatto entrare?”, domandó lo stravecchio, che teneva sempre molto al Gran Marnier. “Non c’è più etichetta nera, Don Bairo!”
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“La Vecchia Romagna”, rispose Gin e aggiunse: “Ma tu non sei più Cordial come una volta!”
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“Lawson”, rispose amaro, anzi amaretto il vecchio Carlos. “Ma che vuoi, il lungo invecchiamento mi ha fatto calare un nebbiolo sulla menta. Ormai non barolo più neanche a carte quarantotto! Il buon giorno si vede dal Martini e se la vita (anzi, la vite) la brandy come l’ho presa io, perché Campari? E in testa ho sempre qui che mi Martell un dubbio atroce: sarà nato prima il Vov o la Galliano?”
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Gin vide nell’occhio brillargli una
Lacrima Christi. Si lanciò verso di lui ma non fece in tempo ad intervenire:
Slivowitz sul pavimento e
Ramazzotti per terra, mentre
Carlos Primero, invocando il nome del
Cardinal Mendoza e lanciando acutissimi
whisky, aprì la finestra e si
Lancer nel
vuoto a perdere, incurante di lasciare una
Veuve Cliquot nel mondo degli spiriti.
Colazione di lavoro
“Sì, signori:”, disse il Dirigente Centrale con tono deciso e insolitamente duro “è inutile che stiamo qui a ripetere gli stessi concetti. Se vogliamo uscire dalla situazione di stallo in cui ci troviamo, dobbiamo muoverci tutti assieme, agire ed operare tutti nella medesima direzione, tutti sotto la spinta poderosa della filosofia aziendale, ispirata all’illuminato disegno della Proprietà.”
Disse queste parole col tono ispirato e commosso che caratterizza i Dirigenti di quel grado in quelle circostanze, ma soprattutto ebbe cura di pronunciare la parola
Proprietà con la maiuscola, come riesce solo a loro.
Il gruppo dei Dirigenti Periferici e dei Dirigenti Decentrati che circondava il Dirigente Centrale fu percorso da un brivido. Ci fu in aria come una vibrazione, quasi le parole del D. C. avessero prodotto un flusso di volontà e determinazione così intenso da poter essere percepito.
I D. D. e i D. P. si presero per mano e formarono due cerchi concentrici perfettamente rispondenti al rapporto gerarchico che li univa.
I due cerchi cominciarono a girare, l’uno in senso opposto all’altro: prima lentamente, poi, mano a mano, sempre più velocemente.
Intanto, monotono e ritmato, saliva in proporzione alla velocità, il canto del Ritornello Dirigenziale, la
psicofilastrocca cui si fa sempre ricorso nei momenti di particolare impegno:
Tutti eretti, dritti e netti,
schietti, eletti, tutti stretti,
dirigiam la Direzione
dirigendo il Dirigione.
Digeriam la digestione
digerendo il Digeribile,
dirigendo il Dirigibile.
Tutti dotti Direttori
rotti a tutto, tutti Dottori
con il dito eretto e dritto
contro il retto dei diretti.
E trottando dietro a tutti
tratteremo tra i distrutti.
(Il testo della
psicofilastrocca, tenuto fino a ieri rigorosamente segreto, ci è stato fornito da un Dirigente Locale in rotta con l’Organizzazione. Ovviamente la sua identità, di cui noi rispondiamo, resta riservata.)
La carica contenuta nei versi (che solo a un esame superficiale possono apparire ingenui, quasi bambineschi) contribuiva a far aumentare la velocità di rotazione dei cerchi, mentre saliva il tono delle voci.
Ben presto la velocità fu tale che il vento da questa provocato agitò i capelli e i baffi bianchi del D. C., in piedi al centro dei due cerchi, mentre sopra di lui il lampadario ruotava, afferrato da quel vortice.
Le voci eran diventate un tuono ritmato che faceva vibrare le pareti della stanza e i quadri sinottici che vi erano appesi.
Il vento e il tuono sembravano arrivati al limito massimo, quando si aprì una porta e un cameriere, facendosi largo con un ventilatore annunciò, inserendosi con un’abilità che denunciava una lunga pratica, nelle brevi pause della
psicofilastrocca:
TUTTI
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ERETTI
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“Il pranzo...
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...è pronto!”
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Il moto circolare e il tono della declamazione cessarono di colpo.
IL D. C., trovatosi all’improvviso senza vento, perse l’equilibrio e cadde a terra malamente, mentre il lampadario continuava a ruotare in un tintinnare di cristalli e di lampadine fulminate.
Il cameriere si ritrasse velocemente entro una nicchia ricavata a quello scopo nello spessore della porta. La massa dei D. D. e dei D. P. si incastrò nel passaggio provocando un violento risucchio d’aria che trascinò per alcuni metri il D. C. mentre i suoi bianchi capelli sventolavano, quasi un simbolo di fierezza.
Dalla sala da pranzo provenivano, insieme al profumo delle
pommes de terre à la Parmentier, le risate sui risotti, il croccar delle crocchette, lo scrosciare dei cosciotti e un canto sommesso e delicato che saliva in alto come il fumo acre (anche
Odo era
acre, pur non fumando...) e bluastro delle sigarette accese.
Digerendo dirigiamo, dirigendo digeriamo.
Sgranocchiamo tutti in coro: Colazione di Lavoro!
Tutti attorno ai tortellini,
incrostati sui crostini, ci involtiam negli involtini.
Risaliamo le insalate e scrostiamo le crostate.
Difendiam le nostre coste degustando le aragoste.
Nel Paese del diritto, puntiam dritti al pesce fritto.
Noi la Patria abbiam sovrana: viva il fritto all’italiana!
Dirigendo digeriamo, digerendo dirigiamo.
Un sonoro tintinnar di calici e di
cozzanti brandy (1) proveniva dalla sala, mentre una lunga fila di segretarie-infermiere vestite di bianco-azzurrino passava silenziosa nel lungo corridoio tappezzato di moquette, spingendo carrelli gommati sovraccarichi di statistiche e barattoli di bicarbonato.
Sulla porta di sevizio (quella del
reparto torture), un inserviente appese un cartello con su scritto DIREZIONE VIETATA e tolse quello che c’era prima: MEGLIO UN RUTTO OGGI CHE UNO SBADIGLIO DOMANI.
Fuori, sulla strada battuta dall’implacabile sole dell’estate, lontano dal fresco umido dei condizionatori, qualche fanatico esaltato si ostinava a lavorare costruendo altri Palazzi e impiantando nuovi ripetifono teleterici... cioè... ripetelé torifonetici... insomma... quelli.
(1) citazione colta...